Parte Terza

Teoria generale delle nevrosi

Lezione 16. Psicoanalisi e psichiatria

Signore e signori, sono lieto di rivedervi, dopo un anno, per continuare le nostre discussioni. Lo scorso anno vi ho parlato del trattamento psicoanalitico degli atti mancati e del sogno; quest'anno vorrei introdurvi alla comprensione dei fenomeni nevrotici che, come scoprirete presto, hanno molto in comune con i primi due. Ma vi dico fin d'ora che questa volta non posso concedervi di assumere la stessa posizione dell'anno scorso. Allora mi impegnai a non fare alcun passo senza avere prima il vostro consenso; discussi molto con voi, mi sottoposi alle vostre obiezioni, riconobbi Voi e il vostro "sano buon senso" come l'istanza decisiva. Ora ciò non è più possibile, per una ragione molto semplice. Gli atti mancati e i sogni non vi erano estranei come fenomeni; si potrebbe dire che ne avevate tanta esperienza quanto me o che altrettanto facilmente potevate procurarvela. Il campo dei fenomeni nevrotici vi è pero estraneo; a meno che non siate voi stessi medici, non avete altro accesso a tali fenomeni che la mia esposizione, e a cosa serve la migliore capacità di giudizio se non si ha familiarità con il materiale da giudicare?

Non interpretate però il mio avvertimento come se abbia l'intenzione di tenere lezioni dogmatiche e richieda fin d'ora la vostra fede incondizionata. Questo fraintendimento mi farebbe un grave torto. Non voglio convincere nessuno, intendo solo dare impulsi e scuotere pregiudizi. Se non siete in grado di giudicare perché vi manca la conoscenza materiale dei fatti, astenetevi sia dal credere che dal negare. Ascoltatemi e lasciate agire su di voi le mie parole. Le convinzioni non si ottengono tanto facilmente, o se raggiunte senza fatica si rivelano ben presto prive di valore e incapaci di resistere alle obiezioni. Soltanto chi come me ha lavorato per molti anni sullo stesso materiale e ha vissuto così in prima persona le stesse esperienze nuove e sorprendenti ha il diritto di avere delle convinzioni. Ma in ogni caso a che servono nel campo intellettuale convinzioni rapide, conversioni fulminee, o momentanee avversioni? Non sapete che il coup de foudre, l'amore a prima vista, proviene da un campo del tutto diverso, quello affettivo? Neppure dai nostri pazienti pretendiamo che si sottopongano alla cura già convinti delle tesi psicoanalitiche o come seguaci della psicoanalisi. Anzi spesso tale atteggiamento ci insospettisce. L'atteggiamento nei nostri confronti che preferiamo è uno scetticismo benevolo. Lasciate dunque che la concezione psicoanalitica cresca dentro di voi, a poco a poco, accanto a quella popolare o psichiatrica, finché si presenta la possibilità che queste due concezioni possano influenzarsi, misurarsi a vicenda e portarvi unite a una conclusione.

D'altronde non dovete pensare neppure per un istante che ciò che vi espongo come la concezione psicoanalitica sia un sistema speculativo. Si tratta piuttosto di un'esperienza [Erfahrung], o espressione diretta dell'osservazione, o risultato di una rielaborazione di quest'ultima. Risulterà dall'ulteriore progresso della scienza se tale rielaborazione sia stata compiuta in modo sufficiente e legittimo; per quanto, essendo trascorsi quasi due decenni e mezzo e trovandomi in età abbastanza avanzata, posso affermare senza vantarmi che è stato un lavoro particolarmente difficile, intenso e profondo quello che ci ha consentito di trarre tali osservazioni. Spesso ho avuto l'impressione che i nostri oppositori non volessero affatto prendere in considerazione tale origine delle nostre affermazioni, come se ritenessero che si tratti di idee puramente soggettive, alle quali chiunque altro può opporre ciò che preferisce. Tale atteggiamento non mi è del tutto comprensibile. Forse dipende dal fatto che in genere un medico entra così poco in contatto con i nevrotici, presta così poca attenzione a ciò che hanno da dire, da precludersi qualsiasi possibilità di apprendere qualcosa di utile dalle loro comunicazioni, tale da poter farne oggetto di osservazioni approfondite. Colgo l'occasione per dirvi che nel corso delle mie lezioni polemizzerò poco, soprattutto con singole persone. Non sono mai riuscito a convincermi della verità del detto che il conflitto è padre di tutte le cose. Credo che esso provenga dalla sofistica greca e che, come questa, abbia il difetto di sopravvalutare la dialettica. Al contrario, mi sembra che la cosiddetta polemica scientifica sia in genere del tutto sterile, a prescindere dal fatto che quasi sempre viene condotta su un piano troppo personale. Fino a qualche anno fa potevo vantarmi anch'io di aver intrapreso una sola volta una regolare disputa scientifica con uno studioso (Löwenfeld di Monaco). Alla fine diventammo amici e tali siamo rimasti fino ad oggi. Ma per lungo tempo non ho ripetuto l'esperimento perché non ero certo di giungere allo stesso risultato.

Di certo giudicherete il mio rifiuto di discussioni scientifiche come un indice di una forte inaccessibilità alle obiezioni da parte mia, di ostinazione o, per esprimersi nell'amabile gergo scientifico, di "testardaggine". Vi dirò che se un giorno giungerete a una convinzione mediante un così duro lavoro, anche voi avrete il diritto di tenervi saldi ad essa con una certa tenacia. Posso inoltre far valere il fatto che nel corso dei miei lavori ho modificato, mutato, sostituito le mie concezioni su alcuni punti importanti, cosa di cui naturalmente ho sempre dato comunicazione pubblicamente. E il risultato di questa onestà? Alcuni non hanno preso affatto conoscenza delle mie correzioni e mi criticano ancora oggi per affermazioni che da tempo per me non hanno più lo stesso significato. Altri mi rimproverano proprio questi cambiamenti e mi ritengono perciò inaffidabile. Proprio così, chi ha cambiato opinione una volta non merita assolutamente fiducia, poiché è probabile che sbagli anche in seguito! Chi invece si tiene saldo a ciò che una volta ha affermato, o non se ne lascia dissuadere abbastanza velocemente, è chiamato ostinato e testardo. Cosa si può fare di fronte a tali attacchi contraddittori della critica se non rimanere quelli che si è e comportarsi secondo il proprio giudizio? Sono deciso a fare così e non mi lascerò distogliere dal plasmare e mettere a punto tutte le mie teorie nel modo in cui il progredire della mia esperienza richiederà.

Nelle tesi fondamentali non ho trovato finora nulla da cambiare e spero che le cose resteranno così anche in seguito.

A questo punto devo esporvi la concezione psicoanalitica dei fenomeni nevrotici. Al riguardo mi viene naturale riallacciarmi ai fenomeni già trattati, sia per analogia che per contrasto. Comincio da un'azione sintomatica che vedo compiere da molte persone nelle mie ore di consultazione. L'analista non sa proprio cosa fare con coloro che si presentano nel suo studio per esporgli in un quarto d'ora gli affanni di tutta la loro vita. Poiché la sua conoscenza è più profonda, gli riesce difficile dare un parere come un qualsiasi altro medico: «Lei non ha nulla», e consigliare: «Faccia una leggera cura idroterapica». Uno dei miei colleghi, alla domanda su cosa facesse con i pazienti che andavano a consultarlo, rispose con un'alzata di spalle: «Applico una multa di un certo numero di corone per la loro insistenza». Non c'è dunque da meravigliarsi se anche nel caso di psicoanalisti molto occupati le ore di consultazione non siano di solito molto vivaci. Davanti alla porta che separa la mia sala d'attesa dallo studio di consultazione ne ho fatta mettere un'altra rivestita di feltro. Lo scopo di questo piccolo espediente è evidente a tutti. Ebbene, mi capita continuamente che qualcuno nel lasciare la sala d'attesa per entrare nello studio trascuri di chiudere la porta dietro di sé e quasi sempre lasci aperte entrambe le porte. Non appena me ne accorgo, esigo in tono piuttosto scortese che colui o colei che è entrato torni indietro per riparare all'omissione, anche se si tratta di un signore elegante o di una signora molto raffinata. Ciò dà l'impressione di una pedanteria inutile. Talvolta ho anche fatto una brutta figura, quando si trattava di persone che non riescono ad afferrare una maniglia e sono liete che qualche accompagnatore risparmi loro questo contatto. Nella maggior parte dei casi però avevo ragione perché chi si comporta così, chi lascia aperta la porta dalla sala d'attesa allo studio di consultazione del medico è un maleducato che merita un'accoglienza scortese. Non giudicate prima di aver ascoltato il resto. Questa negligenza del paziente si verifica soltanto quando si è trovato solo nella sala di attesa e lascia quindi dietro di sé una stanza vuota, mai quando degli estranei hanno aspettato con lui. In questo caso egli comprende molto bene che è nel suo interesse non essere ascoltato mentre parla con il medico e non trascura mai di chiudere accuratamente entrambe le porte.

L'omissione del paziente è determinata dunque da qualcosa che non è né casuale, né senza senso, e neppure è mai irrilevante, poiché vedremo che fa luce sul rapporto tra colui che entra e il medico. Il paziente appartiene alla grande massa di coloro che hanno bisogno di un'autorità terrena, che vogliono sentirsi abbagliati e intimiditi. Forse egli fece chiedere per telefono a che ora potesse essere ricevuto più facilmente, poiché si aspettava una ressa di gente in cerca di aiuto, all'incirca come davanti una filiale di Julius Meinl1. (Negozio di generi alimentari di Vienna, davanti al quale, durante la guerra, si faceva la coda.) Ora, entra in una sala d'attesa vuota, per di più arredata molto semplicemente, e ne è scosso. Deve far scontare al medico l'eccessivo e superfluo rispetto che gli aveva rivolto, e allora omette di chiudere la porta tra la sala d'attesa e lo studio di consultazione. Come se con ciò volesse dire al medico: «Ah, qui non c'è nessuno e probabilmente non verrà nessuno per tutto il tempo che starò qui». Se non si ponesse fin da subito un freno alla sua arroganza con un severo rimprovero, costui si comporterebbe in modo molto sgarbato e irrispettoso anche durante il colloquio.

Nel corso dell'analisi non trovate nulla di questa piccola azione sintomatica che non vi sia già noto: l'affermazione che essa non è causale, ma che ha un motivo, un senso e un'intenzione; che appartiene a un contesto psichico dimostrabile e che rappresenta un indizio di un processo psichico più importante; ma soprattutto che tale processo è sconosciuto alla coscienza di colui che lo compie. Infatti nessuno dei pazienti che avevano lasciato aperte entrambe le porte sarebbe in grado di ammettere che con questa omissione voleva dimostrarmi la sua disistima. Alcuni di loro forse ricorderebbero un moto di delusione nel trovare vuota la sala d'attesa, ma il legame tra questa impressione e la successiva azione sintomatica è rimasto di certo ignoto alla loro coscienza.

Accanto a questa piccola analisi di un'azione sintomatica poniamo ora un'osservazione fatta su una malata. La scelgo perché la ricordo bene e perché è possibile esporla in forma relativamente breve. Tuttavia ogni esposizione di questo tipo richiede un certo numero di particolari.

Un giovane ufficiale, tornato a casa per una breve licenza, mi prega di prendere in cura la suocera che, pur trovandosi nelle più felici condizioni, tormenta la vita a sé e ai sui con un'idea assurda. Si presenta una signora di cinquantatré anni ben conservata, di carattere semplice e cordiale, che senza alcuna ritrosia mi fa il seguente racconto. Vive in campagna, felicemente sposata, con il marito che dirige una grande fabbrica. Non sa lodare abbastanza le amorevoli attenzioni del marito. Matrimonio d'amore che dura da trent'anni, e d'allora mai un turbamento, una divergenza o un motivo di gelosia. I loro due figli sposati bene, e il marito e padre non vuole ancora mettersi a riposo per senso del dovere. Un anno prima avvenne un fatto incredibile che lei stessa non seppe spiegarsi. Ella credette immediatamente a una lettera anonima che accusava il suo ottimo marito di avere una relazione amorosa con una ragazza, e da allora la sua felicità è distrutta. I particolari del fatto erano ali'incirca i seguenti: la signora aveva una cameriera con cui parlava forse troppo spesso di cose intime. Questa ragazza perseguitava un'altra con un'inimicizia piena d'odio, poiché quest'ultima, pur provenendo dalla medesima estrazione sociale, aveva fatto più strada nella vita. Invece di andare a servizio, la ragazza aveva ottenuto un'istruzione commerciale, era entrata nella fabbrica e aveva raggiunto una buona posizione a causa della carenza di personale per gli arruolamenti militari. Ora abitava nella fabbrica stessa, trattava con tutti i signori e veniva chiamata persino "signorina". L'altra, rimasta indietro nella vita, era pronta naturalmente a dire tutto il male possibile della vecchia compagna di scuola.

Un giorno la nostra signora conversava con la sua cameriera del caso di un vecchio signore che era stato loro ospite, del quale si sapeva che non viveva con la moglie, ma che aveva una relazione con un'altra. La signora, non sa come, improvvisamente disse: «La cosa più orribile sarebbe per me venire a sapere che anche il mio buon marito ha una relazione». Il giorno seguente ricevette per posta una lettera anonima che, con scrittura alterata, le dava la notizia che era stata quasi evocata. La signora dedusse - probabilmente a ragione - che la lettera fosse opera della cameriera cattiva, perché indicava, quale amante di suo marito, proprio quella signorina che la cameriera perseguitava col suo odio. Ma, sebbene avesse intuito immediatamente l'intrigo e avesse avuto sufficienti esempi nel luogo dove abitava di quanta poca fede meritassero tali vili denunce, questa lettera la fece immediatamente abbattere. In preda a una terribile agitazione, mandò subito a chiamare il marito per fargli i più severi rimproveri. Il marito respinse l'accusa ridendo e fece quanto di meglio c'era da fare: chiamò il medico di famiglia e della fabbrica, il quale, a sua volta, fece tutto il possibile per calmare l'infelice signora. Assolutamente comprensibile fu anche il loro ulteriore modo di procedere. La cameriera venne licenziata, ma non la pretesa rivale. Da allora la paziente volle essere continuamente tranquillizzata, così da non credere più al contenuto della lettera anonima, ma mai fino in fondo e mai per lungo tempo. Era sufficiente sentire pronunciare il nome della signorina o incontrarla per strada, perché in lei si scatenasse un attacco di sospetti, di dolore e di rimproveri.

Tale è quindi il caso clinico di questa brava signora. Non occorreva una grande esperienza psichiatrica per capire che, al contrario di altri nervosi, ella presentava il suo caso in forma forse troppo attenuata, dunque, come diciamo, dissimulava e non aveva mai cessato veramente di credere all'accusa della lettera anonima.

Qual è la posizione dello psichiatra di fronte a un simile caso clinico? Sappiamo già come si comporterebbe di fronte all'azione sintomatica del paziente che non chiude le porte della sala d'attesa. Sostiene che si tratti di una casualità priva di interesse psicologico, di cui non vale la pena di occuparsi. Ma tale atteggiamento non può essere mantenuto nei confronti della malattia della moglie gelosa. L'azione sintomatica sembra qualcosa di insignificante, il sintomo invece si impone come qualcosa di importante. Esso è legato a un'intensa sofferenza soggettiva, minaccia oggettivamente la convivenza di una famiglia, ed è quindi innegabilmente un oggetto di interesse psichiatrico. In primo luogo lo psichiatra cerca di caratterizzare il sintomo con una qualità essenziale. L'idea con cui questa donna si tormenta non può essere definita assurda di per sé; accade che mariti anziani abbiano relazioni amorose con ragazze giovani. Ma qui vi è qualcos'altro di assurdo e incomprensibile. La paziente non ha alcuna altra ragione, eccetto l'affermazione contenuta nella lettera anonima, per credere che suo marito, affettuoso e fedele, appartenga a questa categoria non insolita di uomini. Ella sa che quello scritto non ha alcun valore probatorio, ed è in grado di spiegarsene la provenienza in modo soddisfacente; dovrebbe quindi anche potersi dire che non ha alcun motivo di essere gelosa, e se lo dice anche, ma soffre ugualmente, come se considerasse pienamente fondata la propria gelosia. Idee di tal genere, che sono inaccessibili ad argomenti logici e basati sulla realtà, vengono chiamate idee deliranti [Wahnideen]. La buona signora soffre dunque di un delirio di gelosia [Eifersuchtswahn]. Questa è la caratteristica fondamentale di questo caso clinico.

Stabilito questo primo punto, il nostro interesse psichiatrico si risveglierà in modo ancora più forte. Se non è possibile eliminare un'idea delirante mettendola in rapporto con la realtà, significa che non trarrà origine dalla realtà stessa. Da dove deriva allora? Esistono idee deliranti dai contenuti più vari; perché nel nostro caso il contenuto del delirio è proprio la gelosia? In quali persone si formano idee deliranti e, in particolare, i deliri di gelosia? È qui che vorremmo sentire il parere dello psichiatra, ma è qui appunto che egli ci pianta in asso. Lo psichiatra in genere prende in considerazione soltanto una delle nostre domande. Indagherà sulla storia familiare di questa donna e forse ci darà la risposta: «Le idee deliranti si formano in quelle persone nella cui famiglia si sono verificati ripetutamente disturbi psichici di questo o di altro tipo». In altre parole, se questa signora ha sviluppato un'idea delirante vi era predisposta per trasmissione ereditaria. Questo è di certo qualcosa, ma è proprio tutto ciò che vogliamo sapere? E tutto ciò che ha contribuito a causare la malattia? Dovremmo accontentarci di supporre che sia indifferente, arbitrario o inspiegabile che si sia sviluppato un delirio di gelosia invece di un qualunque altro? E siamo autorizzati a considerare la tesi della predominanza dell'influenza ereditaria anche in senso negativo, cioè che indipendentemente dalle esperienze che hanno toccato la psiche di questa donna, ella era comunque destinata a produrre prima o poi un delirio? Voi vorrete sapere perché la psichiatria scientifica si rifiuti di darci altre spiegazioni. Ma vi rispondo: «Imbroglione è chi dà più di ciò che ha». Lo psichiatra non conosce alcuna strada che conduca oltre nella spiegazione di un simile caso. Deve accontentarsi di questa diagnosi e di una prognosi incerta, per quanto riguarda il decorso ulteriore, nonostante la sua grande esperienza.

Ma la psicoanalisi può fare di più? Certo, spero di potervi dimostrare che persino in un caso così difficilmente accessibile essa può scoprire qualcosa che permette una comprensione più profonda. In primo luogo vi prego di osservare un dettaglio poco appariscente, cioè che la paziente ha per così dire provocato la lettera anonima su cui ora si basa la sua idea delirante, in quanto aveva affermato di fronte a quella ragazza intrigante che sarebbe stata per lei la peggiore delle disgrazie se suo marito avesse avuto una relazione amorosa con una giovane. E stata lei in questo modo a far venire in mente alla cameriera l'idea di spedirle la lettera anonima. L'idea delirante acquista così una certa indipendenza dalla lettera; in forma di timore - o di desiderio? - era presente già prima nella paziente. Aggiungete ora ciò che due sole sedute di psicoanalisi hanno portato come ulteriori piccoli indizi. La paziente manifestò un forte rifiuto quando, dopo aver raccontato la sua storia, la invitai a comunicare i suoi ulteriori pensieri, idee e ricordi. Affermava che non le veniva in mente nulla, di aver già detto tutto, e dopo due sedute il tentativo dovette realmente venire interrotto, perché la paziente dichiarò di sentirsi già guarita e certa che l'idea morbosa non le sarebbe tornata. Ciò naturalmente lo disse solo per resistenza e per paura di proseguire l'analisi.

Tuttavia in queste due sedute si era lasciata sfuggire alcune osservazioni che consentivano, anzi rendevano inconfutabile, una determinata interpretazione; e questa interpretazione gettava viva luce sulla genesi del suo delirio di gelosia. Era lei a essersi profondamente innamorata di un giovane, di quello stesso suo genero che l'aveva spinta a farsi curare da me. Di questo innamoramento non sapeva nulla, o forse solo molto poco; dato il rapporto di parentela era facile mascherare tale inclinazione amorosa da affetto innocente. Dopo tutte le esperienze che abbiamo fatto con altri pazienti, non ci sarà difficile immedesimarci nella vita psichica di questa signora seria e brava madre di cinquantatré anni. Un tale innamoramento, essendo qualcosa di mostruoso, di impossibile, non poteva diventare cosciente; ma continuava a sussistere e, in forma inconscia, esercitava una forte pressione. Qualcosa doveva pur succedere di questo sentimento, un aiuto qualsiasi doveva essere cercato, e il sollievo più immediato lo offrì di certo il meccanismo dello spostamento, il quale è normalmente implicato nella genesi della gelosia delirante. Se non fosse stata solo lei, una donna anziana, a essersi innamorata di un giovane uomo, ma se anche il suo anziano marito avesse avuto una relazione amorosa con una ragazza, allora la sua coscienza sarebbe stata sgravata dal peso dell'infedeltà. La fantasia dell'infedeltà del marito serviva dunque da balsamo refrigerante sulla sua scottante ferita. Il suo amore non le era divenuto cosciente, ma l'immagine riflessa di questo, che le procurava tali vantaggi, divenne cosciente in forma ossessiva e delirante. Tutti gli argomenti contrari non potevano naturalmente servire a nulla, poiché si dirigevano soltanto contro l'immagine riflessa, non contro quella reale che aveva ceduto all'altra la propria forza e si trovava nascosta e involabile nell'inconscio.

Mettiamo insieme ora ciò che un breve e difficoltoso lavoro psicoanalitico ha fornito per la comprensione di questo caso, con il presupposto naturalmente che le nostre scoperte siano state condotte nel modo corretto, cosa che non posso sottoporre qui al vostro giudizio. In primo luogo, l'idea delirante non è più qualcosa di assurdo o incomprensibile, è sensata, ben motivata, appartiene al contesto di un'esperienza affettivamente forte per la paziente. In secondo luogo, essa è necessaria come reazione a un processo psichico inconscio di cui siamo venuti a conoscenza mediante altri indizi, e deve proprio a questa relazione il suo carattere delirante, la sua resistenza ad attacchi della logica e della realtà. E persino qualcosa di desiderato, una specie di consolazione. In terzo luogo, il fatto che sia proprio un delirio di gelosia e non di altro genere è indubbiamente determinato dalle esperienze che la signora ha vissuto prima della malattia. Ricorderete che proprio il giorno prima la signora aveva detto alla ragazza intrigante che la cosa più terribile per lei sarebbe stata che suo marito le fosse infedele. Non vi sfuggiranno neppure le due importanti analogie con l'azione sintomatica da noi analizzata in precedenza, e cioè la spiegazione del suo senso o dell'intenzione e la sua relazione a un determinato elemento inconscio della situazione.

Naturalmente con ciò non si è risposto a tutte le domande che avremmo potuto formulare in relazione a questo caso clinico. Al contrario, esso è pieno di ulteriori problemi, alcuni, in generale, non ancora risolvibili, e altri che non si poterono risolvere a causa di determinate circostanze sfavorevoli. Ad esempio, perché questa signora che ha una vita coniugale felice si innamora del proprio genero, e perché il sollievo, che sarebbe stato possibile anche in altri modi, prende proprio la forma di un tale rispecchiamento, di una proiezione del proprio stato sul marito? Non pensiate che siano domande oziose e gratuite. Abbiamo già a disposizione molto materiale per una possibile risposta. La signora si trova nell'età critica in cui si produce un'improvvisa e indesiderata crescita dei bisogni sessuali femminili; già ciò potrebbe bastare. Oppure a questo si potrebbe aggiungere che il suo buono e fedele marito non ha più da alcuni anni quella potenza sessuale di cui la signora ben conservata avrebbe bisogno per il proprio soddisfacimento. L'esperienza ci permette di notare che proprio quegli uomini la cui fedeltà è scontata si distinguono per la particolare affettuosità con cui trattano le mogli e per una inusuale indulgenza verso i loro disturbi nervosi. O, ancora, non è irrilevante che sia proprio il giovane marito di una figlia ad essere divenuto oggetto di questo innamoramento patologico. Spesso un forte legame erotico con la figlia, che in ultima analisi risale alla costituzione sessuale della madre, trova la sua continuazione in simili trasformazioni. Permettetemi di ricordarvi a questo proposito che fin dai tempi più remoti il rapporto tra suocera e genero è stato considerato particolarmente scabroso dagli uomini, e che presso i popoli primitivi ha dato luogo a tabù molto potenti e prescrizioni. (Cfr. Totem e tabù,1913.) Questo rapporto supera spesso sia in senso positivo che negativo la misura civilmente tollerabile. Ebbene, io non sono in grado di dirvi quali di questi tre fattori abbia agito nel nostro caso, né se due di essi o tutti e tre abbiano concorso alla sua formazione, ma soltanto perché non potei continuare l'analisi del caso oltre la seconda seduta.

Mi accorgo adesso, signori, di aver parlato di una quantità di cose che non siete ancora pronti a comprendere. L'ho fatto per poter mettere a confronto la psichiatria e la psicoanalisi. Così adesso posso domandarvi: avete notato qualche contraddizione tra le due? La psichiatria non fa uso dei metodi tecnici della psicoanalisi, non mette nulla in relazione al contenuto dell'idea delirante, e nel rimandare all'ereditarietà ci dà un'eziologia molto generica e lontana, invece di indicare come prima cosa le cause più specifiche e prossime del delirio. Ma in questo vi è una contraddizione o un'opposizione rispetto alla psicoanalisi? Non è piuttosto un completamento reciproco? Il fattore ereditario contraddice l'importanza dell'esperienza, o non è vero piuttosto che entrambi si combinano nel modo più efficace? Converrete con me che nella natura del lavoro psichiatrico non c'è nulla che si potrebbe opporre all'indagine psicoanalitica. Sono dunque gli psichiatri a opporsi alla psicoanalisi, non la psichiatria. La psicoanalisi sta alla psichiatria all'incirca come l'istologia all'anatomia; l'una studia le forme esterne degli organi, l'altra la loro struttura a partire dai tessuti e dalle particelle elementari. Una contraddizione tra questi due tipi di studi, di cui l'uno è la prosecuzione dell'altro, è difficile da concepire. Voi sapete che l'anatomia è oggi da noi ritenuta il fondamento della medicina scientifica, ma ci fu un'epoca in cui era vietato sezionare cadaveri umani per conoscere la struttura interna del corpo, così come oggi sembra scandaloso esercitare la psicoanalisi per scoprire i meccanismi interni della vita psichica. Ed è probabile che in un tempo non troppo lontano sarà evidente l'idea che una psichiatria scientificamente approfondita non sia possibile senza una buona conoscenza dei processi inconsci più profondi della vita psichica.

Può darsi che la tanto avversata psicoanalisi abbia tra di voi anche alcuni amici che sarebbero lieti se potesse trovare una legittimazione anche sotto il profilo dell'efficacia terapeutica. Voi sapete che la nostra terapia psichiatrica non è in grado di influire sulle idee deliranti. Può forse farlo la psicoanalisi, grazie alla sua conoscenza del meccanismo di tali sintomi? No, signori miei, non può farlo; contro queste sofferenze - almeno per ora - è altrettanto impotente quanto ogni altra terapia. Possiamo comprendere cosa sia avvenuto nel malato, ma non abbiamo alcun mezzo per renderlo comprensibile a lui stesso. Infatti avete sentito come non mi sia stato possibile proseguire l'analisi di questa idea delirante oltre i primi inizi. Penserete quindi che l'analisi di casi del genere sia da respingere perché resta infruttuosa? Non lo credo affatto. Abbiamo il diritto, anzi il dovere, di portare avanti la ricerca senza preoccuparci di un risultato immediato. Alla fine - non sappiamo dove e quando - ogni frammento di conoscenza si trasformerà in potere, anche in potere terapeutico. Anche se per ogni altra forma di malattia nervosa e psichica, come per le idee deliranti, la psicoanalisi si dimostrasse inefficace, essa rimarrebbe comunque pienamente giustificata quale strumento insostituibile della ricerca scientifica. È vero che in tal caso non saremmo in grado di esercitarla; il materiale umano sul quale intendiamo compiere i nostri studi, che ha una sua vita, una sua volontà, ed ha bisogno di motivi propri per partecipare al nostro lavoro, si rifiuterebbe di cooperare. Per concludere, lasciate che vi dica che esistono vasti gruppi di disturbi nervosi per i quali il passaggio da una migliore comprensione al potere terapeutico è effettivamente avvenuto, e che in queste malattie, di solito difficilmente accessibili, otteniamo, in determinate condizioni, successi che non hanno nulla da invidiare agli altri successi ottenuti nel campo della medicina interna.

Lezione 17. Il senso dei sintomi

Signore e signori, nella lezione precedente vi ho spiegato come la psichiatria clinica si occupi poco della forma di manifestazione e del contenuto del singolo sintomo, e che la psicoanalìsi invece è partita proprio da lì e ha stabilito come prima cosa che il sintomo è dotato di senso ed è legato all'esperienza vissuta dal paziente. Il senso dei sintomi nevrotici è stato scoperto per la prima volta da Josef  Breuer attraverso lo studio e la guarigione di un caso di isteria (1880-82), divenuto da allora famoso. È vero che P. Janet ha fornito, indipendentemente da Breuer, la stessa dimostrazione; al ricercatore francese spetta persino la priorità della pubblicazione, infatti Breuer ha pubblicato la sua osservazione solo più di un decennio dopo (1893-95) durante la sua collaborazione con me. Per noi, del resto, può essere abbastanza indifferente da chi provenga questa scoperta, poiché sapete che ogni scoperta viene fatta più di una volta e mai tutta d'un tratto. E oltre a ciò il successo non va di pari passo con il merito. L'America non ha preso il nome da Colombo. Già prima di Breuer e di Janet, il grande psichiatra Leuret aveva espresso l'opinione che doveva essere possibile trovare un senso persino nei deliri dei malati di mente quando si riuscisse a tradurli. Confesso che per molto tempo fui disposto a riconoscere i grandi meriti di Janet per la spiegazione dei sintomi nevrotici, poiché egli li concepiva come manifestazioni di idées inconscientes che dominano i malati. Ma da allora in poi Janet si è espresso con eccessiva cautela, come se volesse far intendere che l'inconscio non era per lui nient'altro che un modo di dire, un espediente, une façon de parler, e che non pensava a nulla di reale. Da quel momento non comprendo più le spiegazioni di Janet, ma credo che egli abbia rinunciato inutilmente a gran parte del suo merito.

I sintomi nevrotici hanno dunque il loro senso come gli atti mancati, come i sogni, e così come questi hanno un legame con la vita delle persone che li manifestano. Vorrei ora farvi comprendere meglio questa importante scoperta mediante alcuni esempi. Posso soltanto affermare, non certo dimostrare, che le cose stiano sempre e in ogni caso così. Chiunque faccia esperienze in merito ne sarà convinto. Per determinate ragioni non prenderò questi esempi dall'isteria, ma da un'altra nevrosi molto particolare, che si avvicina molto all'isteria, di cui ho da dirvi alcune parole introduttive. Questa, la cosiddetta nevrosi ossessiva [Zwangsneurose], non è così popolare come la ben nota isteria; non è, se così posso esprimermi, ugualmente importuna e appariscente, si manifesta più come una faccenda privata del malato, rinuncia quasi completamente a manifestazioni somatiche e produce tutti i suoi sintomi nel campo psichico. La nevrosi ossessiva e l'isteria sono quelle forme di malattia nevrotica sul cui studio si è costituita inizialmente la psicoanalisi e nel cui trattamento la nostra terapia raccoglie anche i suoi trionfi. Ma la nevrosi ossessiva, alla quale manca quell'enigmatico salto dallo psichico al somatico, ci è divenuta in realtà più trasparente e più familiare dell'isteria, e abbiamo riconosciuto che essa presenta certi caratteri estremi della nevrosi in modo di gran lunga più evidente.

La nevrosi ossessiva si manifesta nel fatto che i malati sono impegnati in pensieri per i quali in realtà non hanno interesse, che essi avvertono impulsi che sembrano loro estranei e sono spinti a compiere azioni il cui compimento non procura loro alcun piacere, ma che non possono fare a meno di compiere. I pensieri (rappresentazioni ossessive) possono essere in sé privi di senso, o anche solo indifferenti per il soggetto, spesso sono del tutto sciocchi, in tutti i casi sono l'esito di un'intensa attività mentale che prostra il malato e alla quale egli si abbandona solo malvolentieri. Contro la sua volontà egli deve rimuginare e lambiccarsi il cervello, come se si trattasse del compito più importante della sua vita. Gli impulsi che il malato avverte in sé possono anche sembrare infantili e insensati, ma hanno per lo più un contenuto terrificante, come ad esempio la tentazione di commettere gravi delitti, cosicché il malato non solo li rinnega come estranei, ma fugge inorridito dinanzi ad essi e cerca di proteggersi dalla loro esecuzione con divieti, rinunce e limitazioni della propria libertà. Con ciò gli impulsi non giungono mai, neppure una sola volta, all'esecuzione, il risultato è sempre che la fuga e la prudenza vincono. Ciò che il malato realmente porta a compimento, le cosiddette azioni ossessive, sono cose molto innocue, di certo insignificanti, per lo più ripetizioni, ornamenti cerimoniosi di attività della vita quotidiana, ma attraverso le quali certe operazioni necessarie, come andare a letto, lavarsi, vestirsi, andare a passeggio, diventano compiti lunghissimi e quasi irrisolvibili. Le rappresentazioni, gli impulsi e le azioni morbose non si combinano mai nelle stesse proporzioni nelle singole forme e casi di nevrosi ossessiva; piuttosto la regola è che l'uno o l'altro di questi fattori domini il quadro e dia il nome alla malattia, ma ciò che accomuna tutte queste forme è abbastanza evidente.

Questa è certamente una malattia pazza. Credo che la più sfrenata immaginazione psichiatrica non sarebbe riuscita a costruire qualcosa di simile, e se non si avesse la possibilità di averla davanti agli occhi tutti i giorni, nessuno si deciderebbe a crederci. Ora, non crediate di giovare in alcun modo al malato esortandolo a distrarsi, a non occuparsi più dei suoi sciocchi pensieri e a fare qualcosa di sensato invece dei suoi giochini. Lo vorrebbe lui stesso, poiché capisce perfettamente, condivide il vostro giudizio sui suoi sintomi ossessivi, anzi è lui ad anticiparvelo. Ma non può fare altrimenti, ciò che nella nevrosi ossessiva si impone come azione è trascinato da un'energia per la quale probabilmente ci manca un termine di paragone nella vita psichica normale. Il malato può soltanto fare una cosa: spostare, scambiare, mettere al posto di un'idea stupida un'altra, in certo qual modo attenuata, passare da una precauzione o proibizione a un'altra, al posto di un cerimoniale eseguirne un altro. Può spostare la coazione, ma non annullarla. La mobilità di tutti i sintomi, allontanandoli dalla loro configurazione originaria, è un carattere fondamentale della sua malattia; inoltre appare con chiarezza che gli opposti (polarità) dei quali è pervasa la vita psichica emergono, nel suo stato, differenziati in modo particolarmente netto. Accanto alla coazione con contenuto positivo o negativo s'insinua nel campo intellettuale il dubbio che a poco a poco intacca anche ciò che normalmente è più certo. Il tutto porta a una sempre crescente indecisione, mancanza di energia, limitazione della libertà. Eppure il nevrotico ossessivo era originariamente un carattere strutturalmente molto energico, spesso straordinariamente testardo, di regola intellettualmente dotato al di sopra della media. Ha raggiunto per lo più un grado piuttosto elevato di sviluppo etico, manifesta una coscienziosità esagerata, e una correttezza fuori dall'ordinario. Potete immaginarvi quanto lavoro occorra per riuscire più o meno a raccapezzarsi in questo insieme contraddittorio di tratti caratteriali e sintomi morbosi. Per ora non aspiriamo ad altro che a comprendere e interpretare alcuni sintomi di questa malattia.

Con riguardo alle nostre discussioni, vorrete forse sapere dapprima quale posizione abbia la psichiatria contemporanea nei confronti dei problemi della nevrosi ossessiva. Tuttavia è un misero argomento. La psichiatria dà un nome alle diverse ossessioni, ma non dice nient'altro su di esse. In compenso però sottolinea il fatto che coloro che presentano tali sintomi sono dei "degenerati". E' una magra soddisfazione, si tratta in realtà di un giudizio di valore, di una condanna invece che di una spiegazione. Dovremmo pensare quindi all'incirca che nelle persone che differiscono dalla normalità compare quindi qualsiasi tipo di stranezza. Ora, riteniamo che le persone che sviluppano tali sintomi debbano essere di natura un po' diversa dalle altre. Ma vorremmo domandare: sono più "degenerati" di altri nervosi, per esempio degli isterici, o degli psicotici? Evidentemente anche stavolta la caratterizzazione è troppo generica. Anzi, si può dubitare persino che sia giustificata, quando si apprende che tali sintomi compaiono anche in uomini eminenti, di capacità particolarmente elevate e importanti per la collettività. Di solito, a causa della loro discrezione e della inattendibilità dei loro biografi, veniamo a sapere ben poco di quanto riguarda la vita intima dei grandi uomini che rappresentano i nostri modelli; ma può accadere che uno di essi sia un vero fanatico della verità, come Émile Zola, e allora apprendiamo da lui di quante strane abitudini ossessive abbia sofferto nella sua vita. (E. Toulouse, Émile Zola, Enquéte médico-psycologique, Paris 1896.)

In questi casi la psichiatria ha trovato la via d'uscita di parlare di dégénérés supérieurs. Già, ma con la psicoanalisi abbiamo fatto l'esperienza che questi singolari sintomi ossessivi possono essere eliminati durevolmente come altre sofferenze e anche in altri uomini che non sono degenerati. Io stesso ci sono riuscito più di una volta.

Voglio riferirvi solo due esempi di analisi di un sintomo ossessivo, uno è tratto da un'osservazione di molto tempo fa, e non saprei sostituirlo con uno migliore, l'altro è molto recente. Mi limito a un numero così esiguo perché in una simile esposizione si deve essere molto dettagliati e soffermarsi su ogni particolare.

Una signora sui trent'anni, che presentava le più gravi manifestazioni ossessive e che forse avrei potuto aiutare se un caso maligno non avesse distrutto tutto il mio lavoro - forse ve ne parlerò ancora -, durante il giorno eseguiva ripetutamente, tra le altre, una strana azione ossessiva. Dalla sua camera correva in una attigua e, dopo essersi messa in un certo posto presso il tavolo che era al centro, suonava il campanello per chiamare la cameriera, le dava un compito qualsiasi o la lasciava andare senza chiederle nulla e quindi correva di nuovo indietro. Questo sintomo non era certo grave, tuttavia suscitò la nostra curiosità. La spiegazione risultò nel modo più semplice e inequivocabile senza alcun contributo da parte del medico. Non so infatti come sarei potuto giungere a una qualsiasi supposizione o a una proposta di interpretazione sul senso di questa azione ossessiva. Ogni volta che avevo domandato alla paziente: «Perché fa questo? Che senso ha?», ella aveva risposto: «Non lo so». Ma un giorno, dopo essere riuscito a vincere una sua enorme e fondamentale perplessità, improvvisamente seppe la risposta e raccontò ciò che si collegava all'azione ossessiva. Più di dieci anni prima aveva sposato un uomo molto più vecchio di lei, che si era rivelato impotente durante la prima notte di nozze. Quella notte egli era corso innumerevoli volte dalla propria camera in quella di lei per ripetere il tentativo, ma sempre invano. Al mattino aveva detto in tono seccato: «C'è da vergognarsi di fronte alla cameriera quando rifarà il letto», e presa una bottiglia di inchiostro rosso, che si trovava per caso nella camera, ne aveva versato il contenuto sul lenzuolo, ma non proprio nel posto in cui tale macchia doveva essere. Inizialmente non capivo che cosa questo ricordo dovesse aver a che fare con l'azione ossessiva in questione, poiché trovavo una concordanza solo nel ripetuto correre da una camera all'altra e forse anche nella comparsa della cameriera. Allora la paziente mi condusse al tavolo che si trovava nella seconda stanza e mi fece vedere una grande macchia sulla tovaglia. Spiegò anche che si metteva vicino al tavolo in una posizione tale che la cameriera non poteva fare a meno di vedere la macchia. A questo punto non c'erano più dubbi sull'intima relazione tra la scena avvenuta dopo la notte nuziale e l'attuale azione ossessiva, ma molto restava ancora da apprendere.

Anzitutto risulta chiaro che la paziente si identifica con suo marito; recita la sua parte, imitando le sue corse da una stanza all'altra. Poi per continuare il paragone dobbiamo osservare che la donna sostituisce il letto e il lenzuolo con il tavolo e la tovaglia. Ciò potrebbe sembrare arbitrario, ma non per nulla abbiamo studiato il simbolismo onirico. Molto spesso nel sogno compare un tavolo che va interpretato come letto. Tavolo e letto insieme rappresentano il matrimonio, è facile dunque che l’uno stia al posto dell'altro.

Avremmo già così la dimostrazione che l'azione ossessiva ha un senso; essa sembra una rappresentazione, una ripetizione di quell'altra scena significativa. Ma non siamo obbligati a fermarci a questa apparenza.

È probabile che esaminando in modo più approfondito la relazione tra le due scene, otterremo chiarimenti su qualcosa che va oltre, sull'intenzione dell'azione ossessiva. Il suo nucleo è evidentemente la chiamata della cameriera, alla quale la signora fa vedere la macchia, in contrapposizione all'osservazione del marito che ci sarebbe da vergognarsi di fronte alla cameriera. Il marito - il cui ruolo la donna impersona - non si vergogna dunque davanti alla cameriera, la macchia si trova perciò al posto giusto. Vediamo dunque come la donna non ha semplicemente ripetuto la scena, ma l'ha proseguita correggendola, volgendola al suo giusto svolgimento. Nel far ciò però corregge anche l'altro aspetto, l'impotenza, che quella notte fu così penoso e rese necessario l'espediente dell'inchiostro rosso. La nevrosi ossessiva dice quindi: «No, non è vero, egli non aveva di che vergognarsi di fronte alla cameriera, non era impotente». Allo stesso modo del sogno, l'azione rappresenta questo desiderio come appagato nel presente e serve alla tendenza di innalzare il marito al di sopra della disavventura del passato.

Con ciò si accorda tutto quello che potrei raccontarvi ancora di questa signora; o meglio, tutto quello che sappiamo ancora di lei ci indica che questa interpretazione dell'azione ossessiva, di per sé incomprensibile, è giusta. La donna vive da anni separata dal marito e lotta per ottenere lo scioglimento legale del matrimonio. Ma non si è affatto liberata di lui; è costretta a rimanergli fedele, si ritrae completamente dal mondo per non cadere in tentazione, scusa e ingigantisce il marito nella sua fantasia. Anzi, il segreto più profondo della sua malattia è che mediante essa la paziente protegge il marito dalle maldicenze, giustifica la loro separazione di fatto e consente a lui di condurre una comoda vita propria. L'analisi di una innocua azione ossessiva conduce così direttamente al nucleo di una malattia, e allo stesso tempo ci rivela una buona parte del segreto della nevrosi ossessiva in generale. Vi lascio volentieri soffermarvi su questo esempio, poiché esso racchiude diverse condizioni che non possiamo pretendere di riscontrare in tutti i casi. L'interpretazione del sintomo fu trovata, in questo caso, d'improvviso dalla paziente, senza la guida o l'intervento dell'analista, e fu compiuta mediante il riferimento a un'esperienza che non apparteneva, come di solito accade, a un periodo dimenticato dell'infanzia, ma che era avvenuta nell'età adulta della malata e si era conservata indelebile nel suo ricordo. Tutte le obiezioni che normalmente la critica ci muove contro le nostre interpretazioni di sintomi non valgono per questo caso specifico. Ma è certo che non possiamo essere sempre così fortunati.

Ancora una cosa. Non vi siete accorti come questa insignificante azione ossessiva ci abbia condotto nell'intimità della paziente? Una donna ha qualcosa di più intimo da raccontare che la storia della sua prima notte di nozze? E il fatto di essere giunti proprio nell'intimità della sua vita sessuale dovrebbe essere casuale e privo di importanza? Ciò potrebbe, in realtà, essere la conseguenza della scelta che ho fatto in questo caso. Non giudichiamo quindi troppo in fretta e prendiamo in esame il secondo esempio, di tutt'altro genere, il quale è un modello di una specie molto frequente, un cerimoniale dell'andare a dormire.

Una ragazza di diciannove anni, esuberante e intelligente, figlia unica di genitori ai quali è superiore per istruzione e vivacità intellettuale, da bambina era stata irrequieta e spavalda, nel corso degli anni, apparentemente senza una causa esterna, è diventata nevrotica. È molto irritabile, in particolare nei confronti della madre, sempre insoddisfatta, depressa, incline all'indecisione e al dubbio, e finisce col confessare di non riuscire più a camminare da sola nelle piazze e nelle strade troppo larghe. Non ci soffermeremo molto sul suo complicato stato patologico, che esige almeno due diagnosi, una di agorafobia e una di nevrosi ossessiva, mentre ci soffermeremo sul fatto che questa ragazza ha sviluppato anche un cerimoniale dell'andare a dormire, col quale fa soffrire i genitori. In un certo senso, si può dire che ogni persona normale abbia il suo cerimoniale dell'andare a dormire o le occorrano determinate condizioni, il cui mancato compimento rende difficile l'addormentarsi; ognuno stabilisce cioè al passaggio dalla veglia allo stato di sonno determinate forme, che ripete ogni sera allo stesso modo. Ma tutto ciò che l'individuo sano richiede come condizione del sonno può essere compreso razionalmente, e quando le circostanze esterne rendono necessario un cambiamento gli si adatta con facilità e senza perdere tempo. Il cerimoniale patologico invece è inflessibile, sa imporsi a costo dei più grandi sacrifici, si riveste anch'esso di una motivazione razionale e, a prima vista, sembra discostarsi dal cerimoniale normale solo per una cura esagerata. Ma mediante un'osservazione più attenta si può notare che la copertura razionale è insufficiente, il cerimoniale comprende regole che esorbitano ampiamente dalla motivazione razionale e altre che addirittura la contraddicono.

La nostra paziente spiega le sue precauzioni notturne con la scusa che per dormire ha bisogno di tranquillità e deve eliminare tutte le fonti di rumore. A tal fine fa due cose. Il grande orologio che si trova nella sua camera viene fermato, tutti gli altri orologi vengono allontanati dalla stanza, ed ella non sopporta nemmeno che il suo piccolo orologio si trovi dentro il comodino. I vasi da fiori e gli altri vasi vengono riposti sulla scrivania in modo che durante la notte non possano cadere, rompersi e disturbarla nel sonno. La ragazza sa che queste precauzioni possono trovare una spiegazione soltanto apparente nel bisogno di quiete; il ticchettio del piccolo orologio non si udirebbe neppure se rimanesse poggiato sul comodino, e tutti abbiamo esperienza del fatto  che il ticchettio regolare dell'orologio a pendolo non riesce mai a disturbare il sonno, anzi piuttosto a conciliarlo. Ella ammette anche che il timore che i vasi da fiori e gli altri vasi, se lasciati al loro posto, potrebbero cadere e rompersi è inverosimile. Per le altre misure del cerimoniale viene meno il riferimento al bisogno di quiete. Anzi, l'esigenza che la porta tra la sua camera e la stanza da letto dei genitori rimanga semiaperta, circostanza di cui la ragazza si assicura spingendo tra i battenti diversi oggetti, sembra al contrario attivare una fonte di rumori che potrebbero disturbarla. Le precauzioni più importanti riguardano però il letto stesso. Il cuscino al capo del letto non può toccare la testata di legno; il piccolo guanciale per la testa deve assolutamente trovarsi su questo cuscino in modo da formare un rombo; ella poi poggia la testa esattamente sulla diagonale del rombo. Il piumino (Duchent, come lo chiamiamo in Austria), prima di essere steso sul letto, deve essere scosso in modo che la parte inferiore formi una rigonfiatura, rigonfiatura che lei stessa non trascura di eliminare in seguito schiacciando la coperta finché le piume siano distribuite di nuovo regolarmente.

Sorvolerò sulle altre particolarità, spesso molto insignificanti, di questo cerimoniale; esse non ci insegnerebbero nulla di nuovo e ci condurrebbero troppo lontano dal nostro compito. Badate però che tutto questo non si svolge in modo così semplice. Vi è sempre la preoccupazione che non tutto sia stato fatto bene, si deve controllare, ripetere, il dubbio cade ora sull'una ora sull'altra delle precauzioni, e il risultato è che passano una o due ore durante le quali la ragazza non può dormire e non lascia dormire neppure i genitori intimoriti.

L'analisi di questi tormenti continui non procedette altrettanto semplicemente come quella dell'azione ossessiva della nostra paziente precedente. Dovetti dare degli spunti alla ragazza e fare proposte di interpretazione che ella rifiutava ogni volta con un "no" deciso o poneva in dubbio sdegnosamente. Ma a questa prima reazione negativa seguì un periodo nel quale ella prese in considerazione le possibilità che le avevo prospettato, raccoglieva associazioni relative ad esse, produceva ricordi, stabiliva connessioni, finché giunse ad accettare tutte le interpretazioni per proprio conto. Nella misura in cui ciò avveniva, abbandonava man mano l'esecuzione di tutte le misure ossessive, e ancor prima della fine del trattamento aveva rinunciato all'intero cerimoniale. Inoltre dovete sapere che il lavoro analitico, come viene esercitato oggi da noi, esclude addirittura il trattamento sistematico del singolo sintomo fino al suo definitivo chiarimento. Siamo costretti piuttosto ad abbandonare continuamente un argomento, con la certezza però che altre connessioni ci ricondurranno ad esso. L'interpretazione del sintomo, che ora vi espongo, è quindi una sintesi di risultati la cui scoperta, interrotta da altri lavori, si protrae per settimane e mesi.

La nostra paziente impara lentamente a comprendere di aver bandito l'orologio dal suo allestimento notturno perché simbolo del genitale femminile. L'orologio, del quale conosciamo anche altre interpretazioni simboliche, giunge a rappresentare il genitale perché è in relazione con processi periodici e intervalli regolari. Una donna, ad esempio, può vantarsi che le sue mestruazioni sono regolari come un orologio. L'angoscia della nostra paziente era rivolta però in particolar modo al fatto di venire disturbata nel sonno dal ticchettio dell'orologio. Il ticchettio dell'orologio è paragonabile al battito della clitoride nell'eccitamento sessuale. In effetti la ragazza era stata svegliata ripetutamente nel sonno da questa sensazione per lei penosa, e ora questa paura di un'erezione si esprimeva nell'imperativo che imponeva di allontanare durante la notte tutti gli orologi che funzionavano. I vasi da fiori e gli altri vasi, come qualsiasi altro recipiente, sono simboli femminili. La precauzione presa perché non cadano e si rompano non è quindi priva di senso. Conosciamo l'uso molto diffuso di rompere un vaso o un piatto in occasione di un fidanzamento. Ognuno dei presenti si appropria di un coccio, gesto che può essere considerato rinuncia ai propri diritti sulla futura sposa, diritti che derivano da un'epoca in cui vigeva un ordinamento matrimoniale di tipo premonogamico. In relazione a questa parte del cerimoniale la ragazza fornì anche un ricordo e molte associazioni. Da bambina, una volta era caduta con un vaso di vetro o di terracotta e si era tagliata le dita, che avevano sanguinato abbondantemente. Divenuta più grande, venne a conoscenza dei fatti che riguardano i rapporti sessuali e comparve in lei l'idea angosciosa che durante la prima notte di nozze non avrebbe sanguinato e non avrebbe dimostrato di essere vergine. Le sue precauzioni prese allo scopo di evitare la rottura dei vasi significano quindi il rifiuto di tutto l'insieme che riguarda la verginità e la perdita di sangue durante il primo rapporto, un rifiuto dunque sia della paura di sanguinare che di quella opposta, di non sanguinare. Queste misure avevano a che fare solo lontanamente con lo scopo di eliminare ogni rumore, al quale la ragazza le subordinava.

Ella intuì il senso centrale del suo cerimoniale il giorno che tutt'a un tratto comprese l'imperativo secondo il quale il cuscino non doveva toccare la testata del letto. Il cuscino - disse - era sempre stato per lei una donna e la testata di legno verticale un uomo. Voleva dunque tener separati - in modo magico, possiamo aggiungere - uomo e donna, cioè dividere i genitori, impedire che essi potessero avere un rapporto coniugale. Negli anni precedenti, prima di istituire il cerimoniale, aveva cercato di raggiungere lo stesso scopo in modo più diretto. Aveva simulato paura, o sfruttando un'inclinazione alla paura, di fatto esistente, perché la porta di comunicazione tra la camera da letto dei genitori e la sua stanza non venisse chiusa. Questo imperativo continuava a sussistere nel suo cerimoniale successivo. Creatasi in tal modo la possibilità di spiare i genitori, nel metterla in pratica si procurò una volta un'insonnia che durò per mesi. Non contenta di disturbare così i genitori, ottenne poi il permesso di dormire nel letto matrimoniale fra il padre e la madre. "Cuscino" e "testata di legno" non potevano così veramente unirsi. Infine, quando fu cresciuta al punto che il suo corpo non poteva più trovarsi comodo tra i suoi genitori, ottenne mediante una cosciente simulazione di angoscia che la madre scambiasse il posto con lei e le cedesse il proprio accanto al padre. Questa situazione era stata di certo il punto di partenza di fantasie di cui nel cerimoniale si avverte l'effetto ritardato.

Se il cuscino era una donna, anche scuotere il piumino cosicché tutte le piume fossero in basso e creassero un rigonfiamento aveva un senso. Significava rendere incinta una donna; ma la ragazza non trascurava poi di far sparire questa gravidanza, perché per anni aveva temuto che i rapporti tra i genitori avessero come conseguenza un altro figlio e quindi,  per lei, un concorrente. D'altronde se il cuscino grande era una donna - la madre -, il piccolo guanciale non poteva rappresentare altro che la figlia. Perché questo guanciale doveva essere collocato a rombo e la sua testa doveva posarsi proprio sulla linea mediana? Fu semplice ricordarle che il rombo è il simbolo, disegnato su tutti i muri, del genitale femminile aperto. Lei stessa dunque faceva la parte dell'uomo, del padre, e sostituiva con la sua testa il membro maschile (vedi il simbolismo della decapitazione per l'evirazione).

Ecco, direte voi, che pensieri dissoluti dovrebbero passare per la testa di una ragazza casta. Lo ammetto. Non dimenticate però che queste cose io non le ho create, ma semplicemente le ho interpretate. Anche un cerimoniale dell'andare a dormire di tal genere è qualcosa di singolare, e non potete disconoscere la corrispondenza tra il cerimoniale e le fantasie che l'interpretazione ci fornisce. È più importante per me, però, che voi notiate che nel cerimoniale non si è depositata un'unica fantasia, ma molte, le quali di certo hanno da qualche parte il loro punto nodale; e che notiate inoltre che gli imperativi del cerimoniale riproducono, una volta positivamente una volta negativamente, i desideri sessuali, e che servono in parte a rappresentarli in parte a difendersene.

Si potrebbe ricavare anche di più dall'analisi di questo cerimoniale se fosse possibile collegarlo nel modo corretto agli altri sintomi della malata. Ma la nostra strada non ci porta fin lì. Accontentatevi dell' accenno che questa ragazza è stata preda di un attaccamento erotico al padre, i cui inizi risalgono agli anni dell'infanzia. Forse è anche per questo che si comporta in modo così ostile nei confronti della madre. Non possiamo neppure trascurare il fatto che l'analisi di questo sintomo ci ha condotti ancora una volta alla vita sessuale della paziente. Ce ne meraviglieremo forse tanto meno quanto più spesso saremo giunti a comprendere il senso e l'intenzione dei sintomi nevrotici.

Così vi ho mostrato in base a due esempi che i sintomi nevrotici hanno un senso, come gli atti mancati e come i sogni, e che sono in intima relazione con le esperienze dei pazienti. Posso aspettarmi che voi crediate a questo principio importantissimo sulla base di due esempi? Ma potete pretendere da me che vi porti ancora tanti altri esempi, finché sarete persuasi? Neppure, poiché considerato il modo dettagliato con cui tratto ogni singolo caso, sarei costretto a dedicare un corso semestrale di cinque ore settimanali alla definizione di questo singolo punto della teoria delle nevrosi. Mi accontento quindi di avervi dato una prova delle mie affermazioni, e vi rimando per il resto alle comunicazioni che si trovano nelle pubblicazioni sull'argomento, alle classiche interpretazioni di sintomi, nel primo caso di Breuer (isteria), alle stupefacenti spiegazioni di sintomi del tutto oscuri nella cosiddetta dementia praecox, fornite da C. G. Jung3, al tempo in cui questo ricercatore era solo uno psicoanalista e non voleva ancora essere un profeta, e a tutti i lavori che da allora sono comparsi sulle nostre riviste. Tali ricerche non ci mancano. L'analisi, l'interpretazione, la traduzione dei sintomi nevrotici hanno attirato a tal punto gli psicoanalisti che essi inizialmente trascurano gli altri problemi della nevrosi.

Chi di voi si sottoporrà a un tale sforzo sarà di certo fortemente impressionato dalla quantità del materiale probatorio. Ma incontrerà anche una difficoltà. Il senso di un sintomo - come abbiamo appreso - sta in una determinata relazione con le esperienze del malato. Quanto più il sintomo si presenta individualizzato, tanto più possiamo aspettarci di stabilire questa connessione. Il compito sarà allora quello di risalire da un'idea priva di senso e da un'azione senza scopo alla situazione passata in cui l'idea era giustificata e l'azione corrispondeva a uno scopo. L'azione ossessiva della nostra paziente che correva al tavolo e suonava alla cameriera è esemplare per questa specie di sintomi. Ma ci sono, anche molto spesso, sintomi a carattere completamente diverso. Si devono chiamare sintomi "tipici" della malattia, sono all'incirca uguali in tutti i casi, in essi le differenze individuali scompaiono, o quanto meno si riducono a tal punto che diventa difficile metterli in relazione con l'esperienza individuale del malato e riferirli a singole situazioni vissute. Prendiamo nuovamente in considerazione la nevrosi ossessiva. Già il cerimoniale dell' andare a dormire della nostra seconda paziente ha in sé molto di tipico, sebbene abbia anche sufficienti tratti individuali da rendere possibile un'interpretazione storica.

Tutti questi nevrotici ossessivi hanno la tendenza a ripetere, a ritmare le operazioni e a isolarle da altre. La maggior parte di essi lava troppo. I malati che soffrono di agorafobia (topofobia, paura dello spazio), fobia che non attribuiamo più alla nevrosi ossessiva, ma che definiamo come isteria d'angoscia, ripetono nel loro quadro clinico, spesso con una monotonia faticosa, gli stessi tratti: hanno paura di spazi chiusi, di grandi piazze aperte, di strade e viali lunghi. Si ritengono protetti se un conoscente li accompagna o se una vettura le segue ecc. Ma su questo sostrato omogeneo i singoli malati apportano le loro condizioni individuali, preferirei dire i loro umori che in alcuni casi si contraddicono completamente tra loro. L'uno teme soltanto le strade strette, l'altro solo quelle ampie, l'uno può uscire soltanto quando per strada c'è poca gente, l'altro quando ce n'è molta. Allo stesso modo l'isteria, per quanto sia ricca di tratti individuali, ha una gran quantità di sintomi comuni, tipici, che sembrano opporsi a una facile derivazione storica. Non dimentichiamo che sono i sintomi tipici quelli su cui ci orientiamo per la formulazione della diagnosi. Infatti, se in un caso di isteria abbiamo ricondotto un sintomo tipico a un'esperienza o a una catena di esperienze simili - ad esempio un vomito isterico a una serie di impressioni disgustose -, non sapremmo che pensare se in un altro caso di vomito, l'analisi ci rivelasse una serie di esperienze, apparentemente determinanti, di tutt'altro genere. Potrebbe sembrarci allora che gli isterici producano il vomito per ragioni ignote, e che i motivi occasionali, storici, forniti dall'analisi, quando casualmente sì presentano, non siano altro che pretesti utilizzati da questa necessità interiore.

Così giungiamo alla triste scoperta che seppure riusciamo a spiegare in modo soddisfacente il senso dei sintomi nevrotici individuali, mettendoli in relazione con le esperienze dei pazienti, nel caso dei sintomi tipici, molto più frequenti, la nostra arte ci abbandona. A ciò si aggiunga che non vi ho ancora comunicato tutte le difficoltà che s'incontrano quando si effettua in modo coerente l'interpretazione storica dei sintomi. E neppure voglio farlo, poiché se è vero che non ho l'intenzione di mascherarvi o nascondervi nulla, nemmeno posso disorientarvi e confondervi proprio all'inizio dei nostri comuni studi. E' vero che abbiamo fatto soltanto il primo passo verso la comprensione del significato dei sintomi, ma vogliamo attenerci a ciò che abbiamo acquisito e giungere gradualmente alla conquista di ciò che non abbiamo ancora compreso. Tenterò dunque di consolarvi con la considerazione che una diversità fondamentale tra l'una e l'altra specie di sintomi non è ipotizzabile. Se i sintomi individuali dipendono in modo così inconfondibile dall'esperienza del malato, per i sintomi tipici resta la possibilità che essi risalgano a un'esperienza che è in sé tipica, che è comune a tutti gli uomini.

Altri tratti regolarmente ricorrenti nelle nevrosi possono essere reazioni generali imposte al malato dalla natura stessa del mutamento morboso, come ad esempio le ripetizioni e i dubbi nella nevrosi ossessiva. In breve, non c'è alcuna ragione di scoraggiarci prematuramente, vedremo che cosa risulterà in seguito.

Anche nella teoria del sogno ci troviamo di fronte a una difficoltà del tutto simile. Non l'ho potuta affrontare nelle nostre precedenti discussioni sul sogno. Il contenuto manifesto dei sogni è, a seconda degli individui, estremamente vario e diverso, e noi abbiamo mostrato in modo esauriente che cosa si ottiene da questo contenuto per mezzo dell'analisi. Ma, oltre a questi, ci sono sogni che vengono ugualmente chiamati "tipici", che si presentano allo stesso modo in tutte le persone, sogni dal contenuto uniforme, i quali contrappongono le medesime difficoltà all'interpretazione. Si tratta dei sogni di cadere, volare, librarsi, nuotare, essere inibiti, essere nudi, e alcuni altri sogni angosciosi che nelle singole persone danno luogo ora a questa, ora a quella interpretazione, senza che la loro monotonia e la loro comparsa tipica vi trovino una spiegazione. Anche in questi sogni osserviamo però che lo sfondo comune viene ravvivato da aggiunte che variano a seconda dell'individuo, e probabilmente riusciremo a inserirli facilmente nella concezione della vita onirica che abbiamo ricavato dagli altri sogni, allargando in tal modo anche le nostre conoscenze.

Lezione 18. La fissazione al trauma. L'inconscio

Signore e signori, la volta scorsa dissi che volevamo proseguire il nostro lavoro non sulla base dei nostri dubbi, ma delle nostre scoperte. Non abbiamo ancora parlato di due fra le più interessanti conseguenze delle due analisi che abbiamo preso come esempio.

Punto primo: entrambe le pazienti ci danno l'impressione di essere fissate a una data epoca del loro passato, di non sapersene liberare e di essere perciò estraniate dal presente e dal futuro. Esse sono rinchiuse ora nella loro malattia, come in tempi passati si usava ritirarsi in un convento per concludervi un difficile destino. Nel caso della nostra prima paziente è stato il matrimonio con il marito, a cui in realtà ha rinunciato, a esserle fatale. Mediante i sintomi la donna continua il processo a suo marito; abbiamo imparato a comprendere quelle voci che parlano in suo favore, lo scusano, lo innalzano, lamentano la sua perdita. Sebbene sia giovane e desiderabile per altri uomini, ha preso tutte le precauzioni reali e immaginarie (magiche) per restargli fedele. Non si mostra a occhi estranei, trascura il proprio aspetto, non è capace di alzarsi dalla poltrona in cui è seduta, rifiuta di firmare col proprio nome, non può fare regali a nessuno, con la scusa che nessuno deve avere una cosa da lei.

Nel caso della nostra seconda paziente, la ragazza, i medesimi effetti per la sua vita sono prodotti da un legame erotico con il padre instauratosi negli anni che precedono la pubertà. Nel suo intimo è anche giunta alla conclusione di non potersi sposare finché è così ammalata. È lecito supporre che si sia ammalata così per non doversi sposare e rimanere accanto al padre.

Non possiamo fare a meno di domandarci perché, in che modo e in forza di quali motivazioni si giunga a un atteggiamento così singolare e svantaggioso nei confronti della vita. Ammettendo che questo modo di comportarsi sia un carattere generale delle nevrosi e non una particolarità di queste due malate. Difatti esso è un tratto molto importante dal punto di vista pratico, comune a tutte le nevrosi. La prima paziente isterica di Breuer era fissata in modo simile al periodo in cui aveva assistito il proprio padre gravemente malato. Da allora, nonostante sia guarita, in un certo senso ha chiuso con la vita, è rimasta sana ed efficiente, ma ha evitato il destino normale della donna. Possiamo vedere mediante l'analisi che ognuno dei nostri pazienti si è ritirato, nei sintomi della malattia e attraverso le conseguenze che da essi derivano, in un determinato periodo del suo passato. Nella maggior parte dei casi il paziente ha scelto persino una fase molto remota della sua vita, un'epoca dell'infanzia e anche, per quanto possa sembrare ridicolo, del periodo in cui era ancora un lattante.

L'analogia più prossima a questo comportamento dei nostri nervosi viene offerta dalle malattie, che proprio ora la guerra ha reso più frequenti, le cosiddette nevrosi traumatiche. Naturalmente casi simili si presentavano anche prima della guerra, in seguito a scontri ferroviari o ad altri spaventosi pericoli mortali. Ma, in fondo, le nevrosi traumatiche non sono la stessa cosa delle nevrosi spontanee che siamo soliti studiare e curare analiticamente; non siamo neppure riusciti finora a indagarle secondo il nostro punto di vista e io spero di potervi spiegare un giorno a cosa sia dovuta questa limitazione. Ma in un punto possiamo rilevare una perfetta concordanza. Le nevrosi traumatiche offrono chiari indizi che alla loro base vi sia una fissazione al momento dell'incidente traumatico. Questi malati, nei loro sogni, ripetono regolarmente la situazione traumatica. Dove si presentano attacchi di tipo isterico che permettono un'analisi, si apprende che l'attacco corrisponde a una trasposizione completa in quella situazione. È come se questi malati non fossero riusciti a superare la situazione traumatica, come se questa fosse ancora davanti a loro quale compito attuale non risolto, e noi prendiamo molto sul serio questa concezione, essa ci mostra la strada per una considerazione diciamo così economica dei processi psichici. Anzi l'espressione traumatico non ha altro senso che questo economico. Chiamiamo così un'esperienza che in un breve lasso di tempo apporta alla vita psichica un incremento di stimoli così forte che la sua eliminazione o elaborazione nel modo normalmente usato fallisce, per cui risultano necessariamente disturbi duraturi nell'economia energetica.

Questa analogia deve indurci a considerare traumatiche anche quelle esperienze a cui i nostri nervosi sembrano fissati. In tal modo avremmo trovato una condizione semplice per la nascita della malattia nevrotica. La nevrosi sarebbe da equiparare a una malattia traumatica e si genererebbe per l'incapacità di risolvere un'esperienza che è sovraccarica affettivamente. Questa era in realtà anche la prima formula con la quale Breuer e io nel 1893-95 presentammo un resoconto teorico delle nostre nuove osservazioni. Un caso come quello della nostra prima paziente, la giovane donna separata dal marito, rientra molto bene in questa concezione. Ella non ha superato l'inattuabilità del suo matrimonio ed è rimasta attaccata a questo trauma. Ma già il nostro secondo caso, quello della ragazza fissata al proprio padre, ci mostra che la formula non è abbastanza ampia. Da un lato, un tale innamoramento della bambina per il padre è qualcosa di così comune e così frequentemente superato che la definizione "traumatico" in questo caso perderebbe tutto il suo contenuto, dall'altro, apprendiamo dalla storia della malata che questa prima fissazione erotica fu superata apparentemente senza conseguenze e solo molti anni dopo ricomparve nei sintomi della nevrosi ossessiva. Qui dunque prevediamo complicazioni, una maggiore varietà di condizioni per lo sviluppo della malattia, ma intuiamo anche che non si debba abbandonare come erroneo il punto di vista traumatico: esso potrà invece essere inserito e adattarsi a un altro contesto.

Qui interrompiamo ancora una volta la strada che abbiamo percorso. Al momento essa non conduce oltre, e noi abbiamo molte altre cose da scoprire prima di poter trovare il suo giusto proseguimento. Notiamo solo ancora a proposito del tema della fissazione a una determinata fase del passato che un tale fatto supera di molto il campo della nevrosi. Ogni nevrosi contiene una tale fissazione, ma non ogni fissazione conduce alla nevrosi, coincide con la nevrosi, o si origina mediante la nevrosi. Un esempio tipico di fissazione affettiva a qualcosa del passato è il lutto, il quale comporta proprio il più completo distacco dal presente e dal futuro. Ma il lutto si differenzia nettamente dalla nevrosi persino per il profano. D'altra parte esistono nevrosi che possono essere definite come una forma patologica di lutto.

Può accadere inoltre che una persona colpita da un evento traumatico che scuote quelli che erano stati fino ad allora i fondamenti della sua esistenza subisca un tale arresto da perdere ogni interesse per il presente e il futuro e da rivolgere durevolmente ogni suo pensiero al passato. Non per questo però lo sventurato è destinato a diventare nevrotico. Non intendiamo dunque sopravvalutare questo tratto nella caratterizzazione della nevrosi, per quanto sia di regola presente e solitamente importante.

Passiamo ora al secondo risultato delle nostre analisi, che non avrà bisogno di alcuna limitazione successiva. A proposito della nostra prima paziente abbiamo detto che eseguiva una insensata azione ossessiva e, in relazione ad essa, raccontava un ricordo intimo della sua vita passata. Abbiamo quindi anche esaminato il rapporto tra azione e ricordo e da esso abbiamo intuito l'intenzione dell'azione ossessiva. Tuttavia non abbiamo considerato affatto un fattore che merita tutta la nostra attenzione. Per quanto la paziente continuasse a ripetere l'azione ossessiva, non sapeva nulla del fatto che essa si ricollegava a quell'esperienza. Il legame tra le due le rimaneva nascosto, doveva rispondere verosimilmente di non conoscere l'impulso che la spingeva ad agire così. Accadde poi, sotto l'influenza della cura, che una volta improvvisamente scoprì quel nesso e potè comunicarlo. Ma continuava a non sapere nulla dell'intenzione in forza della quale compiva l'azione ossessiva, l'intenzione cioè di correggere una parte penosa del suo passato e di innalzare ai suoi occhi il marito. Ci volle parecchio tempo e costò molta fatica farle comprendere e riconoscere che solo un motivo del genere poteva essere stato la forza motrice della sua azione ossessiva.

Il legame con la scena avvenuta dopo la sfortunata notte nuziale, e l'affettuosa motivazione della malata, danno insieme ciò che abbiamo chiamato il "senso" dell'azione ossessiva. Ma tale senso, mentre eseguiva l'azione ossessiva, le era rimasto sconosciuto in entrambe le direzioni, sia "da che cosa", sia "per che cosa". Avevano agito quindi in lei processi psichici, di cui l'azione ossessiva era appunto l'effetto; la donna aveva percepito tale effetto in una condizione psichica normale, ma nulla delle premesse psichiche dell'effetto era giunta alla conoscenza cosciente. Si era comportata esattamente come quell'uomo cui Bernheim durante l'ipnosi impartì l'ordine di aprire un ombrello cinque minuti dopo il risveglio nella sala d'ospedale: eseguì il compito da sveglio, ma non seppe addurre alcun motivo per la sua azione. Un tale stato di cose abbiamo presente quando parliamo di processi psichici inconsci. Possiamo sfidare il mondo intero a spiegare questa situazione in un modo scientificamente più corretto, e se qualcuno ci riuscirà, rinunceremo volentieri all'ipotesi che esistano processi psichici inconsci. Fino a quel momento però ci atterremo a questa ipotesi e dobbiamo respingere con una rassegnata alzata di spalle se qualcuno vuole obiettare che tale inconscio non sia nulla di reale per la scienza, sia un espediente, une façon de parler. Come se potesse non essere reale qualcosa da cui provengono effetti così realmente tangibili come un'azione ossessiva!

Riscontriamo, in fondo, la stessa cosa nella nostra seconda paziente. Si è creata una regola: il cuscino non deve toccare la testata del letto; e deve seguirla, ma non sa da dove essa provenga, cosa significhi e a quali fattori sia dovuto il suo potere. Il fatto che lei stessa la consideri irrilevante, oppure si opponga ad essa, si infuri contro di essa, si proponga di trasgredirla, è indifferente ai fini della sua esecuzione. La regola deve essere osservata e la giovane si domanda inutilmente il perché. In questi sintomi della nevrosi ossessiva, in queste rappresentazioni e impulsi che emergono non si sa da dove, che si mostrano talmente resistenti ad ogni influsso della psiche, per il resto del tutto normale, da dare agli stessi malati l'impressione di essere ospiti strapotenti venuti da un altro mondo, immortali che si sono mescolati alla folla dei mortali, in questi sintomi si deve pur riconoscere un evidente rimando a una particolare sfera della vita psichica separata dal resto. Da questi sintomi parte una strada che conduce necessariamente alla convinzione dell'esistenza nella psiche dell'inconscio, ed è proprio per questo che la psichiatria clinica, la quale conosce soltanto una psicologia della coscienza, non sa far altro dei sintomi se non spacciarli per indizi di un particolare tipo di degenerazione. Naturalmente le idee ossessive e gli impulsi ossessivi non sono di per sé inconsci, così come l'esecuzione delle azioni ossessive si sottrae alla percezione conscia. Non sarebbero divenuti sintomi se non fossero penetrati fino alla coscienza. Ma le loro premesse psichiche, che scopriamo grazie all'analisi, i nessi in cui li inseriamo mediante l'interpretazione, sono inconsci, almeno finché non li abbiamo resi coscienti al malato attraverso il lavoro dell'analisi.

Aggiungete ora che questo stato di cose accertato nei nostri due casi trova conferma in tutti i sintomi di tutte le malattie nevrotiche, che il senso dei sintomi è sempre e comunque sconosciuto al malato, che l'analisi mostra regolarmente che tali sintomi sono derivati di processi inconsci, i quali però, al verificarsi di molteplici condizioni favorevoli, possono essere resi coscienti; capirete quindi che in psicoanalisi non possiamo fare a meno dello psichico inconscio e siamo abituati a operare con esso come con qualcosa di percepibile coi sensi. Forse comprenderete però anche quanto poco siano capaci di formarsi un giudizio su tale questione tutti gli altri, coloro che conoscono l'inconscio solo come un concetto, che non hanno mai esercitato l'analisi, mai interpretato sogni o tratto dai sintomi nevrotici un senso e un'intenzione. E per esprimerlo ancora una volta conformemente ai nostri scopi: la possibilità di dare un senso ai sintomi nevrotici con l'interpretazione analitica è una prova inconfutabile dell'esistenza - o se preferite della necessità di ammettere l'esistenza- dei processi psichici inconsci.

Ma ciò non è tutto. Grazie a una seconda scoperta di Breuer, che mi sembra persino più importante dell'altra e che appartiene a lui solo, apprendiamo ancora di più in merito alla relazione tra l'inconscio e i sintomi nevrotici. Non soltanto il senso dei sintomi è di regola inconscio, vi è anche un rapporto di sostituzione tra questa incoscienza e la possibilità di esistenza dei sintomi. Comprenderete subito cosa intendo. Con Breuer sostengo: ogni volta che incontriamo un sintomo possiamo dedurre che nel malato esistano determinati processi inconsci, i quali appunto contengono il senso del sintomo. Ma è anche necessario che questo senso sia inconscio, perché vi sia il sintomo. Processi coscienti non danno luogo a sintomi, non appena i processi inconsci in questione diventano coscienti, il sintomo deve scomparire. Ecco che, a un tratto, riconoscete qui una via d'accesso alla terapia, un modo per far scomparire i sintomi. In tal modo Breuer guarì in effetti la sua paziente isterica, ossia la liberò dai suoi sintomi. Egli trovò una tecnica per far divenire coscienti i processi inconsci che contenevano il senso del sintomo, e i sintomi scomparvero.

Questa scoperta di Breuer non fu il risultato di una speculazione, ma di una fortunata osservazione resa possibile dalla cooperazione della malata. Ora, per comprenderla non c'è bisogno che vi sforziate per ricondurla a qualcos'altro a voi già noto, ma riconoscete piuttosto in essa un nuovo dato di fatto fondamentale, grazie al quale molte altre cose diventeranno comprensibili. Permettetemi quindi che vi ripeta ciò in altro modo.

La formazione del sintomo è un sostituto di qualcos'altro che non ha avuto luogo. Certi processi psichici si sarebbero normalmente dovuti sviluppare fino a giungere alla coscienza. Ciò non è accaduto e da processi, interrotti e turbati in qualsiasi modo, che sono dovuti rimanere inconsci si è originato il sintomo. È dunque avvenuto qualcosa di simile a uno scambio, quando si riesce a farlo retroagire, la terapia dei sintomi nevrotici ha portato a termine il suo compito.

La scoperta di Breuer è ancora oggi la base della terapia psicoanalitica. La tesi che i sintomi scompaiono quando le loro premesse inconsce sono state rese coscienti è stata confermata da tutte le indagini ulteriori, sebbene si incontrino le più incredibili e inaspettate complicazioni nel tentativo di dare applicazione pratica a questa teoria. La nostra terapia agisce trasformando in cosciente ciò che è inconscio ed è efficace solo nella misura in cui sia in grado di operare tale trasformazione.

Ed ora una piccola digressione perché non corriate il rischio di immaginarvi il lavoro terapeutico come qualcosa di troppo facile. Secondo quanto ho esposto finora, la nevrosi sarebbe la conseguenza di una specie di ignoranza, di mancata conoscenza dei processi psichici che dovrebbero essere conosciuti. Ciò costituirebbe un forte avvicinamento alle note dottrine socratiche, secondo le quali persino i vizi si basano sull'ignoranza. Ora, al medico esperto di analisi sarà normalmente molto semplice intuire quali impulsi psichici siano rimasti inconsci per il singolo malato. Non dovrebbe neppure risultargli difficile, dunque, guarire il paziente poiché comunicandogli ciò che sa lo libera dalla sua ignoranza. Così si eliminerebbe quanto meno una parte del senso inconscio dei sintomi; dell'altra, quella che riguarda il legame dei sintomi con esperienze del malato, il medico in realtà non può intuire molto; non conosce quelle esperienze, deve aspettare che il malato le ricordi e gliele comunichi. Ma anche per questo si può trovare in alcuni casi un sostituto. È possibile attingere informazioni sulle esperienze del malato dai suoi parenti, e costoro saranno spesso in grado di riconoscere tra di esse quelle che hanno avuto un effetto traumatico e forse persino di riferire episodi di cui il malato non sa nulla, poiché sono avvenuti nei primissimi anni della sua vita. Unendo questi due procedimenti si avrebbe quindi la speranza di rimediare in breve tempo e con poca fatica all'ignoranza patogena del malato.

Magari ciò fosse possibile! Al riguardo abbiamo fatto esperienze alle quali all'inizio non eravamo preparati. C'è sapere e sapere. Vi sono specie diverse di sapere, che non sono affatto psicologicamente equivalenti. Il y a fagots et fagots, come dice Molière. Il sapere del medico non è lo stesso di quello del malato e può non avere gli stessi effetti. Se il medico si limita a comunicare il suo sapere al paziente, ciò non produce alcun effetto. Anzi, è inesatto dire così. Non ha il risultato di eliminare i sintomi, ma di mettere in moto l'analisi, di cui spesso i primi indizi sono le manifestazioni di opposizione. Il paziente sa quindi qualcosa che fino a quel momento non sapeva, il senso del suo sintomo, ma ne sa altrettanto poco di prima. Scopriamo così che ci sono più specie di ignoranza. Per comprendere in cosa consistano le differenze, occorrerà un certo approfondimento della nostra conoscenza psicologica. Ma la nostra affermazione che i sintomi vengano meno con la conoscenza del loro senso resta comunque esatta. C'è solo da aggiungere che tale conoscenza si deve fondare su un cambiamento interno del paziente, che può essere prodotto soltanto da un lavoro psichico con una meta determinata. Qui ci troviamo di fronte a problemi che presto verranno a costituire per noi, nel loro insieme, una dinamica della formazione del sintomo.

Signori, vi devo fare una domanda: ciò che vi dico non vi risulta troppo oscuro e complicato? Non vi confondo riprendendo e rettificando così spesso quello che dico, iniziando ragionamenti per poi interromperli? Se così fosse ne sarei dispiaciuto. Ma nutro una forte avversione per le semplificazioni fatte a spese della verità, non ho nulla in contrario a che riceviate la piena impressione della multilateralità e della complessità dell'argomento, e penso inoltre che non vi sia nulla di male se su ogni punto vi dico più di quanto al momento siete in grado di utilizzare. So che ogni uditore e lettore mentalmente aggiusta, riduce, semplifica e sceglie ciò che vuol ritenere. Sino a un certo punto è di certo vero che maggiore è la quantità di materiale a disposizione, tanto più è ciò che rimane. Lasciatemi sperare che, malgrado tutti gli elementi accessori, avete compreso bene la parte essenziale delle mie comunicazioni sul senso dei sintomi, sull'inconscio e la loro reciproca relazione. Avete capito di certo che il nostro sforzo ulteriore andrà in due direzioni, in primo luogo per scoprire come gli individui si ammalino, come possano giungere alla posizione nevrotica nei confronti della vita, e questo è un problema clinico; e in secondo luogo, per sapere come dalle condizioni che determinano la nevrosi si sviluppino i sintomi morbosi, e questo resta un problema di dinamica psichica. Da qualche parte deve esserci un punto d'incontro anche di questi due problemi.

Non voglio procedere oltre per oggi, ma intendo impiegare il tempo rimasto richiamando la vostra attenzione su un altro carattere delle nostre due analisi, che potrete apprezzare pienamente, ancora una volta, solo in seguito, ossia sulle lacune mnestiche o amnesie. Avete visto che il compito del trattamento psicoanalitico può essere espresso nella formula: trasformare l'inconscio patogeno in cosciente. Ora, sarete forse stupiti di apprendere che tale formula può anche essere sostituita con l'altra: colmare tutte le lacune mnestiche del malato, eliminare le sue amnesie. Ciò sarebbe la stessa cosa. Alle amnesie del nevrotico viene dunque attribuita una relazione importante con la formazione dei sintomi. Ma se prendete in considerazione il caso della nostra prima analisi non troverete giustificato questo giudizio sull'amnesia. La paziente non ha dimenticato la scena a cui si collega la sua azione ossessiva, al contrario, ne ha conservato un ricordo vivido, e nella formazione di questo sintomo non è entrato neppure in gioco qualcos'altro che è stato dimenticato. Meno chiara, ma nel complesso analoga, è la situazione della nostra seconda paziente, la ragazza col cerimoniale ossessivo. Anche lei non ha in realtà dimenticato il suo comportamento dei primi anni, il fatto che insisteva perché fosse tenuta aperta la porta tra la camera da letto dei genitori e la propria e che scacciava la madre dal suo posto nel letto matrimoniale; se ne ricorda molto bene, seppure esitando e malvolentieri.

Ci colpisce soltanto il fatto che la prima paziente, pur avendo eseguito innumerevoli volte l'azione ossessiva, neppure una volta ha notato la somiglianza di questa con l'esperienza vissuta dopo la prima notte di nozze, e che questo ricordo non è comparso neppure quando fu sollecitata con domande dirette a cercare le motivazioni dell'azione ossessiva. Lo stesso vale per la ragazza, nel cui caso inoltre il cerimoniale e i motivi che ne hanno dato origine si riferiscono alla stessa situazione che si ripete ogni sera. In entrambi i casi non vi è una vera e propria amnesia, o una perdita di memoria, ma si tratta di un collegamento interrotto, il quale dovrebbe causare la riproduzione, la rievocazione del ricordo. Un disturbo della memoria di questo genere è sufficiente per la nevrosi ossessiva, per l'isteria è diverso. Quest'ultima è caratterizzata il più delle volte da amnesie assolutamente straordinarie. Di regola, nell'analisi di ogni singolo sintomo isterico si viene condotti a un'intera catena di impressioni vissute, le quali nel momento in cui riaffiorano vengono espressamente riconosciute come fino ad allora dimenticate. Questa catena risale, da un lato, ai primissimi anni di vita, sicché l'amnesia isterica può essere riconosciuta come una diretta prosecuzione dell'amnesia infantile, la quale, per noi normali, nasconde gli inizi della vita psichica. Dall'altro lato, scopriamo con stupore che anche le più recenti esperienze dei malati possono cadere nell'oblio e che, in particolare, le occasioni in cui la malattia è scoppiata o si è rafforzata sono corrose, se non del tutto consumate, dall'amnesia. In genere dal quadro completo di un ricordo recente di questo tipo sono scomparsi particolari importanti o sono stati sostituiti da falsificazioni della memoria. Anzi, si verifica quasi altrettanto di frequente che solo poco prima della conclusione di un'analisi emergano determinati ricordi relativi a esperienze recenti, che erano stati trattenuti così a lungo, provocando lacune rilevanti nella concatenazione dei fatti.

Tali riduzioni della capacità mnemonica sono, come si è detto, caratteristiche dell'isteria, in cui si presentano come sintomi anche stati (gli attacchi isterici) che non necessariamente lasciano traccia nella memoria. Poiché nella nevrosi ossessiva le cose stanno diversamente, ne potete concludere che per quanto riguarda le amnesie isteriche si tratta di un carattere psicologico dell'alterazione isterica e non di un tratto comune delle nevrosi in genere. L'importanza di tale differenza troverà un limite nella seguente considerazione. Come "senso" di un sintomo abbiamo inteso due cose contemporaneamente: il suo "da che cosa", e il suo "verso che cosa" o "per che cosa", ossia le impressioni e le esperienze da cui proviene, e le intenzioni a cui serve. Il "da che cosa" di un sintomo si risolve dunque in impressioni che sono giunte dall'esterno, che necessariamente una volta era state coscienti e da allora per dimenticanza possono essere divenute inconsce. Il "per che cosa" del sintomo, la sua tendenza, è sempre invece un processo endopsichico, che inizialmente può anche essere stato cosciente, ma che può parimenti non essere mai stato cosciente ed essere rimasto nell'inconscio da sempre. Non è quindi molto importante se l'amnesia abbia colpito anche il "da che cosa", le esperienze sulle quali si è costruito il sintomo, come accade nell'isteria. E la tendenza del sintomo - il "verso che cosa" - che può essere stata inconscia fin dall'inizio a causare la sua dipendenza dall'inconscio, e ciò tanto nella nevrosi ossessiva quanto nell'isteria.

Dando questo rilievo all'inconscio nella vita psichica abbiamo risvegliato gli spiriti più maligni della critica contro la psicoanalisi. Non meravigliatevene, né crediate che la resistenza contro di noi si basi soltanto sulla comprensìbile difficoltà dell'inconscio o sulla relativa inaccessibilità delle esperienze che ne provano l'esistenza. Intendo dire che tale resistenza ha un'origine più profonda. Nel corso dei tempi l'umanità ha dovuto sopportare due grandi offese del suo ingenuo amor proprio da parte della scienza. La prima, quando scoprì che la Terra non è il centro dell'universo, ma una minuscola particella di un sistema cosmico di una grandezza difficilmente immaginabile. Per noi tale scoperta è legata al nome di Copernico, sebbene già la scienza alessandrina avesse annunciato qualcosa di simile. La seconda offesa ci fu quando la ricerca biologica fece venir meno la presunta posizione di privilegio dell'uomo nella creazione e gli rinfacciò la sua provenienza dal regno animale e l'ineliminabilità della sua natura animale. Questo rovesciamento di valori è stato compiuto ai giorni nostri sotto l'influsso di C. Darwin, di Wallace e dei loro predecessori, non senza la più forte opposizione dei contemporanei. Ma la megalomania umana deve subire la terza e più grave offesa da parte dell'attuale ricerca psicologica, la quale vuole dimostrare all'Io che non solo non è padrone in casa sua, ma deve accontentarsi di scarse notizie su ciò che accade inconsciamente nella sua psiche. E neppure siamo stati noi psicoanalisti i primi o i soli a proporre questo ammonimento a guardarsi dentro, ma sembra che spetti a noi sostenerlo nel modo più energico e avvalorarlo con materiale empirico che tocca da vicino ogni individuo. Da ciò la generale ribellione contro la nostra scienza, l'inosservanza di qualsiasi norma di urbanità accademica e il liberarsi dell'opposizione da tutti i freni della logica imparziale. A ciò si aggiunga ancora che, come vedrete presto, abbiamo dovuto turbare la pace di questo mondo anche in altro modo.

 

Lezione 19. Resistenza e rimozione

Signore e signori, per procedere oltre nella comprensione delle nevrosi abbiamo bisogno di nuove esperienze, e ne faremo due. Entrambe sono molto singolari e a suo tempo sembrarono molto sorprendenti. In vero, siete preparati ad entrambe dalle nostre discussioni dell'anno scorso.

Primo: quando ci apprestiamo a guarire un malato, a liberarlo dai suoi sintomi, egli ci oppone una resistenza forte e tenace per tutta la durata del trattamento. Questo è un fatto talmente singolare che non dobbiamo aspettarci che venga creduto troppo facilmente. E' meglio non dire nulla in proposito ai parenti del malato, poiché questi penserebbero soltanto che si tratti di una scusa da parte nostra per giustificare la lunga durata o il fallimento del trattamento. Anche il malato produce tutti i fenomeni di questa resistenza senza riconoscerla come tale, ed è già un grande successo se siamo riusciti a fargli accettare la nostra concezione e a tenerne conto. Pensate: il malato che soffre molto a causa dei suoi sintomi e fa soffrire anche le persone che gli sono vicine, colui che intende fare così tanti sacrifici di tempo, soldi, fatica e autodisciplina per esserne liberato, proprio questi si ribellerebbe a colui che lo aiuta, nell'interesse della sua malattia. Come suona inverosimile tale affermazione! Eppure è così; e se qualcuno ci rinfaccia questa inverosimiglianza, non abbiamo che da rispondere che non mancano analogie al riguardo, e che chiunque sia andato dal dentista per un mal di denti insopportabile sa di avergli fermato il braccio quando l'ha visto avvicinarsi al dente malato armato di pinza.

La resistenza dei malati è di natura molto varia, estremamente abile, spesso difficile da riconoscere, proteiforme nelle sue manifestazioni. Ciò significa che il medico deve essere diffidente e guardingo contro di essa. Nella terapia psicoanalitica noi applichiamo la tecnica che vi è nota dall'interpretazione dei sogni. Imponiamo al malato di mettersi in uno stato di calma autoosservazione, senza introdurre riflessioni, e di comunicarci tutte le percezioni interiori che può avere in tal modo: sentimenti, pensieri, ricordi, nella successione in cui affiorano in lui. Allo stesso tempo lo mettiamo in guardia espressamente dal cedere a qualsiasi motivo che possa portarlo a scegliere o a escludere qualcosa di ciò che gli passa per la mente, anche se tale motivo fosse che è troppo spiacevole o troppo indiscreto per dirlo, o che è irrilevante, non c'entra nulla, o non ha senso, non c'è bisogno di dirlo. Gli raccomandiamo di seguire sempre soltanto la superficie della sua coscienza, di tralasciare qualsiasi critica rivolta contro ciò che trova, e gli confidiamo che il successo del trattamento, ma soprattutto la sua durata, dipende dalla scrupolosità con cui si atterrà a questa regola tecnica fondamentale dell'analisi. Sappiamo già dalla tecnica dell'interpretazione dei sogni che proprio quelle idee spontanee contro cui si sollevano i dubbi e le obiezioni da noi indicati contengono di regola il materiale che conduce alla scoperta dell'inconscio.

Istituendo questa regola tecnica fondamentale, otteniamo inizialmente che essa diventi il bersaglio principale della resistenza. Il paziente cerca in tutti i modi di sottrarsi a quanto essa stabilisce. Una volta afferma che non gli viene in mente nulla, un'altra che ha talmente tante idee che gli passano per la testa da non riuscire ad afferrarne alcuna. Osserviamo poi stupiti con disappunto che egli cede ora all'una, ora all'altra obiezione critica; ciò è tradito dalle lunghe pause che il paziente introduce tra i discorsi. Confessa quindi che questa cosa non può davvero dirla, che se ne vergogna, e lascia che questo motivo prevalga sulla promessa. Oppure dice che gli è venuto in mente qualcosa, ma riguarda un'altra persona e non lui stesso, e perciò non può essere riferita. O dice che quanto gli è venuto ora in mente è irrilevante, troppo sciocco e troppo assurdo; che di certo non poteva essere mia intenzione di condurlo a simili pensieri; e così di seguito con innumerevoli variazioni, alle quali si può rispondere soltanto che dire tutto significa realmente dire tutto.

È quasi impossibile trovare un malato che non tenti di riservare per sé un certo campo impedendo alla cura di accedervi. Un paziente, che dovrei annoverare tra i più intelligenti, tacque per settimane un'intima relazione amorosa e si difese, invitato a render conto di questa violazione della regola sacra, affermando di aver creduto che quella storia fosse un suo affare privato. Naturalmente la cura analitica non tollera un tale diritto d'asilo. Se ad esempio in una città come Vienna si ammettesse l'eccezione che in una certa piazza, come lo Hoher Markt, o nella chiesa di Santo Stefano nessuno possa essere arrestato e poi ci si impegnasse a catturare un determinato delinquente, di certo non lo si potrebbe trovare in altro luogo che in uno di quegli asili. Una volta decisi di concedere un simile diritto di eccezione a un uomo per il quale l'efficienza sul lavoro era obiettivamente molto importante, poiché egli era sotto giuramento d'ufficio che gli proibiva di comunicare determinate cose ad altri. Egli fu comunque contento del risultato, ma non io, e mi proposi di non ripetere un tentativo in tali condizioni.

I nevrotici ossessivi sono straordinariamente abili a rendere la regola tecnica quasi inutilizzabile applicandovi la loro estrema scrupolosità e i loro dubbi. I malati d'isteria d'angoscia riescono a volte a condurla all'assurdo, producendo solo associazioni che sono talmente lontane da ciò che si cerca da non portare alcun contributo all' analisi. Ma non intendo spiegarvi il trattamento di queste difficoltà tecniche. È sufficiente dire che alla fine, con decisione e costanza, si riesce a far sì che la resistenza obbedisca, in certa misura, alla regola tecnica fondamentale, e quindi essa si riversa su un altro campo. Essa si presenta ora come resistenza intellettuale, combatte con l'aiuto di argomenti, si impadronisce delle difficoltà e delle inverosimiglianze che un pensiero normale, ma non informato, attribuisce alle teorie analitiche. Dobbiamo ora ascoltare da quest'unica voce tutte le critiche e le obiezioni che nella letteratura scientifica rimbombano intorno a noi come un coro. Anche per questo nulla di quanto ci viene gridato dall'esterno ci sembra sconosciuto. È proprio una tempesta in un bicchier d'acqua. Comunque col paziente si può ragionare; vuole indurci a informarlo, a istruirlo, a contraddirlo, a guidarlo in letture che possano arricchire la sua cultura. È disposto a diventare un seguace della psicoanalisi, a condizione che l'analisi lo risparmi personalmente. Ma noi riconosciamo questa brama di sapere come una resistenza, una deviazione dai nostri compiti specifici, e la respingiamo. Nel caso del nevrotico ossessivo dobbiamo aspettarci una particolare tattica di resistenza. Spesso egli lascia che l'analisi proceda indisturbata per la sua strada, in modo tale che è possibile fare sempre più chiarezza sui misteri della sua malattia, ma alla fine ci meravigliamo che a tale chiarimento non corrisponda alcun progresso pratico, alcuna attenuazione dei sintomi. Scopriamo quindi che la resistenza si è ritirata sul dubbio proprio della nevrosi ossessiva e da quella posizione essa ci tiene testa con successo. Il paziente si è detto pressappoco: «Ciò è davvero bello e interessante. Lo continuo a seguire anche volentieri. Se fosse vero, la mia malattia cambierebbe molto. Ma io non credo affatto che sia vero e finché non lo credo non riguarda la mia malattia». Le cose possono andare avanti a lungo così, fino a quando ci troviamo di fronte a questa riserva mentale e allora scoppia la battaglia decisiva.

Le resistenze intellettuali non sono le peggiori, si riescono sempre a superare. Ma il paziente, pur restando nei confini dell'analisi, sa anche creare resistenze il cui superamento è uno dei compiti tecnici più difficili. Invece di ricordare, egli ripete quegli atteggiamenti e impulsi emotivi che possono venir impiegati - mediante il cosiddetto transfert - come resistenza contro il medico e la cura. Se si tratta di un uomo, egli attinge di regola questo materiale dal suo rapporto col padre, al cui posto mette il medico, e crea così resistenze a partire dalla sua aspirazione all'indipendenza personale e intellettuale, dalla propria ambizione - che trovò la sua prima meta nell'uguagliare o superare il padre -, dal proprio disappunto a farsi carico una seconda volta nella vita del peso della gratitudine. Si ha così a tratti l'impressione come se nel malato l'intenzione di mettere il medico dalla parte del torto, di fargli percepire la sua impotenza, di trionfare su di lui, abbia completamente sostituito la migliore intenzione di mettere fine alla malattia. Le donne sanno sfruttare in modo eccellente ai fini della resistenza un transfert affettuoso connotato eroticamente sul medico. Se tale inclinazione giunge a un certo grado d'intensità viene meno ogni interesse per la situazione attuale della cura, ogni obbligo che ella ha assunto nel cominciarla, e l'immancabile gelosia così come il risentimento per l'inevitabile rifiuto, seppure espressi nel modo più riguardoso, rovineranno l'accordo personale col medico e faranno venir meno una delle forze motrici più potenti dell'analisi.

Le resistenze di questa specie non devono venir condannate unilateralmente. Contengono gran parte del materiale più importante del passato del malato, e lo riproducono in modo così convincente da diventare i migliori sostegni dell'analisi, se una tecnica abile è capace di dar loro il giusto indirizzo. Resta comunque degno di nota che all'inizio questo materiale sta sempre al servizio della resistenza e mostra come prima cosa il suo lato ostile al trattamento. Si può anche dire che si tratta di particolarità del carattere, di atteggiamenti dell'Io che si sono mobilitati per opporsi ai mutamenti da noi perseguiti. Apprendiamo con ciò come tali particolarità del carattere si siano formate in rapporto alle condizioni che hanno portato alla nevrosi e in reazione alle esigenze da questa poste, e si riconoscono tratti del carattere che altrimenti non potrebbero manifestarsi affatto o quanto meno non in tale misura, tratti che possono essere definiti latenti. Non dovete neppure avere l'impressione che noi vediamo nella comparsa di queste resistenze un'imprevista minaccia per l'influenza esercitata dall'analisi. No, noi sappiamo che tali resistenze devono presentarsi; siamo scontenti solo quando non riusciamo a suscitarle in modo abbastanza evidente e non possiamo chiarirle al malato. Anzi, comprendiamo infine che il superamento di tali resistenze è la funzione fondamentale dell'analisi ed è quella parte del lavoro che, sola, ci assicura di aver ottenuto qualche risultato sul malato.

A ciò aggiungete che il malato approfitta di qualsiasi occasione che si presenti nel corso del trattamento per disturbarlo, di qualsiasi evento esterno per distrarsi, di qualsiasi affermazione di persona autorevole ostile all'analisi, da lui conosciuta, di ogni malattia organica casuale o che complichi la nevrosi, persino di ogni miglioramento del suo stato per allentare i suoi sforzi, e avrete così ottenuto un quadro approssimativo, pur sempre incompleto, delle forme e dei mezzi della resistenza, contro la quale ogni analisi lotta. Ho trattato questo punto in modo così dettagliato poiché ho da dirvi che la nostra esperienza con la resistenza dei nevrotici all'eliminazione dei loro sintomi è divenuta la base della nostra concezione dinamica delle nevrosi. Originariamente Breuer e io stesso avevamo praticato la psicoterapia mediante l'ipnosi; la prima paziente di Breuer era stata curata esclusivamente in stato di ipnosi, io stesso inizialmente seguii questo metodo. Confesso che il lavoro procedeva in modo più facile e piacevole, e anche in tempi molto più brevi. I risultati però erano capricciosi e instabili, perciò alla fine abbandonai l'ipnosi. E allora capii che non era possibile una comprensione della dinamica di queste affezioni finché si utilizzava l'ipnosi. Questo stato era capace di sottrarre alla percezione del medico proprio l'esistenza della resistenza. La respingeva, liberava un determinato campo per il lavoro analitico e accumulandola ai confini di questo territorio faceva sì che la resistenza divenisse impenetrabile, similmente al ruolo che svolge il dubbio nella nevrosi ossessiva. Perciò potrei anche dire che la psicanalisi vera e propria è cominciata con la rinuncia all'aiuto dell'ipnosi.

Ma se la constatazione della resistenza è divenuta così importante, possiamo esprimere un dubbio cauto, cioè se non sia troppo avventato supporre l'esistenza stessa delle resistenze. Forse esistono realmente casi di nevrosi in cui le associazioni non si presentano per altre ragioni, forse gli argomenti contro i nostri presupposti meritano realmente un apprezzamento contenutistico e sbagliamo a mettere comodamente da canto la critica intellettuale degli analizzati, considerandola una resistenza. Ebbene, signori, non siamo giunti con leggerezza a formarci tale giudizio. Abbiamo avuto occasione di osservare ogni singolo paziente critico, al momento in cui compariva una resistenza e dopo che essa era venuta meno. La resistenza infatti cambia costantemente la sua intensità nel corso del trattamento, cresce sempre quando ci si avvicina a un nuovo argomento, raggiunge l'intensità massima quando giungiamo all'apice della sua elaborazione e crolla con l'esaurimento del tema. Del resto, se non abbiamo commesso una particolare inabilità tecnica, non ci troviamo mai a dover avere a che fare con l'intera quantità di resistenza che un paziente può produrre. Ci siamo convinti dunque che nel corso dell'analisi la stessa persona può abbandonare e riassumere il suo atteggiamento critico. Se stiamo per portare alla coscienza una parte nuova del materiale inconscio, per lui particolarmente penosa, egli è estremamente critico; se in precedenza aveva compreso e accettato molte cose, ora tali acquisizioni sono come cancellate; nella sua smania di opposizione ad ogni costo egli può darci l'esatta impressione di un deficiente affettivo. Una volta che siamo riusciti a fargli superare questa nuova resistenza, egli riacquista il suo giudizio e il suo intelletto. La sua critica non è quindi una funzione indipendente, che come tale deve essere rispettata, ma è l'esecutrice dei suoi atteggiamenti affettivi ed è diretta dalla sua resistenza. Se qualcosa non gli va bene, egli vi si può opporre con molto acume e apparire molto critico; se qualcosa gli va a genio, può mostrarsi un ingenuo. Forse noi tutti non siamo molto diversi; l'analizzato mostra questa dipendenza dell'intelletto dalla vita affettiva così chiaramente solo perché lo incalziamo molto nel corso dell'analisi.

Come consideriamo ora l'osservazione che l'ammalato lotta così energicamente contro l'eliminazione dei suoi sintomi e il ristabilimento di un normale decorso dei suoi processi psichici? Diciamo di aver avvertito in quel punto grandi forze che si oppongono a un mutamento dello stato; devono essere le stesse forze che a suo tempo hanno prodotto quello stato. Nella formazione dei sintomi deve essere accaduto qualcosa, che noi ora possiamo ricostruire in base alle nostre esperienze nella risoluzione dei sintomi. Sappiamo già dall'osservazione di Breuer che l'esistenza del sintomo ha come presupposto un qualche processo psichico che non è stato portato a termine in modo normale, così da poter divenire cosciente. Il sintomo è un sostituto di ciò che in quel punto non ha avuto luogo. Ora, noi sappiamo dove dobbiamo collocare l'azione della forza che abbiamo supposto. Deve essersi sollevata una violenta opposizione al fatto che il processo psichico in questione giungesse fino alla coscienza; per questo è rimasto inconscio. In quanto inconscio ha avuto il potere di formare un sintomo. La stessa opposizione si presenta nuovamente durante la cura analitica contro lo sforzo di portare alla coscienza ciò che è inconscio. Questo è ciò che avvertiamo come resistenza. Diamo il nome di "rimozione" al processo patogeno che ci viene dimostrato dalla resistenza.

A questo punto dobbiamo farci un'idea più precisa di tale processo di rimozione. Esso è la condizione preliminare della formazione del sintomo, ma è anche qualcosa che non è simile a nulla di ciò che conosciamo. Prendiamo come esempio un impulso, un processo psichico che tende a tradursi in azione; noi sappiamo che possiamo rifiutarlo con ciò che chiamiamo riprovazione o condanna. In questo modo gli viene sottratta l'energia di cui esso dispone, diventa impotente, ma può continuare a sussistere come ricordo. L'intero processo in cui si decide della sua sorte si svolge con la consapevolezza dell'Io. Del tutto diverso sarebbe se immaginassimo che lo stesso impulso fosse sottoposto alla rimozione. Esso manterrebbe la sua energia e non ne rimarrebbe alcun ricordo. Inoltre il processo di rimozione si compirebbe all'insaputa dell'Io. Con questo paragone dunque non ci avviciniamo all'essenza della rimozione.

Vi presenterò le uniche rappresentazioni teoriche che si sono dimostrate idonee a conferire una forma più determinata al concetto di rimozione. In primo luogo è necessario procedere dal senso puramente descrittivo della parola "inconscio" al senso sistematico della stessa parola, cioè dobbiamo deciderci a dire che la coscienza o l'incoscienza di un processo psichico è solo una delle sue qualità, e non necessariamente una qualità priva di ambiguità. Se un processo psichico è rimasto inconscio, questo allontanamento dalla coscienza è forse solo un segno del destino che ha subito, e non il destino stesso. Per rappresentarci materialmente questo destino, supponiamo che ogni processo psichico - qui bisogna ammettere un'eccezione che sarà menzionata in seguito - esista dapprima in uno stadio o fase inconscia e che solo da questa passi alla fase conscia, qualcosa di simile a un'immagine fotografica che prima è un negativo e poi mediante la riproduzione positiva diventa un'immagine. Ma non ogni negativo deve necessariamente diventare un positivo; allo stesso modo non è necessario che ogni processo psichico inconscio si trasformi in uno conscio. Per esprimerci meglio: il singolo processo appartiene dapprima al sistema psichico dell'inconscio e in presenza di determinate circostanze può passare nel sistema della coscienza.

La rappresentazione più grossolana di questi sistemi - quella spaziale - è per noi la più agevole. Paragoniamo dunque il sistema dell'inconscio a una grande anticamera, in cui gli impulsi psichici si muovono liberamente come essenze singole. A tale anticamera segue una seconda stanza più stretta, una specie di salotto, in cui si trova anche la coscienza. Ma sulla soglia tra i due ambienti svolge le sue funzioni un guardiano che ispeziona, censura i singoli impulsi psichici e impedisce loro di entrare nel salotto se gli riescono sgraditi. Capite subito che non fa molta differenza se il guardiano respinge un impulso non appena esso compare sulla soglia, o se lo caccia via dopo che è entrato nel salotto. Dipende unicamente dal grado della sua vigilanza e della prontezza nel riconoscimento. Se ci atteniamo a questa immagine ci è possibile ampliare ulteriormente la nostra nomenclatura. Gli impulsi nell'anticamera dell'inconscio sono sottratti allo sguardo della coscienza che si trova appunto nell'altra stanza; dapprima devono rimanere inconsci. Se si sono già avvicinati alla soglia e sono stati respinti dal guardiano, essi sono allora incapaci di divenire coscienti, e li chiamiamo rimossi. Ma anche gli  impulsi che il guardiano ha ammesso a varcare la soglia non sono per questo diventati necessariamente coscienti; lo possono diventare solo se riescono ad attirare su di sé lo sguardo della coscienza. Chiamiamo questo secondo spazio, a buon diritto, il sistema del preconscio. Il divenire cosciente conserva qui solo il suo senso descrittivo. Invece la rimozione si compie per ogni singolo impulso quando il guardiano non gli consente di penetrare dal sistema dell'inconscio in quello del preconscio. È lo stesso guardiano di cui facciamo conoscenza sotto forma di resistenza quando tentiamo di annullare la rimozione mediante il trattamento analitico.

A questo punto, so bene che direte che tali rappresentazioni sono tanto grossolane quanto fantasiose, e del tutto inammissibili in un'esposizione scientifica. So che sono grossolane; anzi, sappiamo anche che sono inesatte e, se non sbaglio di molto, abbiamo già pronto un sostituto migliore. Non so se continueranno a sembrarvi così fantasiose anche in seguito. Al momento sono rappresentazioni ausiliarie, come l'omino di Ampère che nuota nel circuito elettrico, e non sono da disprezzare in quanto sono utili a capire i dati tratti dall'osservazione. Vorrei assicurarvi che questi esempi grossolani delle due stanze, del guardiano sulla soglia tra le due, e della coscienza come spettatrice al termine della seconda sala, devono pur essere molto vicini al reale stato di cose. Vorrei anche che ammetteste che le nostre definizioni di inconscio, preconscio, conscio sono molto meno pregiudizievoli e più facilmente giustificabili di altre che sono state proposte o sono entrate nell'uso, quali: subconscio, paraconscio, intraconscio, e simili.

Sarà per me più importante se mi farete osservare che una struttura dell'apparato psichico, come quella da me qui ipotizzata per spiegare i sintomi nevrotici, dovrebbe avere una valenza generale e darci informazioni anche sulla funzione normale. In ciò avete naturalmente ragione. Non possiamo ora proseguire questo ragionamento, ma il nostro interesse per la psicologia della formazione del sintomo deve crescere in misura straordinaria se vi è la possibilità che lo studio delle condizioni patologiche ci dia informazioni sul normale accadere psichico che è così ben celato.

Del resto, non riconoscete su cosa si basano le nostre concezioni sui due sistemi e sul loro rapporto reciproco e con la coscienza? Il guardiano tra l'inconscio e il preconscio non è altro che la censura, alla quale, come abbiamo visto, è soggetta la conformazione del sogno manifesto. I residui diurni, che abbiamo riconosciuto come gli animatori del sogno, erano materiale preconscio che durante la notte aveva subito nello stato di sonno l'influsso di impulsi di desiderio inconsci e rimossi, e in unione con questi, grazie alla loro energia, aveva potuto formare il sogno latente. Questo materiale aveva subito una rielaborazione - la condensazione e lo spostamento - sotto il dominio del sistema inconscio, rielaborazione che è sconosciuta o ammessa solo eccezionalmente nella vita psichica normale, cioè nel sistema preconscio. Questa diversità del modo di lavorare è diventata per noi la caratteristica dei due sistemi; mentre il rapporto del preconscio con la coscienza è valso per noi solo come segno dell'appartenenza a uno dei due sistemi. Il sogno non è più un fenomeno patologico, esso può presentarsi nella condizione del sonno in tutte le persone sane. Tale ipotesi sulla struttura dell'apparato psichico, che ci permette di comprendere al tempo stesso la formazione del sogno e quella dei sintomi nevrotici, ha innegabilmente diritto di essere presa in considerazione anche per la vita psichica normale.

Per ora è questo ciò che vogliamo dire sulla rimozione. Ma essa non è solo la condizione preliminare per la formazione del sintomo. Noi sappiamo che il sintomo è un sostituto di qualcosa che è stato impedito dalla rimozione. Ma dalla rimozione alla comprensione di questa formazione sostitutiva la strada è ancora lunga. Sotto un altro punto di vista, in relazione alla presenza della rimozione, sorge la domanda: che tipo di impulsi psichici soggiacciono alla rimozione? Quali forze la impongono? Per quali motivi? In proposito sappiamo solo una cosa. Abbiamo visto nello studio della resistenza che essa proviene da forze dell'Io, da particolarità conosciute e latenti del carattere. Sono queste dunque ad aver operato anche la rimozione, o quanto meno vi hanno preso parte. Tutto il resto ci è ancora sconosciuto.

Qui ci viene in aiuto il secondo dato tratto dall'esperienza, che vi avevo annunciato. Noi possiamo indicare in modo del tutto generale, grazie all'analisi, quale sia l'intenzione dei sintomi nevrotici. Anche questo non dovrebbe essere nulla di nuovo per voi. Ve l'ho già mostrato in due casi di nevrosi. Ma naturalmente che significano due casi? Avete il diritto di pretendere che ve ne siano mostrati duecento, innumerevoli. C'è solo un problema, non posso farlo. Qui devono subentrare l'esperienza personale o la fede, che in questo punto può fare appello alle unanimi affermazioni di tutti gli psicoanalisti.

Ricorderete che nei due casi di cui esaminammo accuratamente i sintomi, l'analisi ci introdusse agli aspetti più intimi della vita sessuale di quelle pazienti. Inoltre, nel primo caso avevamo riconosciuto in modo particolarmente evidente l'intenzione o la tendenza del sintomo esaminato; forse essa era un po'nascosta, nel secondo caso, da un fattore che menzioneremo in seguito. Ebbene, tutti gli altri casi che potremmo sottoporre all'analisi ci mostrerebbero le stesse cose che abbiamo visto in questi due esempi. Ogni volta l'analisi ci introdurrebbe alle esperienze e ai desideri sessuali del malato, e ogni volta dovremmo constatare che i suoi sintomi servono alla medesima intenzione. Tale intenzione si rivela essere il soddisfacimento di desideri sessuali; i sintomi servono al soddisfacimento sessuale dei malati, essi sono un sostituto di un tale soddisfacimento che manca nella loro vita.

Pensate all'azione ossessiva della nostra prima paziente. La donna sente la mancanza del marito intensamente amato, con il quale non può convivere a causa dei suoi difetti e delle sue debolezze. Ella deve rimanergli fedele, non può porre nessun altro al suo posto. Il suo sintomo ossessivo le dà ciò che desidera, innalza il marito, nega e corregge le sue debolezze, in particolare la sua impotenza. In fondo tale sintomo è un appagamento di desiderio, proprio come un sogno, e precisamente è ciò che il sogno non è sempre, l'appagamento di un desiderio erotico. Nel caso della nostra seconda paziente avete potuto quanto meno arguire che il suo cerimoniale vuole impedire i rapporti tra i genitori o evitare che da questi nasca un altro figlio. Avete anche intuito che il cerimoniale, in fondo, mira a mettere lei stessa al posto della madre. Ancora una volta dunque si tratta di eliminazione di disturbi nel soddisfacimento sessuale e appagamento di propri desideri sessuali. Della complicazione acuì abbiamo accennato parleremo presto.

Signori, vorrei evitare di dover ritrattare in seguito la generalità delle mie affermazioni; fate quindi attenzione al fatto che tutto ciò che qui dico a proposito della rimozione, della formazione del sintomo e del significato del sintomo è stato ricavato da tre forme di nevrosi - l'isteria d'angoscia, l'isteria di conversione e la nevrosi ossessiva - e vale in primo luogo solo per queste forme. Queste tre affezioni che siamo soliti riunire in un unico gruppo come "nevrosi di transfert" circoscrivono anche il campo di cui può occuparsi la terapia analitica. Le altre nevrosi sono state studiate molto meno dalla psicoanalisi; per un gruppo di esse la ragione di tale trascuratezza è stata l'impossibilità di un influsso terapeutico. Non dimenticate neppure che la psicoanalisi è una scienza ancora molto giovane, che la preparazione ad essa richiede molta fatica e un tempo lungo e che fino a non molto tempo fa tutto ricadeva sulle spalle di una sola persona. Siamo tutti però in procinto di approfondire sotto tutti gli aspetti la cognizione di queste altre affezioni che non sono nevrosi di transfert. Spero di potervi presentare in seguito quali ampliamenti subiscono le nostre concezioni e i nostri risultati nell'adattarsi a questo nuovo materiale e di mostrarvi che questi ulteriori studi non ci hanno portato a contraddizioni, ma al raggiungimento di una superiore coerenza dell'insieme. Se dunque tutto ciò che viene detto qui vale per le tre nevrosi di transfert, permettetemi di comunicarvi anzitutto un dato che accresce il valore dei sintomi. L'indagine comparativa delle cause della malattia dà infatti un risultato che si può esprimere nella formula: tali persone si ammalano in un modo o nell'altro per una frustrazione, quando cioè la realtà nega il soddisfacimento dei loro desideri sessuali. Vedete come questi due risultati concordino perfettamente tra loro. I sintomi quindi devono essere concepiti giustamente come un soddisfacimento sostitutivo di quanto è venuto a mancare nella vita.

Di certo si può fare ogni genere di obiezioni contro la tesi che i sintomi nevrotici siano sostituti di soddisfacimenti sessuali. Per oggi discuterò due di tali obiezioni. Quando voi stessi avrete sottoposto ad analisi un gran numero di nevrotici, mi riferirete forse, scuotendo il capo, che in una serie di casi ciò non è affatto vero; i sintomi sembrano contenere piuttosto l'intenzione contraria, quella di escludere o eliminare il soddisfacimento sessuale. Non contesterò l'esattezza della vostra interpretazione. In psicoanalisi le cose sono di solito un po' più complicate di quanto vorremmo. Se fossero così semplici, non ci sarebbe forse stato bisogno della psicoanalisi per portarle alla luce. In realtà già alcuni tratti del cerimoniale della nostra seconda paziente presentano questo carattere ascetico, ostile al soddisfacimento sessuale, ad esempio l'allontanare gli orologi, che ha il senso magico di evitare erezioni notturne, oppure quando vuole evitare la caduta e la rottura dei vasi, ciò che equivale a una protezione della sua verginità. In altri casi di cerimoniale dell'andare a dormire che ho potuto analizzare questo carattere negativo era molto più pronunciato; il cerimoniale poteva consistere unicamente in misure di difesa contro ricordi e tentazioni sessuali. Del resto abbiamo già appreso così spesso nella psicoanalisi che gli opposti non significano una contraddizione. Potremmo ampliare la nostra affermazione col dire che i sintomi tendono o a un soddisfacimento sessuale o a una difesa dallo stesso, e precisamente che nell'isteria predomina in genere il carattere positivo di appagamento del desiderio, nella nevrosi ossessiva il carattere negativo, ascetico. Se i sintomi possono servire al soddisfacimento sessuale come pure al suo opposto, tale bilateralità o polarità ha un'eccellente giustificazione in un aspetto del loro meccanismo che non abbiamo potuto ancora menzionare. Essi sono infatti, come vedremo, risultati di compromesso che derivano dall'interferenza di due spinte contrastanti, e rappresentano sia ciò che è stato rimosso sia il il rimovente che ha pure preso parte alla loro formazione. La sostituzione può allora riuscire più favorevole all'una o all'altra parte, ma raramente una delle due influenze è del tutto assente. Nell'isteria il più delle volte entrambe le intenzioni si incontrano nello stesso sintomo. Nella nevrosi ossessiva le due parti sono spesso separate; il sintomo diventa allora bifasico, si compone di due azioni, una dopo l'altra, che si annullano a vicenda.

Non sarà così semplice eliminare un secondo dubbio. Se date uno sguardo d'insieme a una lunga serie di interpretazioni di sintomi, dapprima giudicherete probabilmente che in esse il concetto di un soddisfacimento sostitutivo sessuale è stato ampliato sino ai suoi limiti estremi. Non mancherete di sottolineare che non offrono un soddisfacimento reale, che si limitano abbastanza spesso a vivificare una sensazione o la raffigurazione di una fantasia che proviene da un complesso sessuale. Inoltre, che il presunto soddisfacimento sessuale mostra così spesso un carattere infantile e indegno, qualcosa di simile a un atto masturbatorio, o che ricorda i vizi sporchi che si proibiscono ai bambini e da cui si disabituano. Ed esprimerete anche il vostro stupore per il fatto che si voglia far passare come soddisfacimento sessuale ciò che dovrebbe essere descritto come soddisfacimento di voglie crudeli od orribili, da definirsi persino snaturate. Signori, su quest'ultimo punto non potremo arrivare ad un accordo prima di aver sottoposto a un'indagine approfondita la vita sessuale umana e di aver stabilito cosa sia legittimo chiamare "sessuale".

Lezione 20. La vita sessuale umana

Signore e signori, si potrebbe credere che non ci siano dubbi su ciò che si deve intendere per "sessuale". In primo luogo il sessuale è l'indecente, ciò di cui non si deve parlare. Mi è stato raccontato che una volta gli allievi di un famoso psichiatra si presero la briga di convincere il loro maestro che i sintomi degli isterici rappresentavano molto spesso cose sessuali. Con tale intenzione lo condussero al letto di un'isterica, i cui attacchi mimavano senza dubbio il processo del parto. Ma egli replicò bruscamente: «Un parto non è qualcosa di sessuale». Certo è che un parto non deve necessariamente essere qualcosa di sconveniente.

Noto che ve la prendete con me perché scherzo su cose così serie. Ma non è proprio del tutto uno scherzo. In realtà, non è facile indicare in cosa consista il concetto di "sessuale". "Tutto ciò che riguarda la differenza tra i due sessi", sarebbe forse l'unica definizione indovinata; ma la trovereste neutra e troppo generica. Se al centro ponete il fatto dell'atto sessuale, affermerete forse che sessuale è tutto ciò che, con l'intenzione di trarne piacere, riguarda il corpo, in particolare le parti genitali dell'altro sesso, e che tende, come ultimo scopo, all'unione dei genitali e all'esecuzione dell'atto sessuale. Ma, in realtà, non siete quindi molto lontani dall'equiparare ciò che è sessuale a ciò che è sconveniente e il parto allora veramente non appartiene alla sfera sessuale. Se invece considerate la funzione riproduttiva come il nucleo della sessualità, correte il pericolo di escludere una intera serie di cose che non mirano alla riproduzione ma che sono sicuramente sessuali, come la masturbazione o lo stesso baciare. Tuttavia siamo già preparati al fatto che i tentativi di definizione conducono sempre a difficoltà; rinunciamo dunque a voler far meglio proprio in questo caso. Possiamo supporre che nell'evoluzione del concetto di "sessuale" sia avvenuto qualcosa che, secondo una bella espressione di H. Silberer, ha avuto come conseguenza un «errore di sovrapposizione». Nel complesso non siamo privi di orientamento su ciò che gli individui chiamano "sessuale".

Per tutte le esigenze pratiche della vita basterà intendere con ciò un insieme che consta di un certo riguardo all'opposizione tra i sessi, del conseguimento del piacere, della funzione riproduttiva, e del carattere di sconvenienza che deve rimanere segreta. Ma ciò non basta nella scienza. Infatti mediante indagini accurate, che è stato possibile effettuare solo grazie all'autodisciplina e allo spirito di sacrificio, siamo venuti a conoscenza di gruppi di individui la cui "vita sessuale" si allontana nettamente dal quadro medio comune. Alcuni di questi "perversi" hanno per così dire cancellato dal loro programma la differenza tra i sessi. I loro desideri sessuali sono eccitati solo dal sesso a loro uguale; l'altro sesso, e in particolare le parti genitali di questo, non è affatto per essi un oggetto sessuale, anzi in casi estremi è causa di ribrezzo. Naturalmente con ciò essi hanno rinunciato a prendere parte in qualsiasi modo alla riproduzione. Chiamiamo tali persone omosessuali o invertiti. Si tratta di uomini o donne, spesso - se pure non sempre - di educazione peraltro impeccabile, altamente evoluti sul piano intellettuale ed etico, affetti unicamente da questa fatale deviazione. Per bocca dei loro portavoce scientifici essi si spacciano per una particolare tipologia della specie umana, per un "terzo sesso", che deve essere equiparato agli altri due. Forse avremo occasione di esaminare criticamente le loro pretese. Naturalmente essi non sono come pure vorrebbero sostenere, una élite dell'umanità, ma contano tra loro almeno altrettanti individui inferiori e inutili come fra le persone di natura sessuale diversa.

Tali perversi però si comportano con il loro oggetto sessuale quanto meno in modo simile alle persone normali con il proprio. Esiste invece una lunga serie di individui anormali, la cui attività sessuale si allontana sempre più da ciò che a una persona sensata appare desiderabile. Nella loro varietà e stranezza essi sono paragonabili solo ai mostri grotteschi che Pieter Bruegel ha dipinto nella Tentazione di sant'Antonio, o agli dèi scomparsi o ai loro fedeli che Flaubert fa sfilare in lunga processione dinanzi al suo devoto penitente. In questo brulichio di individui dobbiamo portare una specie di ordine se non vogliamo confonderci le idee. Li dividiamo in coloro per i quali, come nel caso degli omosessuali, è cambiato l'oggetto sessuale, e in coloro per i quali è mutata in primo luogo la meta sessuale.

Al primo gruppo appartengono coloro che hanno rinunciato all'unione dei due genitali e che nell'atto sessuale sostituiscono il genitale di uno dei partner con un'altra parte o regione del corpo; superano così facendo i limiti della disposizione organica, come pure l'impedimento costituito dal ribrezzo (bocca, ano, al posto della vagina). Esistono poi altri che si attengono al genitale, non per le sue funzioni sessuali, ma per altre funzioni a cui esso partecipa per ragioni anatomiche e a causa della vicinanza. Osserviamo in questi ultimi che le funzioni escrementizie, che nell'educazione del bambino sono state allontanate come sconvenienti, hanno ancora il potere di attirare su di sé il pieno interesse sessuale. Vi sono poi altre persone che hanno rinunciato completamente al genitale come og-|   getto,e che al suo posto hanno innalzato un'altra parte del corpo, il seno '   femminile, il piede, la treccia. Seguono poi coloro per i quali anche una parte del corpo non significa nulla, e i cu; desideri vengono tutti appagati da un indumento, una scarpa, un capo di biancheria, cioè i feticisti. Ancora vi sono persone che pur desiderando l'oggetto intero avanzano su di I esso richieste molto precise, strane od orribili, persino quella che debba I essere un cadavere inerme, e che, per poterne godere, tale rendono con I Una violenza criminale. Ma basta ora con simili orrori!

L'altra schiera è guidata dai pervertiti i quali hanno posto come mete dei loro desideri sessuali, ciò che normalmente è solo un atto introduttivo e preparatorio. Sono quelli che amano contemplare e palpeggiare l'altra persona od osservarla nella sua intimità, o che denudano quelle parti del loro corpo che dovrebbero rimanere nascoste nell'oscura aspettativa di venire ricompensati con un'azione analoga. Seguono poi gli enigmatici sadici, la cui tenera aspirazione non conosce altro scopo che procurare al proprio oggetto sofferenze e tormenti, a partire da allusioni umilianti sino a gravi lesioni corporali; e quasi per compenso i loro opposti, i masochisti, il cui unico piacere è subire dall'oggetto amato tutte le umiliazioni e i tormenti possibili, sia in forma simbolica che reale. Altri ancora nei quali si trovano riunite e si intrecciano molte di tali condizioni anormali; e ci resta infine da apprendere che per ognuno di questi gruppi esistono due specie di persone: accanto a coloro che cercano il proprio soddisfacimento sessuale nella realtà, ce ne sono altre che si accontentano semplicemente di immaginare tale soddisfacimento, che non hanno per nulla bisogno di un oggetto reale, ma possono sostituirlo con le proprie fantasie.

Non c'è il minimo dubbio che queste follie, stranezze e orrori costituiscano effettivamente l'attività sessuale di tali individui. Non solo essi stessi le concepiscono in tal modo e ne avvertono il significato di sostituzione, ma dobbiamo anche dire che nella loro vita tale sostituzione svolge lo stesso ruolo che il normale soddisfacimento sessuale svolge nella nostra; che per la loro meta sessuale essi si sottopongono agli stessi, spesso eccessivamente grandi, sacrifici; ed è possibile seguire per grandi linee così come nei minimi dettagli dove queste anormalità si avvicinano alla normalità e in cosa se ne allontanano. E neppure può sfuggirvi che si rinviene qui il carattere di sconvenienza che è proprio dell'attività sessuale; il più delle volte però accresciuto sino alla turpitudine.

Ebbene, signore e signori, come ci poniamo nei riguardi di questi modi insoliti di soddisfacimenti sessuali? Esprimere il nostro sdegno, la nostra personale avversione e assicurare che non condividiamo questi desideri non serve chiaramente a nulla. Non è questo ciò che ci viene chiesto. In fondo si tratta di un campo di fenomeni come un altro. Anche una scappatoia che negasse tali casi, considerandoli solo rarità e curiosità, sarebbe facilmente confutabile. Si tratta invece di fenomeni molto frequenti e ampiamente diffusi. Ma se qualcuno ci dicesse che non c'è bisogno di farci confondere le idee sulla vita sessuale da questi fenomeni poiché nel complesso essi rappresentano traviamenti e deviazioni della pulsione sessuale, sarebbe opportuno dare una risposta seria. Se non comprendiamo queste configurazioni morbose della sessualità e non siamo capaci di metterle in relazione con la normale vita sessuale, non comprendiamo neppure la sessualità normale. In breve, resta un compito imprescindibile dare una giustificazione teoretica completa della possibilità delle summenzionate perversioni e del loro legame con la sessualità cosiddetta normale.

In questo ci aiuteranno un'idea e due nuove osservazioni empiriche.

Dobbiamo la prima a Iwan Bloch; egli corregge la concezione secondo cui tali perversioni sarebbero "segni di degenerazione", dimostrando che tali deviazioni dalla meta sessuale, tali allentamenti del rapporto con l'oggetto sessuale si sono verificati in tutti i tempi, anche nelle epoche più remote, presso tutti i popoli, dai più primitivi ai più civilizzati, e talvolta hanno ottenuto tolleranza e consenso generale. Le due esperienze sono state condotte nell'esame psicoanalitico dei nevrotici; esse influenzano necessariamente in modo decisivo la nostra concezione delle perversioni sessuali.

Abbiamo detto che i sintomi nevrotici sono soddisfacimenti sessuali sostitutivi e vi ho accennato che la conferma di tale affermazione, attraverso l'analisi dei sintomi, incontrerà diverse difficoltà. Infatti essa è giustificata solo se nel "soddisfacimento sessuale" includiamo anche quello dei cosiddetti bisogni sessuali perversi, poiché una tale interpretazione dei sintomi si impone con una frequenza sorprendente. La pretesa di eccezionalità degli omosessuali o invertiti crolla immediatamente quando apprendiamo che in ogni nevrotico si può provare la presenza di impulsi omosessuali e che un buon numero di sintomi esprime questa inversione latente. Infatti coloro che si autodefiniscono omosessuali sono soltanto gli invertiti consci e manifesti, il cui numero scompare a confronto con quello degli omosessuali latenti. Tuttavia, siamo costretti a considerare la scelta dell'oggetto nell'ambito del proprio sesso addirittura come una diramazione abituale della vita amorosa, e impariamo sempre più a riconoscerle un'importanza particolarmente grande. Di certo questo non elimina le differenze tra omosessualità manifesta e comportamento normale; resta confermata la loro importanza pratica, ma il loro valore teoretico viene estremamente diminuito. Di una determinata affezione, che non possiamo più annoverare tra le nevrosi di transfert, la paranoia, supponiamo persino che essa abbia origine di regola dal tentativo di difendersi da impulsi omosessuali fortissimi. Forse ricorderete ancora che una delle nostre pazienti nella sua azione ossessiva impersonava un uomo, il proprio marito abbandonato; è molto comune nelle donne nevrotiche una simile produzione di sintomi che personificano un uomo. Seppure ciò non sia da ascrivere all'omosessualità comunque molto legato ai suoi presupposti.

Come probabilmente sapete, la nevrosi isterica può produrre i suoi sintomi in tutti i sistemi organici e disturbare così tutte le funzioni. L'analisi mostra che in tal modo giungono a esprimersi tutti gli impulsi che chiamiamo perversi, quelli cioè che tendono a sostituire il genitale con altri organi. In tal caso tali organi si comportano come genitali sostitutivi. Proprio grazie alla sintomatologia dell'isteria noi siamo giunti alla concezione che agli organi corporei va riconosciuto oltre al loro ruolo funzionale anche un significato sessuale, o erogeno, e che essi vengono disturbati nell'adempimento del primo compito se il secondo esige troppo da loro. Innumerevoli sensazioni e innervazioni che riscontriamo come sintomi isterici in organi che apparentemente non hanno nulla a che fare con la sessualità ci rivelano così la loro natura quali appagamenti di impulsi sessuali perversi, per i quali altri organi hanno assunto il significato di parti sessuali. Inoltre, rileviamo in quale ampia misura gli organi dell'assunzione del cibo e dell'escrezione possano diventare portatori dell'eccitamento sessuale. È dunque la stessa cosa che ci hanno mostrato le perversioni, solo che in queste era visibile senza fatica e in modo inequivocabile, mentre nell'isteria dobbiamo passare prima per l'interpretazione del sintomo per giungere poi alla conclusione che gli impulsi sessuali perversi in questione non sono da attribuire alla coscienza degli individui, ma vanno collocati nel loro inconscio.

Tra i molti quadri sintomatici in cui compare la nevrosi ossessiva i più importanti si dimostrano originati dalla pressione di fortissimi impulsi sessuali sadici, perversi dunque nella loro meta. E precisamente, i sintomi servono, conformemente alla struttura della nevrosi ossessiva, in prevalenza alla difesa contro questi desideri oppure a esprimere un conflitto tra soddisfacimento e difesa. Ma anche il soddisfacimento non ci rimette; esso riesce a imporsi per vie traverse nel comportamento dei malati e si rivolge preferibilmente contro la propria persona facendone il tormentatore di se stesso. Altre forme di questa nevrosi, quelle elucubrative, corrispondono a un'eccessiva sessualizzazione di atti che normalmente si inseriscono come preliminari del normale soddisfacimento sessuale, come il desiderio di vedere, di toccare, di esplorare. La grande importanza della paura del contatto e dell'ossessione di lavare trova qui la sua spiegazione. Una parte inaspettatamente grande delle azioni ossessive risalgono - quali sue ripetizioni mascherate e modificazioni - alla masturbazione. Quest'ultima, com'è noto, accompagna le più svariate forme di fantasie sessuali, sebbene sia un'azione unica e uniforme.

Non mi sarebbe difficile descrivervi ancora più dall'interno le relazioni tra perversioni e nevrosi, ma credo che quanto finora è stato detto è sufficiente per i nostri scopi. Dobbiamo però stare attenti, dopo queste spiegazioni del significato dei sintomi, a non sopravvalutare la frequenza e l'intensità delle inclinazioni perverse degli uomini. Avete visto che ci si può ammalare di nevrosi per la frustrazione del normale soddisfacimento sessuale. Nel caso di una frustrazione reale il bisogno si riversa in vie anormali per l'eccitamento sessuale. Verrete a sapere in seguito come ciò avvenga. In ogni caso, capite che mediante un tale ristagno "collaterale" gli impulsi perversi devono apparire più intensi di quanto non sarebbero stati se al normale soddisfacimento sessuale non si fosse frapposto un reale ostacolo. Del resto un influsso simile è riconoscibile anche nelle perversioni manifeste. In alcuni casi esse sono provocate o attivate dal fatto che un normale soddisfacimento della pulsione sessuale incontra difficoltà eccessivamente grandi a causa di circostanze momentanee o di istituzioni sociali durevoli. In altri casi le inclinazioni alla perversione sono evidentemente del tutto indipendenti da tali elementi che le favoriscono; per tali persone esse sono, per così dire, il modo normale di vita sessuale.

Forse avrete l'impressione che abbiamo complicato piuttosto che chiarito il rapporto tra sessualità normale e perversa. Attenetevi però alla seguente considerazione, se è vero che l'effettiva difficoltà o la mancanza di un soddisfacimento sessuale normale portano alla luce inclinazioni perverse in persone che in precedenza non avevano manifestato tali inclinazioni, si deve supporre qualcosa in queste persone che favorisca le perversioni; o se preferite, che tali inclinazioni debbano essere state presenti in loro in forma latente. Su questa strada però giungiamo alla seconda novità che vi avevo annunciato. Infatti la ricerca psicoanalitica è stata costretta a occuparsi anche della vita sessuale del bambino, e ciò perché nell'analisi i ricordi e le associazioni riconducevano di regola ai primi anni dell'infanzia. Ciò che abbiamo desunto è stato quindi confermato punto per punto da osservazioni dirette sui bambini. E risultato così che tutte le inclinazioni alla perversione hanno radici nell'infanzia, che i bambini hanno tutte le predisposizioni ad essa, e le attuano in misura corrispondente alla loro immaturità; in breve, che la sessualità perversa non è altro che una sessualità infantile ingrandita e scomposta nei suoi singoli impulsi.

Ora senza dubbio vedrete le perversioni sotto un'altra luce e non disconoscerete più il loro legame con la vita sessuale umana; ma a prezzo di quali sorprese e di quali penose incongruenze per la vostra sensibilità! Di certo, dapprima sarete indotti a contestare tutto, il fatto che i bambini abbiano qualcosa che può essere definito come vita sessuale, l'esattezza delle nostre osservazioni e il diritto di trovare un'affinità nel comportamento dei bambini con ciò che in seguito viene condannato come perversione. Permettete dunque che vi spieghi anzitutto i motivi della vostra opposizione e che vi presenti poi la somma delle nostre osservazioni. Il fatto che i bambini non abbiano alcuna vita sessuale - eccitamenti e bisogni sessuali e una specie di soddisfacimento - ma la acquisiscano improvvisamente tra i dodici e i quattordici anni sarebbe - a prescindere da tutte le osservazioni - biologicamente inverosimile, anzi sarebbe assurdo come ritenere che essi non nascano con i genitali, ma questi si formino all'epoca della pubertà. In quell'epoca ciò che si risveglia è la funzione riproduttiva, la quale si serve per i suoi scopi di un materiale corporeo e psichico già presente. Voi commettete l'errore di confondere tra loro sessualità e riproduzione, e in tal modo vi siete preclusi la via alla comprensione della sessualità delle perversioni e delle nevrosi. È però un errore tendenzioso. Esso ha stranamente la sua origine nel fatto che voi stessi siete stati bambini e come tali soggetti all'influsso dell'educazione. Infatti la società deve proporsi come uno dei suoi compiti educativi più importanti quello di domare e di limitare la pulsione sessuale quando essa prorompe come impulso riproduttivo, di sottometterla a Una volontà individuale che è identica a ciò che la società impone. La società ha anche interesse a ritardare il pieno sviluppo della pulsione sessuale fino a quando il bambino abbia raggiunto un certo grado di maturità intellettuale, infatti con il pieno prorompere della pulsione sessuale trova praticamente fine anche l'educabilità. La pulsione altrimenti romperebbe tutti gli argini, distruggendo l'opera faticosamente costruita della civiltà. Del resto, il compito di dominarla non è facile, si sbaglia ora in eccesso, ora in difetto. In fondo, ciò che anima la società umana è un fattore economico; poiché non possiede mezzi di sussistenza sufficienti per mantenere i suoi membri senza che questi lavorino, deve limitarne il numero e far confluire le loro energie dall'attività sessuale nel lavoro. Si tratta dunque sempre degli eterni, originari bisogni vitali che continuano a sussistere nel tempo presente.

L'esperienza deve aver mostrato agli educatori che il compito di rendere docile la volontà sessuale della nuova generazione può essere risolto solo cominciando a influenzarla molto presto, senza aspettare la tempesta della pubertà, ma intervenendo già nella vita sessuale dei bambini che la prepara. Con questo intento si proibiscono al bambino quasi tutte le attività sessuali infantili e si fa in modo che ci perda gusto; ci si propone lo scopo ideale di rendere asessuale la vita del bambino, e col tempo si è giunti infine a ritenerla veramente asessuata, ciò che anche la scienza enuncia come sua teoria.

Per non essere in contraddizione con le proprie credenze e intenzioni, si evita di vedere l'attività sessuale del bambino, che non è opera da poco, oppure ci si accontenta, nella scienza, di concepirla diversamente. Il bambino viene considerato puro e innocente, e chi lo descrive diversamente può venire accusato di un empio sacrilegio nei confronti dei sentimenti più delicati e più sacri dell'umanità.

I bambini sono gli unici che non partecipano a queste convenzioni e che, nella loro ingenuità, fanno valere i loro diritti animali e dimostrano continuamente di dover ancora percorrere la via che conduce alla purezza. È piuttosto strano che coloro i quali negano l'esistenza della sessualità infantile non allentano i freni dell'educazione, anzi proibiscono nel modo più severo proprio le manifestazioni di ciò che negano, definendole "vizi infantili". Di grande interesse teorico è anche il fatto che l'epoca della vita che contraddice nel modo più netto il pregiudizio di un'infanzia asessuata - l'età infantile fino ai cinque o sei anni - è nascosta per la maggior parte delle persone sotto il velo di un'amnesia che può venire squarciata solo da un'indagine analitica, ma che era penetrabile già in precedenza a singole formazioni oniriche.

Ora vi esporrò ciò che si può comprendere più chiaramente della vita sessuale del bambino. Permettetemi di introdurre, per motivi di praticità, il concetto di libido. In modo del tutto analogo alla fame, la libido indica la forza con la quale si manifesta la pulsione; in questo caso la pulsione sessuale, nel caso della fame quella di nutrirsi. Altri concetti, come eccitamento e soddisfacimento sessuale, non richiedono alcuna spiegazione. Voi stessi comprenderete facilmente il fatto - o probabilmente ne farete motivo di obiezione - che nello studio delle attività sessuali del lattante la parte più importante spetta all'interpretazione. Tali interpretazioni derivano dalle indagini analitiche mediante un cammino a ritroso a partire dal sintomo. I primi impulsi della sessualità si manifestano nel lattante appoggiandosi ad altre funzioni vitali. Il suo interesse principale, come sapete, è rivolto all'assunzione del cibo; quando si addormenta dopo essersi saziato al seno, mostra l'espressione beata che si ripeterà in seguito dopo l'esperienza dell'orgasmo sessuale. Ciò sarebbe troppo poco per fondare su ciò una conclusione. Ma osserviamo che il lattante vuole ripetere l'azione dell'assunzione di cibo, senza richiedere nuovo nutrimento; non è dunque spinto dalla fame in questo caso. Diciamo che egli succhia o poppa, e il fatto che anche nel far questo si addormenti con espressione beata ci mostra che l'azione del ciucciare in sé e per sé gli abbia dato soddisfacimento. Com'è noto, prende presto l'abitudine di non addormentarsi se prima non ha succhiato. La natura sessuale di questa attività è stata affermata per la prima volta dal dottor Lindner, un vecchio pediatra di Budapest. Le persone che si prendono cura dei bambini e che di certo non intendono assumere alcuna posizione teorica, sembrano giudicare il ciucciare allo stesso modo. Esse non dubitano che serva solo a ottenere piacere, lo pongono tra le cattive abitudini del bambino e, se il bambino non vi rinuncia da solo, lo costringono a farlo procurandogli impressioni spiacevoli. Veniamo a sapere dunque che il lattante esegue azioni con l'unica intenzione di procurarsi piacere. Crediamo che egli provi questo piacere inizialmente nell'assunzione del cibo, ma che presto abbia imparato a separarlo da questa condizione. Possiamo riferire tale ottenimento del piacere solo all'eccitamento della zona della bocca e delle labbra, chiamiamo queste parti del corpo zone erogene e definiamo sessuale il piacere ottenuto dal ciucciare. Di certo dovremo ancora discutere sulla legittimità di tale definizione.

Se il lattante potesse esprimersi, senz'altro riconoscerebbe l'atto del ciucciare al seno materno come quello di gran lunga più importante per la sua vita. Dal suo punto di vista non ha torto, perché soddisfa con questo atto due grandi bisogni vitali in una volta sola. Dalla psicoanalisi apprendiamo poi, non senza stupore, quanta parte dell'importanza psichica dell'atto rimanga conservata per tutta la vita. Il ciucciare il seno della madre diventa il punto di partenza dell'intera vita sessuale, il modello irraggiungibile di ogni successivo soddisfacimento sessuale, al quale spesso la fantasia ritorna in momenti di bisogno. Ciò implica fare del seno materno il primo oggetto della pulsione sessuale. Non riesco a darvi un'idea di quanto sia importante questo primo oggetto per ogni successivo ritrovamento di oggetto, di quali effetti profondi produca nelle sue trasformazioni e sostituzioni fin nelle zone più remote della nostra vita psichica. Ma inizialmente, nell'attività del ciucciare, il lattante rinuncia a tale oggetto e lo sostituisce con una parte del proprio corpo. Il bambino si succhia il pollice, la sua stessa lingua. Nel procurarsi piacere in tal modo si rende indipendente dal consenso del mondo esterno, e inoltre per intensificarlo coinvolge l'eccitamento di una seconda zona del corpo. Le zone erogene non hanno tutte lo stesso valore; è perciò un'esperienza importante quando il bambino, come riferisce Lindner, nell'e-splorare il proprio corpo scopre i punti particolarmente eccitabili dei suoi genitali e trova così la strada che dal ciucciare porta all'onanismo.

Nel considerare l'atto del ciucciare siamo già venuti a conoscenza di due caratteri decisivi della sessualità infantile. Essa compare appoggiandosi al soddisfacimento di grandi bisogni organici e si comporta autoe-roticamente, cioè cerca e trova i suoi oggetti sul proprio corpo. Ciò che si è mostrato nel modo più evidente nell'assunzione del cibo si ripete in parte nelle escrezioni. Ne concludiamo che il lattante ha sensazioni di piacere nello svuotamento della vescica e del contenuto intestinale e che ben presto si sforza di regolare tali azioni in modo che gli possano arrecare il maggior piacere possibile mediante corrispondenti eccitamenti delle zone erogene delle mucose. A questo punto, come ha spiegato con acume Lou Andreas-Salomé, il mondo esterno si presenta per la prima volta al bambino come potenza inibitrice, ostile alla sua tendenza al piacere, e gli fa presagire future lotte interne ed esterne. Il bambino deve eliminare i suoi escrementi non nel momento che preferisce, ma quando altre persone lo stabiliscono. Per portarlo a rinunciare a questi fonti di piacere, gli viene spiegato che tutto ciò che riguarda queste funzioni è sconveniente, destinato a essere tenuto segreto. È a questo punto che deve per la prima volta barattare il piacere con la dignità sociale. All'inizio il suo rapporto con gli escrementi è del tutto diverso. Egli non prova alcun ribrezzo davanti alle sue feci, le considera come una parte del suo corpo, da cui non si separa facilmente, e le usa come primo "regalo" per premiare persone che stima particolarmente. Anche dopo che l'educazione è riuscita nell'intento di allontanarlo da tali inclinazioni, egli trasferisce la sua stima per le feci sul "regalo" e sul "denaro". Sembra invece che consideri con particolare orgoglio la sua abilità nell'orinare.

So che da tempo mi volete interrompere per gridare: «Basta con tali mostruosità! La defecazione sarebbe una fonte di soddisfacimento sessuale già sfruttata dal lattante! Le feci una sostanza preziosa, l'ano una specie di genitale! Non lo crediamo, ma capiamo perché pediatri e pedagoghi abbiano rifiutato la psicoanalisi e i suoi risultati». No, signori miei! Avete semplicemente dimenticato che io volevo presentarvi i dati di fatto della vita sessuale infantile in relazione ai dati di fatto delle perversioni sessuali. Perché non dovreste sapere che l'ano assume in effetti, per un gran numero di adulti - sia omosessuali che eterosessuali -, il ruolo della vagina nei rapporti sessuali? E che ci sono molti individui che mantengono per tutta la vita una sensazione voluttuosa durante la defecazione e non la descrivono affatto come insignificante? Per quanto riguarda l'interesse per l'atto della defecazione e il piacere di guardare la defecazione di un altro, potete sentirvelo confermare dagli stessi bambini, quando sono diventati un po' più grandi e sono in grado di rac-contarvelo. Naturalmente non dovete aver prima sistematicamente intimidito questi bambini, altrimenti capiscono che non ne devono parlare. E per tutte le altre cose a cui non volete credere, vi rimando ai risultati dell'analisi e dell'osservazione diretta sui bambini, e vi dico che occorre addirittura un'arte per non vedere tutto ciò o vederlo diversamente. Non sono neppure contrario al fatto che siate colpiti dall'affinità tra l'attività sessuale infantile e le perversioni sessuali. In effetti è ovvio: se il bambino ha in genere una vita sessuale, deve essere di tipo perverso, perché al bambino ancora manca - tranne pochi oscuri accenni - ciò che fa della sessualità la funzione riproduttiva. D'altra parte, la caratteristica comune di tutte le perversioni è che hanno rinunciato al fine riproduttivo. Definiamo "perversa" un'attività sessuale proprio quando ha rinunciato al fine riproduttivo e tende al conseguimento del piacere come meta indipendente. Comprendete dunque che il punto di rottura e di svolta nello sviluppo della vita sessuale è quello in cui questa si subordina agli intenti della riproduzione. Tutto quanto precede questa svolta, come pure tutto quanto si è sottratto ad essa, ciò che serve solo al conseguimento del piacere, viene indicato con il termine poco onorifico di "perverso" e in quanto tale viene bandito.

Permettetemi di proseguire nella mia breve descrizione della sessualità infantile. Potrei completare ciò che ho riferito in merito a due sistemi organici prendendo in considerazione gli altri. La vita sessuale del bambino consiste nell'attività di una serie di pulsioni parziali che, indipendentemente l'una dall'altra, cercano di ottenere piacere in parte sul proprio corpo, in parte già su oggetti esterni. Tra questi organi spiccano molto presto i genitali; ci sono persone per le quali il conseguimento del piacere sul proprio genitale, senza l'aiuto di un altro genitale o di un oggetto, continua senza interruzione dall'onanismo del lattante sino al necessario onanismo degli anni della pubertà, proseguendo poi per un tempo indeterminato. Il tema dell'onanismo non è esauribile, del resto, così in fretta; è una materia che deve essere trattata da molteplici punti di vista.

Sebbene tenda ad abbreviare ancora di più il tema, devo dirvi ancora qualcosa sull'esplorazione sessuale dei bambini. Essa è troppo caratteristica per la sessualità dei bambini e troppo importante per la sintomatologia delle nevrosi. L'esplorazione sessuale infantile inizia molto presto, a volte prima del terzo anno di vita. Essa non è legata alla differenza tra i sessi, che non dice nulla al bambino, poiché questi - almeno il maschio - attribuisce lo stesso genitale a entrambi i sessi. Se il bambino fa la scoperta della vagina su una sorellina o una compagna di giochi, cerca inizialmente di negare ciò che i suoi sensi gli hanno testimoniato, perché non si può immaginare un essere umano simile a lui senza quella parte così preziosa per lui. In seguito, si spaventa della possibilità che gli si presenta, ed eventuali minacce fattegli in precedenza perché si occupava troppo del suo piccolo membro ottengono un effetto postumo. Egli cade sotto il dominio del complesso di castrazione, la cui configurazione ha una gran parte nella formazione del suo carattere, se rimane sano, nella sua nevrosi, se si ammala, e nelle sue resistenze se si sottopone a un trattamento analitico. Sappiamo della bambina che si ritiene molto svantaggiata per la mancanza di un pene grande, visibile, ne invidia al bambino il possesso, e sviluppa perciò il desiderio di essere un uomo, desiderio che, in seguito, verrà ripreso nella nevrosi che comparirà se ella avrà fallito nel suo ruolo di donna. Del resto, nell'età infantile la clitoride della bambina svolge esattamente il ruolo del pene, è portatrice di una particolare eccitabilità, il punto in cui viene ottenuto il soddisfacimento autoerotico. È molto importante, perché la bambina diventi donna, che la clitoride ceda tempestivamente e completamente questa sensibilità all'orifizio vaginale. Nei casi di cosiddetta anestesia sessuale delle donne, la clitoride ha conservato ostinatamente tale sensibilità.

L'interesse sessuale del bambino si rivolge dapprima piuttosto al problema di dove vengano i bambini, lo stesso che sta alla base della domanda posta dalla Sfinge tebana, e che viene risvegliato, il più delle volte, da un timore egoistico suscitato dalla comparsa di un nuovo bambi no. La risposta d'uso, tenuta pronta, che è la cicogna a portare i bambini, incontra, molto più spesso di quanto pensiamo, incredulità già in bambini piccoli. La sensazione di essere ingannati dagli adulti sulla verità contribuisce molto all'isolamento del bambino e allo sviluppo della sua indipendenza. Ma il bambino non è in grado di risolvere questo problema con i suoi mezzi. La sua costituzione sessuale non sviluppata pone limiti ben determinati alla sua capacità di conoscenza. Dapprima suppone che i bambini nascano perché si assume qualcosa di speciale nell'alimentazione, e non sa neppure nulla del fatto che solo le donne possono avere bambini. In seguito, scopre questa limitazione e abbandona l'idea di far derivare i bambini dal cibo, sebbene tale idea rimanga riservata alle favole. Il bambino divenuto più grande si accorge presto che il padre deve partecipare in qualche modo alla venuta dei bambini, ma non è in grado di indovinare quale. Se per caso è testimone di un atto sessuale, vi vede un tentativo di sopraffazione, una zuffa, il fraintendimento sadico del coito. Ma all'inizio non collega questo atto alla venuta del bambino. Anche se scopre tracce di sangue nel letto e nella biancheria della madre, le considera come prova di una ferita procuratale dal padre. Negli anni infantili ancora seguenti sospetta che il membro genitale dell'uomo abbia una parte essenziale nella nascita del bambino, ma non è capace di attribuire a questa parte del corpo altra funzione che quella della minzione.

Da principio i bambini sono concordi nel credere che la nascita debba avvenire attraverso l'intestino, il bambino dunque viene alla luce come una massa fecale. Solo dopo che tutti gli interessi anali hanno perso il loro valore, questa teoria viene abbandonata e sostituita con l'ipotesi che l'ombelico si apra, o che il punto in cui avviene la nascita sia la regione del seno tra le due mammelle. In tal modo il bambino, esplorando, si avvicina alla conoscenza dei fatti sessuali, o confuso dalla sua ignoranza vi passa accanto, sino a quando, il più delle volte negli anni che precedono la pubertà, riceve una spiegazione di solito incompleta e svalutativa, che non di rado produce effetti traumatici.

Di certo avrete sentito dire, signori, che il concetto di "sessuale" nella psicoanalisi subisce un ampliamento indecoroso al fine di avvalorare le tesi del determinismo sessuale delle nevrosi e del significato sessuale dei sintomi. Ora potete giudicare voi stessi se tale ampliamento sia illegittimo. Abbiamo esteso il concetto di sessualità solo fino al punto da potervi comprendere anche la vita sessuale dei perversi e dei bambini. Ciò significa che gli abbiamo ridato le sue giuste proporzioni. Ciò che al di fuori della psicoanalisi viene chiamato "sessualità", si riferisce soltanto a una vita sessuale limitata, al servizio della riproduzione e definita normale.

Lezione 21. Sviluppo della libido e organizzazioni della sessualità

Signori, ho l'impressione di non essere riuscito a rendervi comprensibile in modo davvero convincente l'importanza delle perversioni per la nostra concezione della sessualità. Vorrei perciò migliorare e aggiungere quanto mi è possibile.

Non solo le perversioni ci hanno reso necessaria quella modifica del concetto di sessualità che ci è valsa un'opposizione così violenta. Lo studio della sessualità infantile ha fatto ben più al riguardo, e la concordanza tra i due tipi di fenomeni è stata decisiva. Ma le manifestazioni della sessualità infantile, per quanto possano essere evidenti negli anni successivi dell'infanzia, agli inizi sembrano dileguarsi nell'indeterminabile. Chi non vuole tener conto della storia evolutiva e del contesto analitico contesterà il carattere sessuale di tali fenomeni, riconoscendo loro un carattere indifferenziato qualsiasi. Non dimenticate che al momento non siamo in possesso di un segno distintivo universalmente riconosciuto per definire la natura sessuale di un processo, a meno che non si consideri come tale l'appartenenza alla funzione riproduttiva, cosa che dobbiamo respingere perché troppo limitata. I criteri biologici, come le periodicità di 23 e 28 giorni stabilite da W. Fliess, sono ancora assolutamente controversi; le particolarità chimiche dei processi sessuali, di cui possiamo supporre l'esistenza, attendono ancora di essere scoperte. Le perversioni sessuali degli adulti, al contrario, sono qualcosa di tangibile e di evidente. Come dimostra già la loro denominazione, universalmente accettata, esse appartengono senza dubbio alla sessualità. Che vengano chiamate segni di degenerazione o altro, nessuno ha avuto ancora il coraggio di annoverarle tra fenomeni che non siano quelli della vita sessuale. Anche solo in virtù di esse siamo autorizzati ad affermare che sessualità e riproduzione non coincidono; è evidente infatti che tutte le perversioni negano la finalità riproduttiva.

Vedo qui un parallelo non privo di interesse. Mentre per la maggioranza "cosciente" e "psichico" sono la stessa cosa, noi fummo costretti ad ampliare il concetto di "psichico", e a riconoscere uno psichico che non è cosciente. Del tutto simile è il caso in cui gli altri considerano identici i concetti di "sessuale" e "appartenente alla riproduzione" - o "genitale", se volete esprimervi in modo più conciso -, mentre noi non Possiamo fare a meno di ammettere un concetto di "sessuale" che non sia genitale, che non abbia nulla a che fare con la riproduzione. È solo una somiglianza formale, ma non senza una più profonda motivazione.

Ma se l'esistenza delle perversioni sessuali è un argomento tanto definitivo in proposito, perché non ha già da tempo prodotto il suo effetto risolvendo questa questione? Non saprei proprio dirvelo. Credo che dipenda dal fatto che queste perversioni sessuali siano state bandite in modo del tutto particolare, un ostracismo che si estende alla teoria e chiude la strada anche a un loro apprezzamento scientifico. Come se nessuno potesse dimenticare che non sono soltanto qualcosa di orribile, ma anche qualcosa di mostruoso, di pericoloso; come se le si ritenesse seducenti e si dovesse in fondo reprimere un'invidia segreta nei confronti di coloro che ne godono, simile a quella confessata dal langravio punitore nella famosa parodia del Tannhäuser1:

Sul monte di Venere dovere e onore dimentico!

- Strano, che a noi tal cosa mai toccò.

In realtà i perversi sono piuttosto dei poveri diavoli che pagano in modo straordinariamente caro i loro soddisfacimenti difficili da ottenere.

Ciò che rende l'attività perversa così inconfondibilmente sessuale, nonostante tutte le stranezze degli oggetti e delle mete, è la circostanza che l'atto del soddisfacimento perverso si conclude anch'esso il più delle volte nel pieno orgasmo e nella secrezione dei prodotti genitali. Ciò naturalmente è solo conseguenza della maturità delle persone; nel bambino l'orgasmo e la secrezione genitale non sono possibili e vengono sostituiti da accenni, i quali, ancora una volta, non vengono riconosciuti come indubbiamente sessuali.

Devo aggiungere ancora qualcosa per completare l'esame delle perversioni sessuali. Per quanto possano essere bollati d'infamia, per quanto si possano contrapporre alla normale attività sessuale, una semplice osservazione ci mostra che alla vita sessuale delle persone normali solo raramente manca l'uno o l'altro tratto perverso. Già il bacio ha il diritto di essere definito un atto perverso, perché consiste nel congiungimento di due zone erogene orali al posto di due genitali. Ma nessuno lo condanna come tale; al contrario lo si ammette quale allusione attenuata nelle rappresentazioni teatrali. Ma proprio il baciare può trasformarsi facilmente in una completa perversione, e ciò quando diventa talmente intenso dà seguirne direttamente la scarica genitale e l'orgasmo, cosa che non avviene poi così raramente. Si scopre, del resto, che per alcuni palpare e guardare l'oggetto sono condizioni indispensabili del godimento sessuale, che altri al culmine dell'eccitamento sessuale pizzicano o mordono, che non sempre per gli amanti il massimo dell'eccitamento sessuale è provocato dal genitale, ma da un'altra regione del corpo dell'altro, e altre cose simili in molte varianti. Non ha alcun senso escludere dall'insieme delle persone normali e annoverare tra i perversi individui che presentano singoli tratti di questo genere; piuttosto si riconosce sempre più chiaramente che l'aspetto essenziale delle perversioni non consiste nella trasgressione della meta sessuale, né nella sostituzione dei genitali e neppure nella variazione dell'oggetto, ma soltanto nell'esclusività con cui si compiono queste deviazioni e con cui viene messo da parte l'atto sessuale che serve alla riproduzione. Quando le azioni perverse si inseriscono come elementi che preparano o intensificano il compimento dell'atto sessuale normale, esse non sono più, in realtà, perversioni. Naturalmente fatti di questo genere restringono notevolmente la spaccatura tra sessualità normale e sessualità perversa. Ne risulta che la sessualità normale deriva da qualcosa che esisteva già prima, e si è prodotta eliminando alcuni tratti di questo materiale considerati inservibili e riunendo i rimanenti per subordinarli a un nuovo fine, quello riproduttivo.

Prima di usare la nostra familiarità con le perversioni per approfondire nuovamente con premesse più chiare lo studio della sessualità infantile, devo richiamare la vostra attenzione su una differenza importante tra le due. La sessualità perversa è di regola esattamente concentrata, tutte le azioni tendono a una meta, che il più delle volte è anche l'unica. In essa una pulsione parziale ha la prevalenza, o in quanto è l'unica pulsione accertabile oppure perché ha assoggettato le altre pulsioni ai suoi intenti. Sotto questo aspetto tra la sessualità perversa e quella normale non vi è altra differenza se non con riguardo alle pulsioni parziali dominanti, e quindi alle mete sessuali. In entrambi i casi vi è, per così dire, una tirannia ben organizzata, solo che qui si è impadronita del potere una famiglia, là un'altra. La sessualità infantile invece è priva, in linea generale, di un tale accentramento e organizzazione, le sue singole pulsioni parziali hanno uguali diritti, ognuna perseguendo per proprio conto il raggiungimento del piacere. Tanto la mancanza quanto la presenza dell'accentramento concordano naturalmente bene con il fatto che entrambe, la sessualità perversa e quella normale, derivano dalla sessualità infantile. Del resto, vi sono anche casi di sessualità perversa che hanno molta più somiglianza con la sessualità infantile, in quanto numerose pulsioni parziali si sono imposte - o meglio hanno continuato - indipendentemente l'una dall'altra nel perseguire le loro mete. In questi casi è meglio parlare di infantilismo della vita sessuale piuttosto che di perversione.

Così preparati possiamo iniziare la discussione di una osservazione che di certo non ci sarà risparmiata. Qualcuno mi dirà: «Perché si ostina a chiamare sessualità già le manifestazioni dell'infanzia - che Lei stesso definisce indeterminate - e dalle quali si svilupperà poi la sessualità? Perché non vuole accontentarsi della descrizione fisiologica e dire semplicemente che nel lattante si osservano già attività, come il ciucciare o il trattenere gli escrementi, le quali ci mostrano che egli tende al piacere d'organo?  Lei eviterebbe in tal modo di supporre una vita sessuale dei bambini più piccoli, ipotesi che offende la sensibilità di chiunque». Sì, signori miei, non ho nulla da dire contro il piacere d'organo; so che anche il massimo piacere dell'unione sessuale è solo un piacere d'organo legato all'attività dei genitali. Ma sapete dirmi quando questo piacere d'organo originariamente indifferente acquisisce il carattere sessuale, carattere che possiede indubbiamente nelle fasi successive dello sviluppo? Sappiamo qualcosa in più del piacere d'organo che della sessualità? Risponderete che il carattere sessuale sopraggiunge appunto quando i genitali cominciano a svolgere il loro ruolo: sessuale coincide allora con genitale. Respingerete anche l'obiezione che ri guarda le perversioni, facendomi presente che nella maggior parte delle perversioni ciò che conta è il raggiungimento dell'orgasmo genitale, seppure seguendo una strada diversa da quella dell'unione dei genitali. In effetti, migliorate di gran lunga la vostra posizione se cancellate dalla caratterizzazione di ciò che è sessuale la relazione con la riproduzione, resa insostenibile dalle perversioni, e anteponete al suo posto l'attività genitale. A questo punto però le nostre posizioni non sono più tanto lontane: ci sono semplicemente gli organi genitali contro gli altri organi. Cosa fate però di fronte alle molteplici esperienze che vi dimostrano come i genitali possano essere sostituiti da altri organi per il raggiungimento del piacere, come nel caso del normale bacio, nelle pratiche perverse dei viveurs, o nella sintomatologia dell'isteria? In quest'ultima nevrosi è assolutamente frequente che i segni della stimolazione, le sensazioni e le innervazioni, gli stessi processi di erezione, che sono propri dei genitali, vengano spostati su altre, lontane regioni del corpo (ad esempio, mediante lo spostamento verso l'alto, sulla testa o sul viso). In tal modo vi convincerete che non avete nulla su cui fondare la vostra caratterizzazione di ciò che è sessuale, e dovrete decidervi a seguire il mio esempio ed estendere la definizione di "sessuale" anche alle attività della prima infanzia che tendono al piacere d'organo.

Ed ora permettetemi, a mia giustificazione, di aggiungere due ulteriori considerazioni. Come sapete, noi chiamiamo "sessuali" le attività ambigue e indefinibili della prima infanzia rivolte al raggiungimento del piacere, perché nel corso dell'analisi, a partire dai sintomi e procedendo attraverso materiale innegabilmente sessuale, giungiamo ad esse. Ammetto che ciò non implica necessariamente che queste stesse attività debbano essere sessuali. Prendete però un caso analogo. Immaginate che non avessimo alcun mezzo per osservare lo sviluppo, a partire dai loro semi, di due piante dicotiledoni, il melo e il fagiolo, ma che, in entrambi i casi, ci fosse possibile seguirlo a ritroso dalla pianta completamente sviluppata fino al primo embrione vegetale con due cotiledoni. Questi ultimi non si distinguono l'uno dall'altro, sembrano assolutamente uguali in entrambi i casi. Supporrò quindi che essi siano realmente uguali e che la differenza specifica tra il melo e il fagiolo subentri solo in seguito nelle due piante? Ò è biologicamente più corretto credere che questa differenza sia presente già nell'embrione, sebbene io non possa riscontrare una diversità nei cotiledoni? Facciamo la stessa cosa quando chiamiamo "sessuale" il piacere delle attività del lattante. Non posso discutere qui se tutti i piaceri d'organo indistintamente possano essere chiamati "sessuali" o se accanto al piacere sessuale ve ne sia un altro che non merita questo nome. So troppo poco del piacere d'organo e delle condizioni che lo determinano, ma non posso certo meravigliarmi, dato il carattere regressivo dell'analisi, se alla fine mi trovo davanti a fattori per il momento indeterminabili.

Dal sesto all'ottavo anno, ali'incirca, è possibile osservare un arresto e una recessione nello sviluppo sessuale, che nei casi più favorevoli dal punto di vista culturale merita il nome di "periodo di latenza". Tale periodo può anche mancare, e in ogni caso non comporta necessariamente un'interruzione dell'attività sessuale e degli interessi sessuali in generale. La maggior parte delle esperienze e degli impulsi psichici che precedono l'inizio del periodo di latenza sono soggetti poi all'amnesia infantile, ossia alla già discussa dimenticanza che avvolge la nostra prima età rendendocela estranea. In ogni psicoanalisi si presenta il compito di richiamare alla memoria questo periodo dimenticato della vita, e non si può fare a meno di supporre che gli inizi della vita sessuale, qui presenti, siano il motivo che ha determinato tale dimenticanza, che questa sia dunque un risultato della rimozione.

La vita sessuale del bambino, a partire dal terzo anno, presenta molte concordanze con quella dell'adulto. Si distingue da questa, come già sappiamo, per la mancanza di un'organizzazione stabile sotto il primato dei genitali, per gli inevitabili tratti di perversione e naturalmente anche per l'intensità molto inferiore della spinta sessuale nel suo complesso. Ma le fasi più interessanti dal punto di vista teorico dello sviluppo sessuale o, come intendiamo noi, libidico, si trovano alle spalle di quest'epoca. Tale sviluppo avviene con tale rapidità che probabilmente l'osservazione diretta non sarebbe mai riuscita a fissarne le fuggevoli immagini. Solo grazie all'indagine psicoanalitica delle nevrosi è divenuto possibile indovinare fasi ancora anteriori dello sviluppo della libido. Queste non sono certo nient'altro che costruzioni, ma se eserciterete la psicoanalisi, troverete che si tratta di costruzioni necessarie e utili. Comprenderete presto come sia possibile che qui la patologia possa rivelarci condizioni che nel soggetto normale ci sfuggono necessariamente.

Ora dunque possiamo descrivere come si forma la vita sessuale del bambino prima che si stabilisca il primato dei genitali, la cui preparazione ha luogo nella prima epoca infantile che precede il periodo di latenza e la cui organizzazione avviene a partire dalla pubertà in poi. In questo periodo precedente esiste un'organizzazione di tipo meno stabile, che vogliamo chiamare pregenitale. In questa fase, però, non si trovano in primo piano le pulsioni genitali parziali, ma quelle sadiche e anali. L'opposizione tra maschile e femminile non svolge qui ancora alcuna funzione; il suo posto è preso dal contrasto tra attivo e passivo, il quale può essere definito come il precursore della polarità sessuale, con cui in seguito si salda. Ciò che ci appare come maschile nelle attività di questa fase, quando le consideriamo dal punto di vista della fase genitale, si dimostra l'espressione di una pulsione di appropriazione che arriva facilmente alla crudeltà. Tendenze con meta passiva si legano alla zona erogena dell'orifizio anale che in questo periodo è molto importante. Le pulsioni di guardare e conoscere si destano fortemente; il genitale invece prende parte alla vita sessuale soltanto nella veste di organo di escrezione dell'urina. Alle pulsioni parziali di questa fase non mancano gli oggetti, ma questi non si uniscono necessariamente per formare un unico oggetto. L'organizzazione sadico-anale è lo stadio preliminare p|ù vicino alla fase del primato genitale. Uno studio più approfondito dimostra quanta parte di essa sia conservata nella seguente e definitiva configurazione e in quale modo le sue pulsioni parziali vengano costrette ad inserirsi nella nuova organizzazione genitale. Dietro la fase sadico-anale dello sviluppo della libido abbiamo la possibilità di osservare anche uno stadio di organizzazione anteriore, ancora più primitiva, in cui la parte principale spetta alla zona erogena orale. Come potete intuire, ad essa appartiene l'attività sessuale del ciucciare, e ammirerete l'intelligenza degli antichi egizi, nella cui arte il bambino, anche il divino Hor, è raffigurato con il dito in bocca. Solo recentemente Abraham ci ha fatto conoscere quali tracce questa primitiva fase orale lasci nella vita sessuale degli anni successivi.

Signori miei, posso supporre che le ultime comunicazioni sulle organizzazioni sessuali siano state per voi più gravose che istruttive. Ancora una volta, forse, mi sono troppo addentrato nei particolari. Ma abbiate pazienza, ciò che avete udito ora acquisterà maggior valore con la successiva applicazione. Attenetevi per il momento all'idea che la vita sessuale - o come noi diciamo, la funzione libidica - non si presenta come qualcosa di compiuto, né cresce continuando a somigliare a se stessa, ma attraversa una serie di fasi successive che non si assomigliano tra loro, si tratta dunque di un ciclo evolutivo che si ripete più volte come quello dal bruco alla farfalla. Il punto di svolta dello sviluppo è la subordinazione di tutte le pulsioni parziali sessuali al primato dei genitali, e dunque l'assoggettamento della sessualità alla funzione riproduttiva. Dapprima c'è una vita sessuale per così dire confusa, un'attività indipendente delle singole pulsioni parziali tendenti al piacere d'organo. Tale anarchia viene mitigata da forme rudimentali di organizzazione "pregenitale": anzitutto la fase sadico-anale, quindi dopo di essa quella orale, forse la più primitiva. A ciò si aggiungono i diversi processi conosciuti in modo ancora impreciso che conducono da un grado di organizzazione a quello successivo e immediatamente superiore. Scopriremo in una delle successive lezioni quale importanza per la comprensione delle nevrosi abbia il fatto che la libido percorra un cammino di sviluppo così lungo e pieno di interruzioni.

Oggi seguiremo un ulteriore aspetto di questo sviluppo, vale a dire la relazione delle pulsioni sessuali parziali con l'oggetto, o piuttosto rivolgeremo una rapida occhiata generale a questo sviluppo per soffermarci più lungamente su un suo risultato successivo. Alcune delle componenti della pulsione sessuale hanno fin dall'inizio un oggetto e lo conservano - così la pulsione di appropriazione (sadismo), la pulsione di guardare e quella di conoscere. Altre, più chiaramente legate a determinate zone erogene del corpo, possiedono un oggetto solo all'inizio finché continuano ad appoggiarsi alle funzioni non sessuali e vi rinunciano quando si staccano da queste. Così il primo oggetto della componente orale della pulsione sessuale è il seno materno, il quale soddisfa il bisogno di nutrimento del lattante. Nell'atto del ciucciare si rende indipendente la componente erotica soddisfatta dal poppare, si rinuncia all'oggetto estraneo e lo si sostituisce con una parte del proprio corpo. La pulsione orale diviene autoerotica, così come lo sono sin dall'inizio le pulsioni anali e le altre pulsioni erogene. Il successivo sviluppo ha, per esprimerci nel modo più sintetico, due mete: anzitutto l'abbandono dell'au-toerotismo, ovvero lo scambio dell'oggetto appartenente al proprio corpo con un oggetto esterno; in secondo luogo, unificare i diversi oggetti delle singole pulsioni sostituendoli con un unico oggetto. Naturalmente ciò può riuscire solo se questo oggetto è a sua volta un corpo intero simile al proprio. Tale sviluppo non può compiersi senza che un certo numero di spinte pulsionali autoerotiche vengano tralasciate in quanto inutilizzabili.

I processi di rinvenimento dell'oggetto sono piuttosto complicati e fino ad ora non hanno trovato alcuna esposizione esaustiva. Ai nostri fini, è utile evidenziare che quando il processo ha raggiunto conclusione negli anni infantili precedenti il periodo di latenza, l'oggetto trovato si dimostra pressoché identico al primo, ovvero all'oggetto della pulsione di quel piacere orale che era stato raggiunto per appoggio [alla pulsione della nutrizione]. Questo oggetto, anche se non è il seno materno, è tuttavia la madre. Noi definiamo la madre il primo oggetto d'amore. Parliamo in effetti d'amore quando portiamo in primo piano il lato psichico delle spinte sessuali e quando vogliamo respingere o dimenticare per un momento le esigenze pulsionali fisiche o "sensuali" che ne sono alla base. Nel periodo in cui la madre diviene oggetto d'amore, è anche già cominciato nel bambino il lavoro psichico della rimozione, la quale sottrae alla sua consapevolezza la cognizione di una parte delle sue mete sessuali. Aquesta scelta della madre come oggetto d'amore si riallaccia tutto ciò che, sotto il nome di "complesso edipico", ha assunto così grande importanza nella spiegazione psicoanalitica delle nevrosi e ha contribuito in misura forse non insignificante a suscitare resistenza contro la psicoanalisi.

Ascoltate un piccolo episodio verificatosi nel corso di questa guerra. Al fronte tedesco, in qualche parte della Polonia, si trova, in qualità di medico, un valente discepolo della psicoanalisi e attira l'attenzione dei colleghi perché esercita a volte un'inaspettata influenza su un paziente. Interrogato, il medico confessa di lavorare seguendo il metodo psicoanalitico, e si dichiara pronto a condividere con i colleghi le sue conoscenze. Così, ogni sera, i medici del corpo d'armata, colleghi e superiori, si riuniscono per apprendere le segrete dottrine dell'analisi. La cosa procede bene per qualche tempo, ma dopo che il medico ha parlato agli ascoltatori del complesso d'Edipo, un superiore si alza in piedi, affermando che lui non ci crede, che è una volgarità da parte del relatore raccontare simili cose a loro, uomini dabbene, che combattono per la patria e padri di famiglia, e vieta il proseguimento delle conferenze. Così la cosa si è conclusa. L'analista si è fatto trasferire in un'altra parte del fronte. Tuttavia, ritengo che sarebbe grave se per la vittoria tedesca fosse necessaria una simile "organizzazione" della scienza; la scienza tedesca non la sopporterà.

Sarete ora impazienti di conoscere quale sia il contenuto di questo terribile complesso edipico. Ve lo dice il nome stesso. Tutti voi conoscete il mito greco del re Edipo. Egli è destinato dal fato ad uccidere suo padre e a sposare sua madre; si sforza in ogni modo di sfuggire alla sentenza dell'oracolo, e infine si punisce accecandosi quando apprende che, nonostante tutto, ha commesso inconsapevolmente entrambi i delitti. Spero che molti di voi abbiano provato in prima persona l'effetto dirompente della tragedia nella quale Sofocle tratta questo argomento. L'opera del poeta attico mostra come il delitto di Edipo, commesso molto tempo prima, venga gradualmente portato alla luce attraverso un'indagine rallentata ad arte e ravvivata da sempre nuovi indizi; da questo punto di vista essa rivela una certa affinità con il procedere di una psicoanalisi. Nel corso del dialogo Giocasta, l'ingannata madre-sposa, si oppone al proseguimento dell'indagine. Ella si appella al fatto che a molti è accaduto in sogno di giacere con la propria madre, ma che ai sogni non bisogna dare troppo peso. Noi non diamo poco peso ai sogni, tanto meno ai sogni tipici, quelli comuni a molte persone, e non abbiamo dubbi che il sogno di cui parla Giocasta sia intimamente connesso con il contenuto straniarne e terrificante della leggenda.

C'è da stupirsi che la tragedia di Sofocle non susciti il rifiuto sdegnato dell'ascoltatore, una reazione simile a quella del nostro grossolano medico militare, ma di gran lunga più giustificata. Si tratta in effetti di un'opera fondamentalmente immorale, che annulla la responsabilità dell'uomo, che mostra le forze divine come istigatrici del delitto e l'impotenza degli impulsi morali dell'uomo, che si oppongono al delitto. Si potrebbe perfino credere che la materia della leggenda tenti di accusare gli dèi e il fato e, nelle mani di Euripide, spirito critico avverso agli dèi, essa si sarebbe verosimilmente trasformata in un'accusa del genere. Ma nel caso di un credente come Sofocle non è opportuno vedere la cosa sotto questa luce; un devoto espediente, la sottomissione della volontà umana alla volontà degli dèi come la più alta forma di moralità, anche quando essi impongano qualcosa di delittuoso, aiuta a superare la difficoltà. Non ritengo affatto che questa morale sia uno dei cardini dell'opera; essa è al contrario indifferente ai fini dell'effetto tragico. L'ascoltatore non reagisce alla morale, ma al senso e al segreto contenuto della leggenda. Egli, in altri termini, reagisce come se attraverso un'autoanalisi avesse riconosciuto in se stesso il complesso edipico e avesse smascherato sia la volontà divina, sia l'oracolo, riconoscendo in essi i nobili travestimenti del suo proprio inconscio. E come se lo spettatore fosse costretto a ricordare i desideri di eliminare il padre e di sposare la madre, e ad esserne atterrito. La voce del poeta egli la intende come se volesse dirgli: "Vanamente lotti contro la tua responsabilità e invochi quel che hai fatto contro queste intenzioni delittuose. Sei comunque colpevole, perché non sei riuscito ad annientarle; inconsciamente esse ancora esistono in te". In ciò è racchiusa una verità psicologica. Anche se l'uomo ha rimosso nell'inconscio i suoi impulsi malvagi e tenta di convincersi che non è responsabile di essi, tuttavia qualcosa lo costringe a percepire questa responsabilità come un senso di colpa, la cui ragione gli è sconosciuta.

È assolutamente certo che nel complesso d'Edipo si può vedere una delle più importanti fonti di quel senso di colpa da cui i nevrotici sono così spesso afflitti. Ma dirò di più: in uno studio sulle origini della religione e della moralità umana, pubblicato nel 1913 con il titolo Totem e tabù,ho ipotizzato che all'inizio della sua storia l'umanità nel suo complesso abbia derivato il suo senso di colpa, radice ultima della religione e della morale, dal complesso edipico. Mi piacerebbe dirvi di più su questo argomento, ma è meglio che vi rinunci. In effetti, è difficile allontanarsi da questo tema quando si è cominciato ad occuparsene, e noi dobbiamo tornare alla psicologia individuale.

Che cosa possiamo scoprire dunque del complesso edipico attraverso l'osservazione diretta del bambino, all'epoca della scelta oggettuale precedente il periodo di latenza? Si nota facilmente che il bambino vuole avere la madre soltanto per sé, avverte come un incomodo la presenza del padre, si arrabbia se questi si permette gesti affettuosi verso la madre, e manifesta la sua felicità quando il padre parte per un viaggio o è assente. Spesso il bambino dà diretta espressione verbale ai suoi sentimenti, promettendo alla madre che la sposerà. Si può pensare che tutto ciò sia ben poca cosa rispetto alle imprese di Edipo, di fatto, tuttavia, è già abbastanza, in nuce è la stessa cosa. L'osservazione viene spesso confusa dal fatto che in altre circostanze lo stesso bambino manifesta contemporaneamente un grande affetto per il padre; tali atteggiamenti emotivi opposti, o per meglio dire ambivalenti, che nell'adulto condurrebbero al conflitto, sono tuttavia del tutto compatibili tra loro per un lungo periodo nel bambino, così come in seguito trovano posto permanentemente l'uno accanto all'altro nell'inconscio. Si potrebbe anche obiettare che il comportamento del bambino scaturisca da motivazioni egoistiche, e che non autorizzi affatto a postulare un complesso erotico. La madre provvede a tutte le necessità del bambino, e il bambino ha perciò interesse che la madre non si occupi di nessun altro. Ciò è senz'altro vero, ma appare subito chiaro che in questa situazione, come in altre consimili, l'interesse egoistico offre solo il punto d'appoggio, al quale si lega la spinta erotica. Quando il bambino manifesta la più palese curiosità sessuale per la madre, quando pretende di dormirle accanto durante la notte, quando insiste per presenziare alla sua toeletta, o tenta addirittura di sedurla - tentativi che spesso la madre può constatare e riferire ridendone -, la natura erotica dell'attaccamento alla madre è garantita oltre ogni dubbio. Non va dimenticato neppure che la madre elargisce le stesse premure alla bambina senza ottenere uguale risultato, e che piuttosto di frequente il padre fa a gara con lei nel prendersi cura del figlio, senza tuttavia riuscire a conquistare la sua stessa importanza. In breve, il fattore della predilezione sessuale è innegabile. Nella prospettiva dell'interesse egoistico sarebbe semplicemente sciocco da parte del maschio non voler ammettere ai suoi servizi due persone invece che una sola.

Come vedete, ho esaminato solo il rapporto del maschio con il padre e la madre. Esso si configura in modo del tutto analogo per la bambina, con le necessarie varianti. L'attaccamento affettuoso al padre, l'esigenza di eliminare la madre come superflua per occuparne il posto sono civetterie che utilizzano già gli strumenti della futura femminilità, contribuiscono ad offrire della bambina un'immagine deliziosa, che ci fa dimenticare l'aspetto serio e le possibili gravi conseguenze sottese a questa condizione infantile. Non va trascurato il fatto che generalmente gli stessi genitori esercitano un'influenza decisiva sul risveglio dell'atteggiamento edipico del bambino; anch'essi si abbandonano all'attrazione sessuale e, nel caso vi sia più di un figlio, antepongono nel modo più evidente nel proprio affetto il padre la figlia e la madre il figlio. D'altra parte la natura spontanea del complesso edipico infantile non può venir scossa seriamente neppure da questo fattore.

Con la nascita di altri bambini il complesso edipico si allarga nel nucleo familiare; appoggiandosi di nuovo alla percezione egoistica di essere danneggiati, tale complesso rappresenta la ragione per cui i fratellini o le sorelline vengono accolti con avversione ed eliminati senza esitazione nel desiderio. I bambini generalmente danno molto più facilmente espressione verbale a questi sentimenti di odio che a quelli scaturiti dal complesso parentale. Se tale desiderio trova soddisfazione e la morte sottrae entro breve tempo l'indesiderato nuovo membro della famiglia, in età più tarda l'analisi mostrerà quanto sia stata importante per il bambino l'esperienza di questa morte anche nel caso in cui essa non sia rimasta impressa nella sua memoria. Spinto in secondo piano dalla nascita di un fratellino o di una sorellina, e nei primi tempi quasi isolato dalla madre, molto difficilmente il bambino le perdona di essere stato trascurato; in lui si insinuano sentimenti che nell'adulto sarebbero definiti di grave esasperazione e che diventano non di rado la base di un duraturo estraniamento. Abbiamo già menzionato il fatto che l'esplorazione sessuale, con tutte le sue conseguenze, si ricollega di solito a questa esperienza della vita del bambino. Con il crescere dei fratelli o sorelle, l'atteggiamento verso di essi subisce trasformazioni assai significative. Il bambino può assumere la sorella quale oggetto amoroso, in sostituzione della madre infedele; già all'epoca dei giochi tra più fratelli che si contendono una sorellina più piccola, si verificano quelle situazioni di ostile rivalità che nella vita successiva assumeranno grande significato. Una bambina trova nel fratello maggiore un sostituto del padre che non si cura più di lei con l'affetto dei primi anni, oppure prende una sorella minore come sostituto del bambino che ha invano desiderato dal padre.

L'osservazione diretta dei bambini e l'analisi dei ricordi degli anni dell'infanzia vi mostreranno tutto ciò e molte altre cose di natura analoga, purché i dati siano chiaramente conservati e non influenzati dall'analisi. Arriverete, tra l'altro, alla conclusione che la posizione occupata dal bambino nella serie dei figli è un fattore di estrema importanza per il configurarsi della sua vita successiva, che dovrebbe venire preso in considerazione in ogni biografia. Ma, ed è la cosa più importante, di fronte a queste spiegazioni così facili da ottenere non potrete ricordare senza sorridere le asserzioni fatte dalla scienza per spiegare il divieto dell'incesto. Che cosa non si è inventato in proposito! L'inclinazione sessuale sarebbe stata distolta dai membri di sesso diverso della stessa famiglia a causa della convivenza fin dall'infanzia; oppure nell'innato orrore per l'incesto si darebbe la rappresentanza psichica della tendenza biologica ad evitare i contatti tra consanguinei! Si dimentica qui completamente che la legge e la morale non avrebbero bisogno di una tale inesorabile proibizione se vi fosse una qualsiasi certa barriera naturale contro la tentazione dell'incesto. È vero esattamente il contrario. La prima scelta oggettuale degli esseri umani è sempre incestuosa, diretta, nel caso del maschio, verso la madre e la sorella; e sono necessari i più severi divieti per trattenerlo dall'attuazione di questa persistente inclinazione infantile. Presso i popoli selvaggi, vale a dire presso i primitivi ancora viventi, i divieti relativi all'incesto sono ancora più severi che da noi, e recentemente Theodor Reik ha mostrato in uno splendido lavoro che i riti di pubertà dei selvaggi, che rappresentano una rinascita, hanno il significato di sciogliere il legame incestuoso del bambino con la madre e di stabilire la sua conciliazione con il padre.

La mitologia vi insegna che l'incesto, che si presume sia così aborrito dagli uomini, viene tranquillamente concesso agli dèi, e dalla storia antica potete apprendere che il matrimonio incestuoso con la sorella era una regola sacra per la persona del sovrano (presso gli antichi faraoni e gli Incas del Perù). Si tratta quindi di un privilegio negato ai comuni mortali.

Uno dei delitti di Edipo è l'incesto con la madre, l'altro è l'uccisione del padre. Va detto, per inciso, che sono anche i due grandi delitti che il totemismo, la prima istituzione socio-religiosa degli uomini, rigorosamente proibisce.

Ci chiediamo ora se, nel proseguire la discussione di tale asserto, dobbiamo attenerci alla natura della frustrazione o al particolare carattere di chi ne è colpito. In verità, la frustrazione è assai raramente unilaterale e assoluta; e certo, per agire in senso patogeno, occorre che essa colpisca l'unico modo di soddisfacimento che la persona pretende e di cui è capace. In generale, esistono moltissime vie che permettono di sopportare la privazione del soddisfacimento libidico senza ammalarsi. Conosciamo anzitutto uomini in grado di assumersi una simile privazione senza danno: non sono felici, soffrono di nostalgia, ma non si ammalano. Poi dobbiamo prendere in considerazione il fatto che precisamente gli impulsi di natura sessuale sono, se così posso esprimermi, straordinariamente plastici.

Volgiamoci ora dall'osservazione diretta del bambino all'indagine analitica di adulti diventati nevrotici. Qual è il contributo dell 'analisi ad una conoscenza ulteriore del complesso edipico? È facile dirlo. Essa lo presenta così come la leggenda lo racconta. La psicoanalisi mostra cioè che ognuno di questi nevrotici è stato egli stesso un Edipo ovvero - e ciò ci riconduce allo stesso punto - per reazione al complesso è divenuto un Amleto. Ovviamente la descrizione che l'analisi offre del complesso edipico è un'amplificazione semplificata dell'abbozzo infantile. L'odio contro il padre, il desiderio di morte nei suoi confronti, non sono più timidamente accennati; l'affettuosità per la madre riconosce il proprio scopo di possederla come donna. Possiamo realmente ricollegare questi impulsi emotivi brutali ed estremi a quei teneri anni infantili, o invece l'analisi c'inganna introducendo un nuovo fattore? È facile scoprirne uno. Ogni volta che un uomo riferisce sul passato, sia pure uno storiografo, dobbiamo considerare ciò che egli traspone non intenzionalmente nel passato dal presente o da periodi intermedi, così da falsare il quadro. Nel caso del nevrotico ci si può persino chiedere se tale trasposizione regressiva sia del tutto priva di intenzionalità; in seguito dovremo conoscerne alcuni motivi e prendere atto del valore che ha in generale il "fantasticare retrospettivo" sul proprio lontano passato. Altrettanto facilmente scopriamo che l'odio nei confronti del padre è rafforzato da una quantità di fattori che provengono da epoche e circostanze successive, e che i desideri sessuali nei confronti della madre assumono forme che necessariamente erano ancora estranee al bambino. Tuttavia sarebbe uno sforzo inutile voler spiegare l'intero complesso edipico mediante il fantasticare retrospettivo e volerlo riferire ad epoche successive. Com'è testimoniato dalla diretta osservazione del bambino, il nucleo infantile, come pure un numero maggiore o minore di elementi accessori, permangono.

Il fatto clinico che si presenta dietro la forma del complesso edipico, quale risulta dall'analisi, è della massima importanza pratica. Apprendiamo che all'epoca della pubertà, quando per la prima volta la pulsione sessuale fa sentire le sue pretese, gli antichi oggetti familiari e incestuosi vengono riassunti e reinvestiti libidicamente. La scelta oggettuale infantile era solo un debole preludio, che però ha indicato la direzione della scelta oggettuale nella pubertà. Ora dunque si svolgono processi emotivi intensissimi in direzione del complesso edipico o in reazione ad esso, i quali però, dal momento che i loro presupposti sono diventati intollerabili, devono in gran parte rimanere lontani dalla coscienza. Da questo momento in poi, l'individuo deve dedicarsi al grande compito di svincolarsi dai genitori, e solo dopo aver portato a termine tale compito può cessare di essere un bambino e divenire un membro della società. Il compito consiste, per il figlio, nello slegare i suoi desideri libidici dalla madre per impiegarli nella scelta di un oggetto d'amore estraneo e reale, e nel conciliarsi con il padre se è rimasto in antagonismo con lui o nel liberarsi dalla sua oppressione se, per reazione alla ribellione infantile, si è trovato in un rapporto di soggezione nei suoi confronti. Questi compiti si pongono ad ognuno di noi, ed è degno di nota quanto raramente si riesca ad assolverli in modo ideale, in modo cioè corretto sia psicologicamente, sia socialmente. Ai nevrotici però non riesce affatto tale distacco: il figlio rimane tutta la vita piegato sotto l'autorità del padre e non è in grado di trasferire la sua libido su un oggetto sessuale estraneo. Lo stesso può accadere, corrispondentemente, alla figlia. In questo senso il complesso d'Edipo è ritenuto, a ragione, il nucleo delle nevrosi.

Voi intuite, signori, come abbia toccato solo fugacemente un gran numero di circostanze di importanza pratica e teorica, connesse col complesso edipico. Non approfondisco neppure le varianti e il possibile rovesciamento di quest'ultimo. Voglio soltanto accennarvi a una delle sue più remote ramificazioni, ovvero a come si sia dimostrato uno degli elementi che in misura maggiore hanno determinato la produzione poetica. Otto Rank ha mostrato in un'opera pregevole che i drammaturghi di tutti i tempi hanno attinto i loro soggetti soprattutto dal complesso edipico e dall'incesto, dalle sue varianti e dai suoi mascheramenti. Si deve menzionare, inoltre, che molto prima dell'avvento della psicoanalisi, i due desideri delittuosi del complesso d'Edipo sono stati riconosciuti come i veri rappresentanti della vita pulsionale priva di inibizioni. Tra gli scritti dell'Encyclopédie di Diderot figura un dialogo famoso, Le neveu de Rameau, reso in tedesco nientemeno che da Goethe. In esso potete leggere questa frase degna di nota: «Si le petit sauvage était abandonné à lui-mème, qu 'il conservàt toute son imbecillite et qu 'il réuitt au peu de raison de l'enfant au berceau la violence des passions de l'homme de trente ans, il tordrait le cou à son pére et coucherait avec sa mère». [«Se il piccolo selvaggio fosse abbandonato a se stesso, e se conservasse tutta la sua debolezza mentale e alla mancanza di ragione propria del bambino in fasce unisse la violenza delle passioni dell'uomo di trent'anni, torcerebbe il collo al padre e giacerebbe con la madre»].

C'è ancora qualcosa che non posso tralasciare. La madre-sposa di Edipo non ci richiama inutilmente ai sogni. Ricordate il risultato delle nostre analisi dei sogni? Rammentate che i desideri sui quali si edifica il sogno sono così spesso di natura perversa, incestuosa, o tradiscono una insospettata ostilità verso parenti prossimi e amati? Allora abbiamo lasciato inspiegata la provenienza di questi impulsi cattivi. Ora potete dirlo voi stessi. Si tratta di dislocazioni [Unterbringungen] e investimenti oggettuali che risalgono all'infanzia e sono stati abbandonati da lungo tempo nella vita cosciente, ma che nottetempo si rivelano ancora presenti e in qualche modo portatori di effetti. Poiché non solo i nevrotici ma tutti gli uomini hanno questi sogni perversi, incestuosi e omicidi, possiamo trarre da ciò la conclusione che anche coloro che oggi sono normali hanno percorso il cammino evolutivo attraverso le perversioni e gli investimenti oggettuali del complesso edipico, che questo cammino è quello dello sviluppo normale, che i nevrotici manifestano in forma solo ingrandita e aggravata ciò che l'analisi dei sogni ci rivela rispetto alle persone sane. E questo uno dei motivi per cui abbiamo fatto precedere lo studio dei sogni a quello dei sintomi nevrotici.

Lezione 22. Aspetti dello sviluppo e della regressione. Eziologia

Signore e signori, abbiamo visto che la funzione della libido attraversa un lungo percorso di sviluppo prima di poter entrare, nel modo definito normale, al servizio della riproduzione. Vorrei ora illustrarvi il significato di questo fatto rispetto all'origine delle nevrosi.

Ritengo che non ci allontaniamo dagli insegnamenti della patologia generale se ipotizziamo che tale sviluppo implichi due pericoli: in primo luogo quello dell' inibizione [Hemmung] e, in secondo luogo, quello della regressione [Regressioni. Ciò significa che, data la generale tendenza dei processi biologi alla variazione, avverrà inevitabilmente che non tutte le fasi preparatorie verranno attraversate egualmente bene e superate in modo compiuto: alcune componenti della funzione saranno trattenute permanentemente a questi stadi più primitivi, e il quadro complessivo dello sviluppo sarà contrassegnato da una certa dose di inibizione evolutiva.

Ricerchiamo in altri ambiti analogie con questi processi. Quando un intero popolo abbandonava i suoi luoghi di insediamento per cercarne di nuovi, come si è spesso verificato nelle epoche antiche della storia umana, certamente non giungeva nel nuovo paese nella sua totalità. A prescindere da altre perdite, succedeva continuamente che piccoli gruppi o bande di migranti si fermassero lungo il cammino e si stabilissero in queste località intermedie, mentre il grosso della popolazione proseguiva. Oppure, per cercare esempi a noi più vicini, voi tutti sapete che in un certo periodo della vita intrauterina nei mammiferi superiori le ghiandole germinali maschili, situate originariamente molto all'interno nella cavità addominale, intraprendono una migrazione che le porta quasi immediatamente sotto la pelle dell'estremità pelvica. Quale conseguenza di questa migrazione, si riscontra che in un certo numero di individui maschi uno degli organi appaiati è rimasto nella cavità pelvica, o ha trovato un assestamento permanente nel cosiddetto canale inguinale, attraversato da entrambi gli organi nella loro migrazione, o almeno che questo canale è rimasto aperto, benché normalmente si chiuda immediatamente dopo il mutamento di posizione delle ghiandole germinali. Allorché, giovane studente, eseguii il mio primo lavoro scientifico sotto la direzione di von Brücke, dovetti occuparmi dell'origine delle radici nervose posteriori nel midollo spinale di un piccolo pesce di conformazione ancora molto arcaica. Rilevai che le fibre nervose queste radici provengono da grandi cellule del corno posteriore della sostanza grigia, ciò che non avviene più in altri vertebrati. Subito dopo scoprii però anche che cellule nervose di questo tipo sono rinvenibili al di fuori della sostanza grigia, lungo l'intero percorso fino al cosiddetto ganglio finale della radice posteriore; da ciò trassi la conclusione che le cellule di questi mucchi di gangli sono migrate dal midollo spinale seguendo il percorso delle radici dei nervi. La cosa ci è dimostrata anche dalla storia dell'evoluzione; in questo piccolo pesce, tuttavia, veniamo a conoscenza dell'intero cammino della migrazione grazie a cellule rimaste indietro.

Approfondendo questi paragoni non vi sarà difficile individuarne i punti deboli. Vengo quindi direttamente al mio enunciato: dall'esame di ogni singola tendenza sessuale è possibile stabilire che alcune componenti di essa si sono arrestate a stadi precedenti dello sviluppo, anche se altre possono aver raggiunto la meta finale. Con ciò vedete che ci rappresentiamo ognuna di queste tendenze come una corrente ininterrotta che procede sin dall'inizio della vita ma che noi scomponiamo, in un certo qual modo artificialmente, in successive e separate onde. La vostra impressione che questo modo di rappresentarsi le cose abbisogni di un chiarimento ulteriore è giustificata, ma farlo ci condurrebbe troppo lontano. Lasciate solo che vi dica che tale arresto di una tendenza parziale ad uno stadio anteriore verrà da noi indicato col termine fissazione (fissazione cioè della pulsione).

Il secondo pericolo di tale sviluppo per stadi consiste nel fatto che anche le parti che si sono spinte più avanti possono facilmente ritornare, con movimento retrogrado, ad uno degli stadi precedenti: chiamiamo questo processo regressione. La tendenza sarà indotta a regredire in questo modo allorché nell'esercizio della sua funzione nella forma successiva o più altamente evoluta, perseguendo cioè la meta soddisfacente, si imbatte in potenti ostacoli esterni. Ne consegue l'ipotesi che fissazione e regressione non siano indipendenti l'una dall'altra. Quanto più forti saranno le fissazioni lungo il cammino dello sviluppo, tanto più la funzione eviterà le difficoltà esterne regredendo fino alle fissazioni medesime - tanto più, quindi, la funzione in via di formazione si rivelerà incapace di resistere, durante il suo decorso, agli ostacoli esterni. È come se un popolo in movimento lasciasse dietro di sé forti distaccamenti nelle tappe della sua migrazione, e venisse spontaneo a quelli che si sono spinti più avanti di retrocedere fino a quei luoghi in caso di sconfitta o di scontro con un nemico troppo forte; il pericolo di sconfitta, d'altra parte, sarà tanto più incombente quanto più numerosi saranno coloro che nel corso della migrazione sono rimasti indietro.

Per la vostra comprensione delle nevrosi è importante che non perdiate di vista il rapporto tra fissazione e regressione. Otterrete così un solido punto di riferimento quando dovrete affrontare - lo faremo tra poco - il problema dell'eziologia delle nevrosi, ossia delle loro cause.

Per il momento ci soffermeremo ancora sulla regressione. Sulla base di quanto sapete a proposito dello sviluppo della funzione, avete motivo di aspettarvi due tipi di regressione: ritorno ai primi oggetti investiti dalla libido, che, come è noto, sono di natura incestuosa, e ritorno dell'intera organizzazione sessuale a stadi precedenti. Entrambi questi tipi di regressione si manifestano nelle nevrosi di transfert e giocano un ruolo importante nel loro meccanismo. In particolare il ritorno della libido ai primi oggetti incestuosi è un tratto riscontrabile nei nevrotici con regolarità addirittura estenuante. Avremmo molto di più da dire sulla regressione della libido se prendessimo in considerazione anche un altro gruppo di nevrosi, le cosiddette nevrosi narcisistiche, ma al momento non intendiamo farlo. Queste affezioni ci dischiudono ulteriori processi di sviluppo della funzione libidica che finora non abbiamo menzionato, e ci rivelano, di conseguenza, anche nuovi tipi di regressione.

Per ora ritengo di dovervi mettere in guardia soprattutto dal confondere regressione con rimozione, aiutandovi a chiarire le relazioni che esistono tra questi due processi. Come ricorderete, la rimozione è quel processo per il quale un atto capace di diventare cosciente, un atto appartenente dunque al sistema preconscio, viene reso inconscio, ossia respinto nel sistema inconscio. Parliamo parimenti di rimozione allorché l'atto psichico inconscio non viene ammesso nemmeno nel vicino sistema preconscio, ma viene rimandato indietro dalla censura quando arriva alla soglia di esso. Vi prego dunque di notare bene che il concetto di rimozione non implica alcuna relazione con la sessualità. Esso designa un processo puramente psicologico, che possiamo caratterizzare ancor meglio definendolo "topico". Vogliamo dire con ciò che esso ha a che fare con gli spazi psichici di cui abbiamo supposto l'esistenza o, abbandonando questa elementare immagine ausiliari, con la strutturazione dell'apparato psichico in sistemi psichici separati.

La comparazione che abbiamo delineato attira per la prima volta la nostra attenzione sul fatto che sinora abbiamo utilizzato la parola "regressione" non nel suo significato generale, ma in un senso del tutto particolare. Date alla regressione il suo senso generale, quello di un ritorno da uno stadio superiore dello sviluppo ad uno inferiore, e anche la rimozione potrà rientrare nel concetto di regressione; anch'essa infatti può essere descritta come ritorno a uno stadio precedente inferiore nello sviluppo di un atto psichico. D'altra parte, nel caso della rimozione questo movimento regressivo non ci interessa dal momento che, in senso dinamico, parliamo di rimozione anche quando un atto psichico viene trattenuto allo stadio inferiore dell'inconscio. "Rimozione" è appunto un concetto topico-dinamico, "regressione" un concetto puramente descrittivo. Con ciò che abbiamo finora definito regressione e messo in collegamento con la fissazione, intendevamo invece esclusivamente il ritorno della libido a tappe precedenti del suo sviluppo, qualcosa, dunque, dì sostanzialmente diverso dalla rimozione e del tutto indipendente da essa. Non possiamo d'altra parte definire la regressione della libido come un processo puramente psichico, né sappiamo quale localizzazione assegnarle nell'apparato psichico. Per quanto sia forte il suo influsso sulla vita psichica nella regressione il fattore organico è comunque il più saliente.

Discussioni come questa, signori, non possono diventare in qualche misura aride. Rivolgiamo la nostra attenzione alla clinica per individuarne forme di impiego un po' più interessanti. Sapete che l'isteria e la nevrosi ossessiva sono le due principali rappresentanti del gruppo delle nevrosi di transfert. Ebbene, nell'isteria vi è certo, e del tutto regolarmente, una regressione della libido agli oggetti sessuali primari, incestuosi, ma non vi è praticamente nessuna regressione a stadi precedenti dell'organizzazione sessuale. In compenso la parte principale del meccanismo isterico spetta alla rimozione. Volendo completare con una costruzione teorica quanto abbiamo finora messo in luce a proposito di questa nevrosi, potrei descrivere la situazione in questo modo: l'unificazione delle pulsioni parziali sotto il primato dei genitali è raggiunta, ma i suoi risultati si scontrano con la resistenza del sistema preconscio collegato con la coscienza. L'organizzazione genitale vale dunque per l'inconscio, ma non altrettanto per il preconscio; tale rifiuto da parte del preconscio porta alla formazione di un quadro che ha qualche affinità con lo stato che precede il primato dei genitali. E tuttavia si tratta di qualcosa di completamente diverso.

Delle due regressioni della libido, quella ad una fase precedente dell'organizzazione sessuale è di gran lunga la più appariscente. Poiché essa manca nell'isteria, e poiché la nostra intera concezione della nevrosi è ancora eccessivamente sotto l'influsso dello studio dell'isteria che ha preceduto le altre indagini nel tempo, il significato della regressione della libido ci è divenuto chiaro molto più tardi di quello della rimozione. Dobbiamo aspettarci che le nostre osservazioni siano soggette ad ulteriori ampliamenti e sovvertimenti quando, oltre all'isteria e alla nevrosi ossessiva, potremo considerare anche le altre nevrosi, quelle narcisistiche.

E non è tutto! Se pure riuscite a convincermi che sia meglio non considerare sessuali le attività del lattante, questo vi servirebbe nel complesso ben poco a ciò che volete sostenere, ossia la purezza sessuale del bambino. Infatti, già a partire dal terzo anno non vi sono più dubbi sull'esistenza di una vita sessuale del bambino; a quell'età i genitali cominciano già a risvegliarsi, ne risulta quasi regolarmente un periodo di masturbazione infantile, dunque di soddisfacimento genitale. Non è più il caso di dire che manchino manifestazioni psichiche e sociali della vita sessuale: scelta oggettuale, affettuosa preferenza rivolta a singole persone, persino decisione in favore di uno dei due sessi, gelosia furono accertate mediante osservazioni imparziali indipendentemente e prima della comparsa della psicoanalisi e possono essere confermate da ogni osservatore che intenda constatarle in prima persona. Obietterete di non aver dubitato del risveglio precoce dell'affettuosità, ma solo del fatto che tale affettuosità abbia un carattere "sessuale". E vero che i bambini tra i tre e gli otto anni hanno già imparato a nascondere queste cose, ma se prestate attenzione potrete raccogliere prove sufficienti delle intenzioni "sensuali" delle loro affettuosità, e quanto vi sarà ancora nascosto lo scoprirete senza fatica mediante le indagini analitiche. Le mete sessuali di quest'epoca della vita sono legate intimamente con l'esplorazione sessuale dello stesso periodo, di cui vi ho dato alcune prove. Il carattere perverso di alcune di queste mete dipende naturalmente dall'immaturità costituzionale del bambino, il quale non ha ancora scoperto la meta dell'atto dì accoppiamento.   

Nella nevrosi ossessiva, al contrario, l'elemento più vistoso e che determina le manifestazioni sintomatiche è la regressione della libido allo stadio preliminare dell'organizzazione sadico-anale. L'impulso amoroso deve assumere qui la maschera dell'impulso sadico. La rappresentazione ossessiva «vorrei ucciderti», una volta liberata da certe aggiunte (che però non sono casuali, bensì indispensabili), in fondo non significa altro che «vorrei godere di te nell'amore». Se a ciò aggiungete che nel contempo è avvenuta una regressione oggettuale, sì che questi impulsi valgono solo per le persone più prossime e più care, potete farvi un'idea dell'orrore che queste ossessioni suscitano nel malato, e al tempo stesso del carattere di estraneità con cui si presentano alla sua percezione cosciente. Anche la rimozione ha nel meccanismo di queste nevrosi una parte considerevole, e d'altra parte non è semplice da chiarire in un'introduzione rapida come la nostra. Una regressione della libido senza rimozione non darebbe mai luogo a una nevrosi, ma sfocerebbe piuttosto in una perversione. Potete comprendere da tutto ciò come la rimozione sia il processo che più specificamente attiene alla nevrosi e meglio la caratterizza. Forse avrò ancora occasione di esporvi ciò che sappiamo sul meccanismo delle perversioni; vedrete allora che anche in questo caso nulla avviene in modo così semplice come ci piacerebbe immaginare.

Signori, penso che l'esposizione che avete appena ascoltato sulla fissazione e sulla regressione della libido potrà apparirvi nella sua giusta luce allorché la considererete come propedeutica all'indagine sull'eziologia delle nevrosi. A tale proposito, mi sono limitato finora a dirvi che gli uomini si ammalano di nevrosi quando viene tolta loro la possibilità di soddisfare la propria libido - quindi per "frustrazione", come mi espressi - e che i loro sintomi sono appunto il sostituto del soddisfacimento non concesso. Ovviamente ciò non significa che ogni frustrazione del soddisfacimento libidico renda nevrotico colui che ne è soggetto, ma solo che l'elemento della frustrazione era dimostrabile in tutti i casi esaminati di nevrosi. La proposizione non è quindi reversibile. Voi avrete certo anche compreso che quella affermazione non pretendeva di svelare per intero l'enigma dell'eziologia delle nevrosi, ma ne metteva in rilievo solo una condizione importante e indispensabile.

A questo punto sorge il dubbio se, nel proseguire la discussione di tale tesi, dobbiamo attenerci alla natura della frustrazione o al particolare carattere di colui che ne è colpito. Raramente la frustrazione è unilaterale e assoluta; e di certo, per agire in senso patogeno, occorre che colpisca l'unico modo di soddisfacimento che la persona pretende e di cui è capace. In genere, però, vi sono moltissime vie che consentono di sopportare la privazione del soddisfacimento libidico senza ammalarsi. In primo luogo, conosciamo uomini che sono in grado di assumersi una tale privazione senza danno: non sono felici, soffrono di nostalgia, ma non si ammalano. Dobbiamo inoltre considerare il fatto che proprio gli impulsi di natura sessuale sono - se posso esprimermi così - straordinariamente plastici. Possono sostituirsi l'uno con l'altro, l'uno può assumere su di sé l'intensità dell'altro, se il soddisfacimento di uno viene frustrato dalla realtà, il soddisfacimento di un altro può offrire piena compensazione. Nonostante il loro assoggettamento al primato dei genitali, essi sono tra loro in relazione come una rete di canali comunicanti pieni di liquido: la qual cosa non si può facilmente riassumere in un'unica immagine. A ciò si aggiunga che le pulsioni parziali della sessualità, allo stesso modo della spinta sessuale che producono, mostrano una grande capacità di mutare il loro oggetto, di scambiarlo con un altro, quindi anche con un oggetto più facilmente accessibile. Tale spostabilità e disponibilità ad accettare surrogati non possono non operare potentemente in senso contrario all'effetto patogeno di una frustrazione. Tra questi processi che preservano dall'ammalarsi per privazione ce n'è uno che ha acquisito un particolare significato per la civiltà. Esso consiste nel fatto che la tendenza sessuale rinuncia alla sua meta rivolta al piacere parziale o al piacere riproduttivo e ne accetta un'altra che è geneticamente connessa a quella lasciata, che però non deve più essere chiamata "sessuale" bensì "sociale". Conformandoci alla valutazione generale, che colloca i fini sociali più in alto rispetto ai fini sessuali, i quali sono fondamentalmente egocentrici, chiamiamo questo processo "sublimazione". La sublimazione rappresenta d'altronde solo una delle specifiche modalità con cui le tendenze sessuali si appoggiano ad altre tendenze non sessuali. Di ciò dovremo parlare ancora in un altro contesto.

Avrete ora l'impressione che, con tutti questi espedienti per sopportare la privazione, il suo significato si riduca a zero. Essa mantiene invece il suo potere patogeno. Le contromisure non sono generalmente sufficienti. C'è un limite alla quantità di libido insoddisfatta che gli uomini possono mediamente sostenere. Non è affatto vero che la plasticità, o libera mobilità della libido, si conservi in tutti nella sua pienezza, e la sublimazione non può mai liquidare se non una certa quantità di libido, a parte il fatto che la capacità di sublimazione è presente solo in scarsa misura in molte persone. La più importante di queste restrizioni è ovviamente quella relativa alla mobilità della libido, giacché essa fa dipendere il soddisfacimento della libido dal raggiungimento di un numero assai esiguo di mete e di oggetti. Rammentate, a questo punto, che da uno sviluppo incompleto della libido possono derivare fissazioni libidiche considerevoli, eventualmente anche molteplici, a fasi precedenti dell'organizzazione sessuale e del rinvenimento dell'oggetto, ricordate che in queste situazioni è per lo più impossibile un effettivo soddisfacimento; riconoscerete allora nella fissazione della libido il secondo potente fattore che, insieme alla frustrazione, concorre a determinare la malattia. Potete dire, schematicamente, che la fissazione libidica costituisce il fattore predisponente interno, e la frustrazione quello accidentale, esterno, dell'eziologia delle nevrosi.

Colgo qui l'occasione per mettervi in guardia dal prendere partito in una disputa assolutamente inutile. Nelle questioni scientifiche è molto comune isolare una parte della verità, metterla al posto del tutto e poi, per favorirla, avversare il resto, che non è meno vero. In questo modo si sono già scisse dal movimento psicoanalitico parecchie correnti, delle quali l'una riconosce solo le pulsioni egoistiche e sconfessa per contro quelle sessuali, mentre l'altra prende in considerazione solo l'influsso dei compiti reali della vita, trascurando l'importanza del passato individuale, e così via. Si presenta qui, ora, lo spunto per un'analoga opposizione e controversia: le nevrosi sono malattie endogene o esogene? Rappresentano esse l'inevitabile conseguenza di una certa costituzione o sono invece il prodotto di talune impressioni vitali dannose (traumatiche)? In particolare, traggono origine dalla fissazione della libido (e dagli altri aspetti della costituzione sessuale) oppure dalla pressione della frustrazione? Questo dilemma non mi sembra, tutto sommato, più saggio di quest'altro che potrei sottoporvi: il bambino nasce perché generato dal padre o perché concepito dalla madre? Entrambe le condizioni sono egualmente indispensabili, risponderete con ragione. Nella genesi delle nevrosi il rapporto, se non del tutto identico, è tuttavia assai simile. Dal punto di vista eziologico i casi di malattie nevrotiche si ordinano in una serie in cui entrambi i fattori - costituzione sessuale ed esperienza, oppure, se preferite, fissazione della libido e frustrazione - sono presenti in modo tale che quando l'uno cresce l'altro diminuisce. A un capo della serie vi sono i casi estremi, dei quali si può affermare con convinzione: questi individui, in ragione del singolare sviluppo della loro libido, si sarebbero ammalati in ogni caso, qualsivoglia fossero state le loro esperienze, per quanto accuratamente la vita li avesse risparmiati. All'altro capo vi sono i casi di coloro i quali sarebbero certamente scampati alla malattia se la vita non li avesse posti in questo o in quel contesto. Nei casi all'interno della serie un più o un meno di costituzione sessuale predisponente si combina con un meno o un più di sollecitazioni negative della vita. Se costoro non avessero avuto tali esperienze la loro costituzione sessuale non li avrebbe portati alle nevrosi, e queste esperienze non avrebbero avuto su di loro un effetto traumatico se le condizioni della libido fossero state diverse. In questa serie posso forse concedere una qualche preponderanza all'importanza dei fattori predisponenti, ma anche questa concessione dipende da quanto volete estendere le frontiere del nervosismo.

Signori, vi propongo di dare a tali serie il nome di serie complementari [Ergänzungsreihen], e vi avverto che avremo ancora occasione di costruirne altre di simili.

La tenacia con la quale la libido rimane attaccata a determinate direzioni e oggetti, il carattere adesivo [Klebrigkeìt], per dir così, della libido, ci appare come un fattore indipendente, individualmente variabile, le cui determinanti ci sono completamente sconosciute, ma la cui rilevanza per l'eziologia delle nevrosi non correremo più il rischio di sottovalutare. Non dobbiamo d'altra parte nemmeno sopravvalutare l'intimità di questo rapporto. Il carattere "adesivo" della libido compare -per ragioni ignote e in svariate circostanze - anche nella persona normale, e si rileva quale fattore determinante negli individui che in un certo senso rappresentano il contrario dei nervosi, vale a dire nei pervertiti. Già prima dell'avvento della psicoanalisi (vedi Binet) era noto che nell'anamnesi dei pervertiti si scopre piuttosto spesso l'impronta molto precoce di una anormale direzione pulsionale o scelta oggettuale, alla quale la libido di costoro è rimasta poi ancorata per tutta la vita. Spesso è impossibile dire cosa abbia reso questa impronta capace di esercitare un'attrazione tanto intensa sulla libido. Voglio raccontarvi un caso di questo genere, da me stesso osservato. Si trattava di un uomo per il quale oggi il genitale e tutte le altre attrattive della donna non significano nulla, mentre può esser posto in una condizione di irresistibile eccitazione sessuale solo da un piede con una calzatura di forma particolare. Egli era in grado di riportare alla memoria un episodio risalente al suo sesto anno di età che divenne determinante per la fissazione della sua libido. Sedeva su uno sgabello, accanto alla governante, dalla quale doveva prendere lezioni di inglese. La governante, una vecchia zitella tutt'ossa e dall'aspetto sgradevole, dagli occhi di un azzurro slavato e dal naso camuso, quel giorno aveva male a un piede e lo teneva perciò disteso su un cuscino, infilato in una pantofola di velluto, mentre la gamba era nascosta nel modo più pudico. Un piede così magro e scarno, come quello che allora aveva visto la governante, divenne ben presto, dopo un timido tentativo di normale attività sessuale nella pubertà, il suo unico oggetto sessuale, e quest'uomo era irresistibilmente attratto se al piede si accompagnavano altre caratteristiche in grado di ricordargli la governante inglese. Questa fissazione della sua libido, però, non lo rese un nevrotico, bensì un pervertito, un feticista del piede, come noi diciamo. Vedete allora che, sebbene una fissazione eccessiva della libido, oltretutto prematura, sia indispensabile per la genesi delle nevrosi, la sua sfera d'azione oltrepassa di molto l'ambito delle nevrosi. Di per sé sola, anche questa condizione è tanto poco decisiva quanto quella, sopra menzionata, della frustrazione.

Il problema dell'origine delle nevrosi sembra dunque farsi più complicato. In effetti l'indagine psicoanalitica ci fa conoscere un nuovo fattore non ancora considerato nella nostra serie eziologica - fattore che si riconosce nel modo migliore nei casi in cui improvvisamente quello che fino ad allora era uno stato di salute viene ad essere turbato dalla malattia nevrotica. In questi casi compaiono con regolarità i segni di una lotta tra diversi impulsi di desiderio o, come noi siamo soliti dire, di un conflitto psichico. Una parte della personalità si fa portatrice di certi desideri, un'altra vi si oppone e li respinge. Senza un simile conflitto non vi è nevrosi. Sembrerebbe non esservi nulla di particolare in ciò: come sapete la nostra vita psichica è mossa incessantemente da conflitti ai quali dobbiamo dare una soluzione. Poniamoci la domanda di quali siano queste condizioni, tra quali forze psichiche avvengano questi conflitti patogeni e quale rapporto sussista tra il conflitto e gli altri fattori causali.

Spero di poter fornire a questi interrogativi delle risposte adeguate, per quanto schematiche. Il conflitto viene suscitato dalla frustrazione, la quale fa sì che la libido, privata del suo soddisfacimento, sia costretta a cercarsi altri oggetti e altre vie. Presupposto del conflitto è che queste altre vie e oggetti suscitino l'opposizione di una parte della personalità, con la conseguenza di produrre un veto tale da rendere in un primo tempo impossibile il nuovo modo di soddisfacimento. Di qui si diparte, verso la formazione dei sintomi, la strada che seguiremo più avanti. Le tendenze libidiche respinte riescono ugualmente a imporsi per certe vie indirette ma, in vero, non senza tener conto - mediante certe deformazioni e attenuazioni - dell'opposizione. Le vie indirette sono appunto quelle della formazione dei sintomi; i sintomi rappresentano il soddisfacimento nuovo o sostitutivo, divenuto necessario a causa della frustrazione.

Si può esprimere adeguatamente la rilevanza del conflitto psichico anche in un altro modo, ovvero affermando che alla frustrazione esterna deve aggiungersi quella interna affinché la prima possa agire in senso patogeno. Ovviamente frustrazione interna ed esterna si riferiscono in questo caso a vie e a oggetti diversi. La frustrazione esterna sottrae una possibilità di soddisfacimento, la frustrazione interna vorrebbe escludere un'altra possibilità rispetto alla quale sì origina il conflitto. Personalmente preferisco questa seconda descrizione, perché racchiude un contenuto segreto. Essa accenna infatti alla possibilità che gli impedimenti interni siano originati da ostacoli esterni reali ai primordi dell'evoluzione umana.

Quali sono però le forze da cui deriva l'opposizione alla tendenza libidica, ovvero l'altro polo del conflitto patogeno? In termini estremamente generali, sono le forze pulsionali non sessuali. Noi le raggruppiamo sotto il nome di "pulsioni dell'Io"; la psicoanalisi delle nevrosi di transfert non ci garantisce alcun accesso alla loro ulteriore scomposizione, tutt'al più le veniamo a conoscere, entro certi limiti, per mezzo delle resistenze che si oppongono all'analisi. Il conflitto patogeno è quindi un conflitto tra le pulsioni dell'Io e quelle sessuali. Piuttosto esso sembra essere, in un'intera serie di casi, un conflitto tra differenti tendenze puramente sessuali. Però, in fondo, si tratta della stessa cosa, poiché delle due tendenze sessuali che si trovano in conflitto, l'una è sempre in sintonia con l'Io, per così dire, mentre l'altra ne provoca la difesa. Rimane quindi un conflitto tra l'Io e la sessualità. Molte volte, signori, quando la psicoanalisi ha preteso che un certo evento psichico fosse un esito delle pulsioni sessuali, le si è fatto osservare, con atteggiamento di irritata difesa, che l'uomo non è fatto solo di sessualità, che nella vita psichica esistono anche altre pulsioni e interessi oltre a quelli sessuali, che non tutto può essere fatto derivare dalla sessualità, e così via. Ebbene, fa veramente piacere trovarsi per una volta d'accordo con i propri avversari. La psicoanalisi non ha mai dimenticato che esistono anche forze pulsionali non sessuali, si è fondata sulla distinzione netta tra le pulsioni sessuali e quelle dell'Io, e ha affermato, prima di ogni opposizione, non già che le nevrosi provengono dalla sessualità, bensì che sono originate dal conflitto tra la sessualità e l'Io. Del resto, non si può immaginare nessuna ragione per cui la psicoanalisi dovrebbe contestare l'esistenza o l'importanza delle pulsioni dell'Io soltanto perché cerca di portare alla luce la funzione delle pulsioni sessuali nella malattia e nella vita. Semplicemente, alla psicoanalisi è toccato in sorte di occuparsi in prima linea delle pulsioni sessuali perché queste, attraverso le nevrosi di transfert, sono divenute le più accessibili alla conoscenza, e perché le è spettato il compito di studiare ciò che altri avevano trascurato.

Egualmente non corrisponde al vero che la psicoanalisi abbia trascurato la componente non sessuale della personalità. Proprio la distinzione tra l'Io e la sessualità ci ha fatto riconoscere con particolare chiarezza che anche le pulsioni dell'Io sono protagoniste di un importante processo di sviluppo, il quale né è del tutto indipendente dalla libido, né si realizza senza incidere a sua volta su di esso. È innegabile d'altronde che conosciamo lo sviluppo dell'Io molto meno bene di come conosciamo lo sviluppo libidico, giacché solo lo studio delle nevrosi narcisistiche ci apre la prospettiva di penetrare nella struttura dell'Io. Nondimeno esiste già un notevole tentativo di Ferenczi di costruire teoricamente gli stati dello sviluppo dell'Io; se non altro rispetto a due punti abbiamo già acquisito solide basi per dare un giudizio su questo sviluppo. Non riteniamo affatto che gli interessi libidici di una persona si trovino a priori in contrasto con i suoi interessi di autoconservazione, l'Io si sforzerà, al contrario, in ogni stadio, di rimanere in armonia con la propria organizzazione sessuale attuale e di uniformarsi ad essa. La successione delle singole fasi dello sviluppo libidico segue verosimilmente un programma prestabilito, ma non si può contestare che questo processo possa venire influenzato da parte dell'Io; del pari, si potrebbe prevedere un certo parallelismo, una determinata corrispondenza tra le fasi di sviluppo dell'Io e quelle della libido; il turbamento di questa corrispondenza potrebbe costituire un fattore patogeno. Un importante aspetto è rappresentato per noi dunque dal comportamento dell'Io allorché la sua libido, pervenuta a un certo livello di sviluppo, lascia dietro di sé una forte fissazione. L'Io può ammettere questo fatto, e allora diventa pervertito, oppure, ma è lo stesso, infantile, nella misura corrispondente. L'Io può anche mostrarsi contrario all'insediarsi della libido in quella certa posizione, e in tal caso sperimenta una rimozione laddove la libido ha subito una fissazione.

In questo modo ci rendiamo conto che il terzo fattore dell'eziologia delle nevrosi, vale a dire l’inclinazione al conflitto, dipende tanto dallo sviluppo dell'Io quanto da quello della libido. La nostra visione delle cause delle nevrosi è dunque completa. Dapprima, quale presupposto più generale, la frustrazione; quindi la fissazione della libido che spinge quest'ultima in determinate direzioni; in terzo luogo l'inclinazione al conflitto derivante dallo sviluppo dell'Io che ha respinto tali impulsi libidici. Insomma, la situazione non è così intricata e difficile da penetrare come forse vi è sembrata mentre ve la esponevo. D'altra parte non abbiamo ancora finito: dobbiamo aggiungere qualche nuovo elemento e analizzare ulteriormente questioni già note.

Per chiarirvi l'influenza dello sviluppo dell'Io sulla formazione del conflitto, e dunque sulla determinazione delle nevrosi, vorrei portarvi un esempio che, in verità, è completamente inventato, pur essendo verosimile da ogni punto di vista. Riferendomi a una farsa di Nestroy, lo intitolerò Al pianterreno e al primo piano. Al pianterreno vive il custode, al primo piano il padrone di casa, un uomo ricco e potente. Entrambi hanno figli, e noi supporremo che alla figlia del padrone di casa sia permesso di giocare incustodita con la bambina proletaria. Può succedere assai facilmente che i giochi delle bambine assumano un carattere sconveniente, ossia sessuale, che giochino a "papà e mamma", che si guardino l'un l'altra durante le funzioni intime e si stimolino i genitali. La figlia del custode, che nonostante i suoi cinque o sei anni di età ha avuto modo di osservare in più occasioni la sessualità degli adulti, può assumere in questa circostanza la parte della seduttrice. Anche se non durano a lungo, queste esperienze sono sufficienti ad attivare in entrambe le bambine certi impulsi sessuali, che, dopo la cessazione dei giochi in comune, possono manifestarsi per un certo numero di anni sotto forma di masturbazione. Fin qui ciò che le bambine hanno in comune; il risultato finale sarà invece molto diverso. La figlia del custode continuerà la masturbazione più o meno fino alla comparsa delle mestruazioni, e vi rinuncerà poi senza difficoltà; qualche anno più tardi si prenderà un amante, forse avrà anche un bambino, prenderà una strada o l'altra nella vita, che forse la porterà a diventare un'attrice popolare che finisce col diventare un'aristocratica. È verosimile che il suo destino sia - in effetti - meno brillante, ma comunque condurrà la sua vita senza risentire del prematuro esercizio della sua sessualità, esente da nevrosi. Non così la figlia del padrone di casa. Ella avrà ben presto, ancora bambina, il presentimento di aver commesso qualcosa che non andava fatto, rinuncerà in breve tempo, ma forse solo dopo una dura lotta, al soddisfacimento masturbatorio, e ciononostante conserverà nella sua natura un tratto di oppressione. Quando negli anni dell'adolescenza avrà l'opportunità di conoscere qualcosa riguardo i rapporti sessuali umani, se ne ritrarrà con inesplicata avversione e preferirà perseverare nella sua ignoranza. Probabilmente sarà sopraffatta dall'incontrollabile risorgente impulso a masturbarsi, del quale non oserà lamentarsi. Negli anni in cui, ormai donna, dovrebbe piacere a un uomo, esploderà in lei la nevrosi che la defrauderà del matrimonio e di tutte le sue speranze. Se, mediante l'analisi, si riuscirà a penetrare nel meccanismo di questa nevrosi, risulterà che questa ragazza ben educata, intelligente e di elevate aspirazioni ha completamente rimosso i suoi impulsi sessuali, ma che questi, senza che lei ne sia cosciente, sono rimasti ancorati alle rudimentali esperienze con la compagna di giochi della sua infanzia.

La diversità di questi due destini, benché l'esperienza sia la stessa, dipende dal fatto che l'Io dell'una è stato oggetto dì uno sviluppo che non ha avuto luogo nell'altra. L'attività sessuale è apparsa più tardi alla figlia del custode altrettanto naturale e ovvia che nell'infanzia. La figlia del padrone di casa ha invece subito l'influsso della educazione, accettandone le imposizioni. Il suo Io, condizionato dai precetti inculcatele, si è formato un ideale di purezza e di astinenza con cui l'attività sessuale risulta incompatibile; la sua educazione intellettuale ha diminuito il suo interesse per il ruolo femminile, al quale è destinata. Mediante tale superiore sviluppo morale e intellettuale del suo lo, si è trovata in conflitto con le esigenze della sua sessualità.

Oggi vorrei soffermarmi ancora su un secondo punto dello sviluppo dell’Io, sia per certi miei scopi, sia perché ciò che segue è idoneo a giustificare la netta e non ovvia distinzione – che mi sta a cuore – tra le pulsioni dell'Io e quelle sessuali. Nel giudicare i due sviluppi, quello dell'Io e quello della libido, dobbiamo soffermarci su un aspetto che fin qui non è stato spesso tenuto in considerazione. In fondo, entrambi sono eredità, ripetizioni in forma ridotta dell'evoluzione che l'intera umanità ha percorso dalle sue origini in un arco di tempo estremamente lungo. Intendo affermare che nello sviluppo della libido quest'origine filogenetica sia senz'altro accertabile. Pensate come in una classe di animali l'apparato genitale sia posto nella relazione più stretta con la bocca, in un'altra non possa essere distinto dall'apparato escretorio, e in altre ancora sia collegato agli organi motori - argomenti descritti in modo suggestivo nel prezioso libro di W. Bölsche. Negli animali si vedono tutte le specie di perversioni come cristallizzate in organizzazione sessuale. Nel caso dell'uomo, invece, il punto di vista filogenetico viene in parte offuscato dalla circostanza che ciò che in fondo è ereditario viene comunque acquisito ex novo nello sviluppo individuale, probabilmente per il fatto che sussistono e agiscono ancora su ogni individuo le stesse condizioni che hanno reso necessaria a suo tempo l'acquisizione. Direi che esse, a suo tempo, hanno agito in senso creativo, mentre ora agiscono in senso evocativo. Inoltre è indubitabile che il corso dello sviluppo prestabilito può essere disturbato e modificato in ogni singolo individuo dall'esterno ad opera di influssi recenti. Ma noi conosciamo questo potere che ha imposto all'umanità un simile sviluppo e mantiene tutt'oggi la sua pressione nella stessa direzione; è ancora una volta la frustrazione della realtà, oppure, volendole dare il suo nome esatto e importante, la necessità che domina la vita: anàgke. Essa è stata una severa educatrice e ha ottenuto molto da noi. I nevrotici fanno parte dei figli per i quali tale severità ha avuto risultati negativi, ma questo è un rischio che si deve correre in ogni educazione. Tra l'altro, tale valutazione della necessità vitale come motore dello sviluppo non necessariamente ci induce a prender posizione contro l'importanza delle "tendenze evolutive interne", se di esse può essere dimostrata l'esistenza.

Va rilevato il fatto che le pulsioni sessuali e di autoconservazione non si comportano allo stesso modo di fronte alle necessità che la realtà impone. Le pulsioni di autoconservazione, e tutto ciò è ad esse legato, sono più facili da educare, imparano presto ad adattarsi alla necessità e a regolare il loro sviluppo secondo i dettami della realtà. Ciò è comprensibile, dal momento che non possono procurarsi in alcun modo gli oggetti di cui hanno bisogno; senza tali oggetti l'individuo è destinato a soccombere. Le pulsioni sessuali sono più difficilmente educabili perché all'inizio non hanno bisogno di un oggetto. Poiché si appoggiano, in un certo senso da parassite, alle altre funzioni fisiologiche e si soddisfano autoeroticamente sul proprio corpo, esse sono in un primo tempo sottratte all'influsso educativo della necessità reale e mantengono per tutta la vita e nella maggior parte degli uomini, in qualsiasi modo, questo carattere di autonomia e refrattarietà, carattere che noi chiamiamo "irragionevolezza". Inoltre, normalmente l'educabilità dei giovani ha fine quando i loro bisogni sessuali si risvegliano in modo definitivo in tutta la loro intensità. Gli educatori lo sanno e si comportano di conseguenza; e non è escluso che i risultati della psicoanalisi li indurranno a spostare la pressione principale dell'educazione sui primi anni dell'infanzia, a partire dall'età dell'allattamento. Il bambino di quattro o cinque anni è spesso già compiuto e, in seguito, non fa altro che mettere in evidenza a poco a poco ciò che era già insito in lui.

Per apprezzare pienamente l'importanza della differenza indicata tra i due gruppi di pulsioni, dobbiamo fare riferimento a cose lontane e introdurre una di quelle considerazioni che meritano di essere definite economiche. Ci inoltriamo così in uno dei campi più importanti, ma purtroppo anche più oscuri, della psicoanalisi. La domanda che ci poniamo è se nel lavoro del nostro apparato psichico sia possibile riconoscere un'intenzione principale, e, in un primo avvicinamento al problema, rispondiamo che questa intenzione c'è ed è rivolta al conseguimento del piacere. Sembra che l'intera nostra attività psichica sia tesa a conseguire piacere e a evitare dispiacere, che essa venga automaticamente regolata dal principio del piacere. Ebbene, vorremmo sapere, a proposito di ogni cosa nel mondo, quali siano le condizioni per il sorgere del piacere e del dispiacere, ma è proprio ciò che ignoriamo. Possiamo spingerci ad affermare solo questo: che il piacere è legato in qualche modo alla diminuzione, alla riduzione o all'eliminazione della quantità di stimoli che operano nell'apparato psichico, mentre il dispiacere è legato a un suo incremento. L'esame del piacere più intenso accessibile all'uomo, il piacere legato al compimento dell'atto sessuale, lascia pochi dubbi su questo punto. Dal momento che questi processi inerenti al piacere concernono quantità di eccitamento psichico o di energia psichica, chiamiamo economiche considerazioni di tal genere. Notiamo che possiamo descrivere il compito e l'attività dell'apparato psichico anche in modo diverso e più generale dal porre l'accento sul conseguimento del piacere. Possiamo dire che l'apparato psichico serva allo scopo di padroneggiare e liquidare la massa di stimoli e l'insieme di eccitamenti che lo aggrediscono dall'esterno e dall'interno. Per quanto concerne le pulsioni sessuali, è senz'altro evidente che, dall'inizio alla fine del loro sviluppo, operano al fine di conseguire il piacere; esse conservano questa funzione originaria senza apportarle alcuna modifica. Inizialmente, anche le altre pulsioni, quelle dell'Io, aspirano allo stesso scopo, ma sotto l'influenza della necessità, maestra di vita, le pulsioni dell'Io imparano presto a sostituire il principio di piacere con una sua modificazione. Per esse il compito di evitare il dispiacere si pone quasi sullo stesso piano di quello del conseguimento del piacere; l'Io apprende che è inevitabile rinunciare al soddisfacimento immediato, rimandare il conseguimento del piacere, sopportare un po' di dispiacere e rinunciare totalmente a certe fonti dì piacere. Così educato, l'Io è divenuto "ragionevole", non si lascia più dominare dal principio di piacere, ma obbedisce al principio di realtà, che in fondo vuole anch'esso conseguire piacere, ma un piacere che, pur essendo rinviato nel tempo e più limitato, è garantito dalla considerazione della realtà.

Il passaggio dal principio di piacere a quello di realtà è uno dei progressi più importanti nello sviluppo dell'Io. Sappiamo già che le pulsioni sessuali percorrono tardi e solo con ritrosia questa parte dello sviluppo dell'Io; e in seguito apprenderete quali conseguenze abbia per l'uomo il fatto che la sua sessualità si accontenti di un rapporto così labile con la realtà esterna. Ora, per concludere, ancora un'osservazione che riguarda questo argomento. Se l'Io dell'uomo ha, così come la libido, il suo processo di sviluppo, non vi meraviglierà apprendere che esistono anche le "regressioni dell'Io"; e vorrete sapere anche quale ruolo possa svolgere nelle malattie nevrotiche questo ritorno dell'Io a fasi precedenti dello sviluppo.

Lezione 23. Le vie della formazione del sintomo

Signore e signori, per il profano sono i sintomi a costituire l'essenza della malattia e la guarigione è per lui l'eliminazione dei sintomi. Il medico mira a tener separati i sintomi dalla malattia e sostiene che l'eliminazione dei sintomi non è ancora la guarigione della malattia. Tuttavia, ciò che di tangibile resta della malattia, una volta eliminati i sintomi, è soltanto la capacità di formarne di nuovi. Perciò vogliamo porci, per ora, dal punto di vista del profano e ritenere che l'approfondimento dei sintomi equivalga alla comprensione della malattia.

I sintomi - qui ci occupiamo naturalmente di sintomi psichici (o psicogeni) e di malattie psichiche - sono, per la vita in generale, atti dannosi o quanto meno inutili, considerati spesso dal soggetto in modo negativo perché sgraditi e legati a dispiacere o sofferenza. Il loro principale danno consiste, da un lato, nel dispendio psichico che di per sé comportano, e, dall'altro, nel dispendio che si rende ulteriormente necessario per combatterli. Questi due costi, nel caso in cui la formazione di sintomi sia rilevante, possono avere come conseguenza uno straordinario impoverimento del malato, con riferimento all'energia psichica disponibile, e possono quindi paralizzarlo rispetto ai compiti importanti della vita. Poiché questo risultato dipende in primo luogo dalla quantità di energia che viene così assorbita, è facile riconoscere che "essere malati" è un concetto sostanzialmente pratico. Ma se vi ponete dal punto di vista della teoria e prescindete da questa quantità, potrete dire con facilità che tutti noi siamo malati, cioè nevrotici, perché anche nelle persone normali si possono riscontrare le condizioni per la formazione dei sintomi.

Sappiamo già che i sintomi nevrotici sono il risultato di un conflitto che sorge con riferimento a un nuovo modo di soddisfacimento della libido. Le due forze che si sono disgiunte s'incontrano nuovamente nel sintomo, si conciliano, per così dire, mediante il compromesso della formazione del sintomo. Anche per questo il sintomo è così resistente: viene sostituito da entrambe le parti.

Sappiamo anche che una delle due parti in conflitto è la libido insoddisfatta e respinta dalla realtà, che è ora costretta a cercare altre strade per il suo soddisfacimento. Se la realtà rimane irremovibile anche quando la libido è disposta ad accettare un altro oggetto al posto di quello che le è stato negato, quest'ultima sarà costretta, in fin dei conti, a intraprendere la strada della regressione e a perseguire il soddisfacimento in una delle organizzazioni già superate o mediante uno degli oggetti abbandonati in precedenza. La libido viene attirata sulla strada della regressione dalla fissazione che si è lasciata dietro in determinati punti del suo sviluppo.

In questo caso la strada che porta alla perversione si separa nettamente da quella che porta alla nevrosi. Se queste regressioni non suscitano l'opposizione dell'Io, non si arriva alla nevrosi e la libido giunge a un soddisfacimento reale qualsiasi, seppure non più normale. Se invece l'Io, che dispone non solo della coscienza, ma anche degli accessi all'innervazione motoria e quindi alla realizzazione delle aspirazioni psichiche, non è d'accordo con queste regressioni, sorge allora il conflitto. La libido è come tagliata fuori e deve cercare in qualche modo una via dì fuga, una strada in cui, conformandosi alle esigenze del principio di piacere, sìa possibile trovare uno sfogo per il proprio investimento di energia. La libido deve sottrarsi all'Io. Una simile via di fuga le è comunque consentita dalle fissazioni verificatesi nel corso del suo sviluppo, ora percorso regressivamente, fissazioni contro le quali l'Io si era protetto, a suo tempo, mediante rimozioni. Nel suo scorrere a ritroso, la libido, investendo queste posizioni rimosse, si è sottratta all'Io e alle sue leggi, rinunciando però nel contempo a tutta l'educazione acquisita sotto l'influsso di questo Io. Essa era docile, fintantoché era soddisfatta; sotto la duplice pressione della frustrazione interna ed esterna, si ribella e ricorda i tempi migliori del passato. Questo è il suo carattere, fondamentalmente immutabile. Le rappresentazioni su cui la libido trasferisce ora la sua energia sotto forma di investimento appartengono al sistema dell'inconscio e sottostanno ai processi che lì sono possibili, in particolare alla condensazione e allo spostamento. In tal modo si stabiliscono condizioni perfettamente paragonabili a quelle che si hanno nella formazione del sogno. Come al sogno vero e proprio giunto a compimento nell'inconscio - l'appagamento di una fantasia di desiderio inconscia - si contrappone una porzione di attività (pre)conscia, che esercita le funzioni di censura e, dopo essere stata messa a tacere, permette la formazione di un sogno manifesto come compromesso, così anche ciò che tiene il posto della libido nell'inconscio deve fare i conti con il potere dell'Io preconscio. L'opposizione che si era sollevata nell'Io contro di essa la incalza come "controinvestimento", e la costringe a scegliere quella forma espressiva che può diventare al contempo la sua propria espressione. Così il sintomo si forma come un derivato più volte deformato dell'inconscio appagamento libidico di desiderio, un'ambiguità scelta ad arte, avente due significati che si contraddicono completamente l'un l'altro. Ma, a questo punto, si può individuare una differenza tra la formazione del sogno e quella del sintomo. Nella formazione del sogno, infatti, l'intenzione preconscia tende solo a preservare il sonno, a non lasciar penetrare nella coscienza nulla che possa disturbarlo; ma non insiste nel gridare all'inconscio impulso di desiderio un risoluto: "No, al contrario!". Essa può essere tollerante, perché la situazione di colui che dorme è meno esposta a pericoli. Lo sbocco nella realtà è impedito dallo stesso stato di sonno.

Nelle situazioni di conflitto, come vedete, la via di fuga è consentita alla libido dalla presenza di fissazioni. L'investimento regressivo di tali fissazioni porta all'aggiramento della rimozione e a una scarica - o soddisfacimento - della libido in cui vanno rispettate le condizioni del compromesso. Passando ora per la via indiretta dell'inconscio e delle precedenti fissazioni, la libido è riuscita infine a farsi strada fino a un soddisfacimento reale, per quanto straordinariamente limitato e quasi irriconoscibile. Permettetemi di aggiungere due considerazioni su questo esito finale. In primo luogo, noterete come la libido e l'inconscio da una parte, e l'Io, la coscienza, e la realtà dall'altra, si mostrino intimamente connessi, pur non facendo parte in un primo tempo di un'unità. E tenete presente, inoltre, che tutto ciò che si è detto qui, e che ancora si dirà, si riferisce esclusivamente alla formazione di sintomi nella nevrosi isterica.

Dove trova quindi la libido le fissazioni di cui ha bisogno per aprirsi il varco attraverso le rimozioni? Nelle attività e nelle esperienze della sessualità infantile, nelle tendenze parziali [Partialbestrebungen] abbandonate, e negli oggetti dell'infanzia cui ha rinunciato. A essi, dunque, fa ritorno la libido. L'importanza di quest'epoca infantile è duplice: da una parte, si sono manifestati allora, per la prima volta, gli indirizzi pulsio-nali [Triebrichtungen] che il bambino portava in sé nella sua disposizione innata; dall'altra, si sono risvegliate pulsioni diverse da quelle congenite, attivate per la prima volta da influssi esterni e da episodi accidentali. Credo che non vi sia dubbio sul fatto di avere il diritto di stabilire tale bipartizione. L'affermazione della disposizione innata non è soggetta ad alcuna perplessità critica; ma l'esperienza analitica ci obbliga anche a supporre che episodi puramente casuali dell'infanzia siano in grado di lasciarsi alle spalle fissazioni della libido. In ciò non vedo alcuna difficoltà teorica. Anche le disposizioni costituzionali sono di certo effetti postumi delle esperienze di lontani antenati, anch'esse sono state acquisite, e senza tale acquisizione non vi sarebbe eredità. Ed è concepibile che tale acquisizione destinata all'ereditarietà abbia fine proprio nella generazione da noi considerata? L'importanza delle esperienze infantili, dunque, non dovrebbe essere trascurata del tutto, come di regola si preferisce fare, a vantaggio delle esperienze degli antenati e della propria maturità; al contrario, dovrebbe essere presa in particolare considerazione. Le esperienze infantili sono tanto più dense di conseguenze in quanto si verificano in epoche di sviluppo incompleto, e proprio per questa circostanza possono agire in senso traumatico. I lavori di Roux e altri sulla meccanica dello sviluppo ci hanno mostrato che una puntura di spillo in uno strato germinale in fase di riproduzione per divisione cellulare ha come conseguenza un grave disturbo dello sviluppo. La stessa lesione, inferta alla larva o all'animale completo, sarebbe tollerata senza danno.

La fissazione libidica dell'adulto, che abbiamo introdotto come rappresentante del fattore costituzionale nell'equazione eziologica delle nevrosi, si scompone per noi ora in due ulteriori fattori: la disposizione ereditata [erette Anlage] e la disposizione [Disposìtion] acquisita nella prima infanzia. Sappiamo che gli schemi sono utili a chi studia. Riassumiamo quindi la situazione in uno schema:

Cause della nevrosi = Disposizione dovuta alla + Esperienza accidentale fissazione della libido               (traumatica)

 

 


              Costituzione sessuale                                     Esperienza infantile

             (esperienza preistorica)

 

La costituzione sessuale ereditaria ci offre una grande varietà di disposizioni, a seconda che questa o quella pulsione parziale, di per sé sola o unitamente ad altre, sia dotata di particolare intensità. La costituzione sessuale, a sua volta, forma con il fattore dell'esperienza infantile una "serie complementare" [Ergänzungsreihe] del tutto simile a quella, da noi conosciuta per prima, in cui si combinano disposizione ed esperienza accidentale dell'adulto. Qui come là si trovano gli stessi casi estremi e le medesime relazioni tra gli elementi presenti. Si pone quindi facilmente l'interrogativo se la più appariscente fra le regressioni della libido, quella a stadi precedenti dell'organizzazione sessuale, non sia condizionata prevalentemente dal fattore costituzionale ereditario; ma sarà meglio rimandare la risposta a questo interrogativo al momento in cui potremo prendere in considerazione una serie più ampia di manifestazioni morbose di natura nevrotica.

Soffermiamoci ora sul fatto che l'indagine analitica mostra la libido dei nevrotici legata alle loro esperienze sessuali infantili. Esse appaiono in tal modo enormemente importanti per la vita e per la malattia dell'uomo. E tale importanza si conserva inalterata sotto il profilo del lavoro terapeutico. Ma prescindendo da tale ambito, ci è facile riconoscere che vi è qui il pericolo di un malinteso, il quale potrebbe indurci a considerare la vita, sulla base della situazione nevrotica, in maniera eccessivamente unilaterale. Non si può non detrarre dall'importanza delle esperienze infantili il fatto che la libido è ritornata a esse regressivamente, dopo essere stata cacciata dalle sue posizioni successive. Ma allora, sembra plausibile la conclusione opposta, e cioè che le esperienze libidiche non hanno avuto a suo tempo alcuna importanza, ma l'hanno acquisita solo regressivamente. Ricordate che abbiamo già preso posizione, di fronte a un'alternativa simile, quando abbiamo discusso il complesso edipico.

Anche stavolta, la decisione non sarà difficile. L'osservazione che l'investimento libidico - e quindi il significato patogeno - delle esperienze infantili è stato rafforzato in gran parte dalla regressione della libido è senz'altro fondata, ma ci indurrebbe in errore se ne facessimo l'unica osservazione determinante. Devono essere tenute in conto altre considerazioni. Anzitutto, l'osservazione ci mostra, in modo inequivocabile, che le esperienze infantili hanno un'importanza di per sé, che manifestano già negli anni dell'infanzia. Esistono anche nevrosi infantili, nelle quali il fattore della retrocessione nel tempo è necessariamente molto ridotto, o manca del tutto, in quanto l'insorgere della malattia segue immediatamente le esperienze traumatiche. Lo studio di queste nevrosi infantili ci preserva da più di un pericoloso malinteso circa le nevrosi degli adulti, così come i sogni dei bambini ci hanno dato la chiave per comprendere i sogni degli adulti. Ebbene, le nevrosi dei bambini sono molto frequenti molto più frequenti di quanto si creda. Spesso passano inosservate vengono giudicate come segno di malvagità o maleducazione, spesso vengono anche tenute a freno dall'autorità dei grandi; comunque a un esame retrospettivo, sono sempre facilmente riconoscibili. Esse si presentano il più delle volte in forma di isteria d'angoscia [Angisthysterie}. Che cosa ciò significhi lo apprenderete in un'altra occasione Se in epoche successive scoppia una nevrosi, essa si rivela, di regola, mediante l'analisi la diretta continuazione della malattia infantile che si era manifestata forse solo in forma enigmatica e allusiva. Ma, come abbiamo detto, vi sono casi in cui questo nervosismo infantile si protrae senza interruzione in uno stato morboso che dura tutta la vita. Abbiamo potuto analizzare qualche raro esempio di nevrosi infantile nel corso dell'infanzia stessa - in stato di attualità - ma molto più spesso abbiamo invece dovuto accontentarci che l'ammalato in età matura ci permettesse uno sguardo retrospettivo sulla sua nevrosi infantile, e in questi casi non abbiamo potuto fare a meno di determinati aggiustamenti e cautele. In secondo luogo dobbiamo pur dire che sarebbe inconcepibile che la libido regredisse così, di regola, a epoche dell'infanzia, se non ci fosse là qualcosa in grado di esercitare un'attrazione su di essa. La fissazione, che supponiamo abbia avuto luogo in singoli punti del cammino evolutivo significa qualcosa solo se la facciamo consistere nell'immobilizzazione di un certo quantitativo di energia libidica. Vi faccio presente, infine che tra l'intensità e l'importanza patogena delle esperienze infantili e di quelle successive esiste un rapporto di complementarietà simile a quello delle serie precedentemente studiate. Ci sono casi in cui tutto il peso della causazione ricade sulle esperienze sessuali dell'infanzia, in cui queste impressioni manifestano un effetto sicuramente traumatico e non hanno bisogno in ciò di alcun altro sostegno, tranne quello che possono offrire loro la costituzione sessuale media e un suo sviluppo incompiuto Accanto a questi, ce ne sono altri ove l'accento è posto tutto sui conflitti successivi e il rilievo che nell'analisi hanno le impressioni infantili appare esclusivamente opera della regressione. Dunque, abbiamo da una parte la "inibizione evolutiva" [Entwicklungshemmung] e dall'altra la "regressione" e, tra questi due estremi, tutte le possibili combinazioni in cui tali fattori agiscono congiuntamente.

Questi rapporti hanno un certo interesse per la pedagogia, che si propone la prevenzione delle nevrosi intervenendo per tempo nello sviluppo sessuale del bambino. Fin quando l'educatore rivolge la propria attenzione prevalentemente alle esperienze sessuali infantili, riterrà di aver fatto tutto il possibile per la profilassi delle malattie nervose se sarà riuscito a dilazionare lo sviluppo del bambino e a risparmiargli esperienze del genere. Ma sappiamo già che le condizioni che determinano la nevrosi sono complicate e non possono essere influenzate, in genere, tenendo conto di un unico fattore. La severa protezione dell'infanzia perde valore perché è impotente di fronte al fattore costituzionale; inoltre, è più difficile da realizzare di quanto gli educatori immaginino e implica due ulteriori pericoli che non vanno sottovalutati: il rischio che

essa sia troppo efficace, ovvero favorisca un eccesso di rimozione sessuale nocivo per il futuro, e il rischio di immettere il bambino nella vita completamente disarmato rispetto all'assalto delle esigenze sessuali che insorgeranno nella pubertà. Rimane estremamente dubbio, così, fino a che punto la profilassi attuata nell'infanzia possa risultare vantaggiosa, e ci si può porre l'interrogativo se un diverso atteggiamento di fronte a questa situazione non costituisca, in fondo, un modo migliore di affrontare la prevenzione delle nevrosi.

Ritorniamo ora ai sintomi. Essi creano dunque un sostituto per il soddisfacimento frustrato mediante una regressione della libido a epoche precedenti, e a ciò è inseparabilmente congiunto il ritorno a precedenti stadi di sviluppo della scelta oggettuale o dell'organizzazione sessuale. Abbiamo già visto che il nevrotico rimane ancorato a un qualche punto del suo passato; ora sappiamo che c'è un periodo di questo passato in cui alla sua libido non mancò il soddisfacimento, in cui il malato fu felice. Egli cerca nella storia della sua vita finché trova un tale periodo -dovesse pur risalire fino al tempo in cui era lattante - così come egli se lo ricorda o come se lo immagina in base a successivi suggerimenti. In un certo qual modo il sintomo ripete quel tipo di soddisfacimento della prima infanzia, deformato dalla censura che deriva dal conflitto, tramutato di regola in sensazione di sofferenza e mescolato a elementi provenienti dal motivo occasionale della malattia. Il tipo di soddisfacimento apportato dal sintomo ha in sé molte cose strane. Prescindiamo dal fatto che esso non è riconoscibile come tale dalla persona in questione, la quale percepisce e lamenta il preteso soddisfacimento piuttosto come sofferenza. Questa trasformazione in sofferenza è opera del conflitto psichico, sotto la cui pressione il sintomo è stato costretto a formarsi. Ciò che una volta era per l'individuo soddisfacimento, dunque, deve necessariamente suscitare oggi resistenza o repulsione. Conosciamo un esempio, poco appariscente ma istruttivo, di tale mutamento di senso. Lo stesso bambino, che ha succhiato con avidità il latte dal seno materno, manifesta solitamente alcuni anni dopo una forte avversione per il latte, che l'educazione ha difficoltà a superare. Questa avversione cresce sino alla ripugnanza, se il latte o la bevanda con esso mescolata sono ricoperti da una pellicola: non è da escludere che questa pellicola evochi il ricordo del seno materno, una volta così ardentemente desiderato. Ricordiamo, in ogni caso, che nel frattempo si è verificata l'esperienza dello svezzamento, con il suo effetto traumatico.

Ma è qualcos'altro che fa sì che i sintomi ci appaiano strani, e incomprensibili come mezzi di soddisfacimento libidico. Essi non hanno nulla in comune con ciò da cui normalmente siamo soliti aspettarci un soddisfacimento. Il più delle volte prescindono dall'oggetto e rinunciano così a ogni relazione con la realtà esterna. Spieghiamo questo fatto come conseguenza del distacco dal principio di realtà e del ritorno al principio di piacere. Ma è anche un ritorno a una specie di autoerotismo ampliato, simile a quello che offrì i primi soddisfacimenti alla pulsione sessuale. I sintomi sostituiscono un cambiamento del mondo esterno con un'alterazione del corpo, mettono quindi un'azione interna al posto di una  esterna, un adattamento invece di un'azione, cosa che corrisponde ancora una volta a una regressione estremamente significativa dal punto di vista filogenetico. Comprenderemo tutto questo soltanto ponendolo in relazione con una novità che ancora ci riservano le indagini analitiche sulla formazione dei sintomi. Inoltre non dimentichiamo che a questa formazione dei sintomi hanno partecipato gli stessi processi dell'inconscio che si sono verificati nella formazione del sogno, cioè la condensazione e lo spostamento. Come il sogno, il sintomo raffigura qualcosa come appagato, un soddisfacimento alla maniera infantile; ma questo soddisfacimento può essere compresso, mediante condensazione massima, in un'unica sensazione o innervazione, ed essere limitato, mediante spostamento estremo, a un piccolo particolare dell'intero complesso libidico. Non c'è da stupirsi se noi stessi abbiamo spesso difficoltà a riconoscere nel sintomo il soddisfacimento libidico che avevamo supposto e di cui troviamo ogni volta conferma.

Vi ho annunciato che abbiamo ancora qualcosa di nuovo da scoprire; si tratta, in realtà, di una cosa sorprendente e sconcertante. Mediante l'analisi, come sapete, a partire dai sintomi, veniamo a conoscere le esperienze infantili alle quali è fissata la libido e a partire dalle quali essi vengono costruiti. La cosa sorprendente consiste nel fatto che non sempre queste scene infantili sono vere. Anzi, non lo sono nella maggioranza dei casi, e in casi singoli si trovano in opposizione diretta alla verità storica. Comprendete che questa scoperta, meglio di qualunque altra, è adatta a screditare o l'analisi, che ha portato a tale risultato, o gli ammalati, sulle cui dichiarazioni è fondata l'analisi, nonché la comprensione delle nevrosi nel suo insieme. In questo vi è inoltre qualcosa di enormemente sconcertante.

Se gli episodi infantili portati alla luce dall'analisi fossero sempre reali, avremmo la sensazione di muoverci su un terreno sicuro. Se fossero di regola falsati, se si rivelassero invenzioni, fantasie dell'ammalato, dovremmo abbandonare questo terreno malfermo e metterci in salvo altrove. Le cose, invece, non stanno né in un modo né nell'altro, bensì è dimostrabile che gli episodi infantili costruiti o ricordati nell'analisi alcune volte sono senza dubbio falsi, altre invece altrettanto sicuramente veri e, nella maggior parte dei casi, un misto di vero e di falso. I sintomi sono dunque, in un caso, la rappresentazione di episodi che hanno realmente avuto luogo e ai quali si può attribuire un influsso sulla fissazione della libido; in un altro, fantasie dell'ammalato, che naturalmente non sono per nulla adatte a svolgere un ruolo eziologico. In un tale contesto è arduo orientarsi. Un primo punto di riferimento può forse essere trovato in un'altra scoperta simile, e cioè che i singoli ricordi dell'infanzia, che gli uomini hanno in sé consciamente, da tempo immemorabile e prima di ogni analisi, possono ugualmente essere falsati o, quanto meno, possono mescolare ampiamente il vero con il falso. Raramente è difficile dimostrare la loro inesattezza; abbiamo così almeno l'assicurazione che non sia l'analisi ad essere responsabile di questa nostra inaspettata delusione, bensì in qualche modo gli ammalati.

È sufficiente riflettere un momento per comprendere che cosa ci sconcerta in questa situazione. Si tratta del fatto che la realtà sia tenuta scarsamente in considerazione, che venga ignorata la differenza tra realtà e fantasia. Siamo tentati di offenderci perché il paziente ci ha fatto perdere del tempo raccontandoci delle storie. La realtà ci appare come qualcosa di infinitamente diverso dall'invenzione e gode presso di noi di tutt'altra valutazione. Del resto, anche il malato vede le cose in tal modo nel suo pensiero normale.

Quando il paziente ci presenta quel materiale che dietro ai sintomi rivela le situazioni di desiderio modellate sull'esempio delle esperienze infantili, all'inizio ci sorge il dubbio se si tratti di realtà o di fantasie. In seguito la decisione ci è resa possibile da certi segni caratteristici, e ci troviamo di fronte al compito di renderli noti anche al paziente. Ciò, tuttavia, non avviene mai senza difficoltà. Se gli sveliamo subito che è in procinto di manifestare le fantasie con le quali ha avvolto la storia della sua infanzia - come ogni popolo elabora leggende sui tempi remoti che ha dimenticato -, notiamo che all'improvviso il suo interesse a proseguire l'argomento diminuisce in misura inaspettata.

Anch'egli vuole apprendere fatti reali e disprezza tutte le "immaginazioni". Se invece gli lasciamo credere, fino al compimento di questa parte del lavoro, che ci stiamo occupando d'indagare gli avvenimenti reali degli anni della sua infanzia, rischiamo che più tardi ci rinfacci di esserci sbagliati e ci derida per la nostra apparente ingenuità nel credere. Per molto tempo non prende sul serio la nostra proposta di equiparare fantasia e realtà e di non curarci inizialmente se gli episodi infantili da chiarire siano l'una o l'altra cosa. Eppure questo è evidentemente l'unico atteggiamento corretto di fronte a tali produzioni psichiche. Anche queste possiedono una specie di realtà; il fatto che il malato si sia creato tali fantasie ha per la sua nevrosi un'importanza di poco inferiore che se egli avesse realmente vissuto ciò che esse contengono. Queste fantasie possiedono una realtà psichica in contrapposizione a quella materiale, e noi giungiamo a poco a poco a capire che nel mondo delle nevrosi la realtà psichica è quella determinante.

Tra gli avvenimenti che ricorrono continuamente, e sembrano quasi immancabili nella storia giovanile dei nevrotici, alcuni sono di particolare importanza e pertanto anche degni - ritengo - di esser posti in maggior rilievo rispetto ad altri. Quali esempi emblematici di questa specie vi enumererò: l'osservazione del rapporto sessuale tra i genitori, la seduzione da parte di una persona adulta e la minaccia di castrazione. Sarebbe un grave errore supporre che a essi non vada mai attribuita una realtà materiale; al contrario, questa è spesso dimostrabile senz'ombra di dubbio indagando presso congiunti più anziani. Così, ad esempio, non è affatto raro che al bambino che prende il vizio di giocare con il suo membro e non sa ancora che tale occupazione va tenuta nascosta venga minacciato, dai genitori o da chi ha cura di lui, che gli si taglierà il membro o la mano che ha commesso il peccato. Interrogati, i genitori confessano spesso di aver creduto di agire, con tale intimidazione, in modo opportuno; alcuni soggetti hanno un ricordo preciso, cosciente, di questa minaccia, particolarmente quando è stata subita in età un po' più avanzata. Se è la madre o un'altra persona di sesso femminile a esprimere la minaccia, di solito ne deferisce l'esecuzione al padre o al... medico. Nel noto Struwwelpeter di Heinrich Hoffmann1, pediatra di Francoforte, che deve la sua popolarità proprio alla comprensione dei complessi - sessuali e non - dell'età infantile, trovate la castrazione attenuata, sostituita con la recisione dei pollici come punizione per l'ostinazione a ciucciarli. Ma è estremamente improbabile che la minaccia di castrazione sia fatta ai bambini tanto spesso quanto risulta nelle analisi dei nevrotici. Su questo punto ci basti sapere che il bambino mette insieme nella fantasia una simile minaccia in base ad allusioni, con l'aiuto della conoscenza che il soddisfacimento autoerotico è proibito, e impressionato dalla scoperta del genitale femminile. Non è ugualmente escluso in alcun modo che il bambino piccolo, poiché non gli si attribuisce alcuna capacità di comprendere e alcuna memoria, diventi testimone anche in famiglie non proletarie di un atto sessuale tra i genitori o tra altri adulti, e non si può negare che, retrospettivamente, egli possa comprendere questa impressione e reagire ad essa. Quando però questo rapporto viene descritto con i dettagli più esaustivi, che sono difficili da osservare, oppure quando, come nella maggior parte dei casi, esso risulta essere un rapporto da dietro, more ferarum, non rimane alcun dubbio che questa fantasia è basata sull'osservazione del rapporto tra animali (cani) ed è motivata dal piacere di guardare insoddisfatto, proprio del fanciullo negli anni della pubertà. La produzione estrema di questo genere di fantasie è l'affermazione di aver osservato il coito dei genitori mentre ancora ci si trovava nel grembo materno. Particolare interesse ha la fantasia della seduzione, perché fin troppo spesso non è una fantasia, ma un ricordo reale. Fortunatamente però essa non è reale così spesso come i risultati dell'analisi sembravano provare all'inizio. La seduzione ad opera di bambini più grandi o coetanei è comunque più frequente di quella da parte di adulti, e se, nel caso di ragazze che riferiscono un fatto simile nella storia della loro infanzia, il padre compare abbastanza spesso come seduttore, non ci può essere alcun dubbio né sulla natura fantastica di questa accusa né sul motivo che ha spinto a farla. Di solito, quando non vi è stata alcuna seduzione, il bambino copre con la fantasia di seduzione il periodo autoerotico della sua attività sessuale. Egli si risparmia la vergogna che gli procura la masturbazione, fantasticando retrospettivamente un oggetto desiderato in quell'epoca lontanissima. Non crediate, del resto, che l'abuso del bambino ad opera dei parenti prossimi di sesso maschile appartenga interamente al regno della fantasia. La maggior parte degli analisti ha trattato casi in cui tali rapporti erano reali e potevano essere accertati in modo indiscutibile; ma è pur vero che anche allora essi appartenevano ad anni successivi dell'infanzia ed erano stati trasferiti in un periodo precedente.

Si ha sempre l'impressione che tali avvenimenti infantili siano in qualche modo reclamati come qualcosa di necessario, appartenente al nucleo essenziale della nevrosi. Se fanno parte della realtà, tanto meglio; se la realtà non li ha forniti, allora vengono elaborati in base ad accenni e completati con la fantasia. Il risultato è identico, e fino ad oggi non siamo riusciti a dimostrare una diversità di conseguenze a seconda che la parte maggiore in questi avvenimenti infantili spetti alla fantasia oppure alla realtà. C'è qui, semplicemente, un altro dei tanto spesso menzionati rapporti di complementarietà; il più strano, in vero, tra tutti quelli di cui siamo venuti a conoscenza. Da dove provengono il bisogno di queste fantasie e il materiale per esse? Sul fatto che provengano da fonti pulsionali non possono certo esservi dubbi, ma è opportuno spiegare perché vengano create ogni volta le medesime fantasie con lo stesso contenuto. Ho qui pronta una risposta che so già vi apparirà azzardata. Reputo che queste fantasie primarie [Urphantasien] - così vorrei chiamarle, e di certo insieme ad alcune altre - siano un patrimonio filogenetico. In esse l'individuo, scavalcando la propria esperienza, attinge all'esperienza della preistoria, là dove la propria storia è troppo rudimentale. Mi sembra del tutto plausibile che tutto quanto oggi ci viene raccontato nell'analisi come fantasia - la seduzione di bambini, l'accendersi dell'eccitamento sessuale osservando i rapporti tra i genitori, la minaccia di castrazione (o, piuttosto, la castrazione stessa) - sia stato una volta realtà nei primordi della famiglia umana, e che il bambino, fantasticando, abbia semplicemente colmato le lacune della verità individuale con la verità preistorica. Ci è venuto ripetutamente il sospetto che la psicologia delle nevrosi ci abbia conservato, più di tutte le altre fonti, antiche testimonianze dell'evoluzione umana.

Signori, le cose appena discusse ci costringono ad addentrarci più a fondo nell'origine e nell'importanza di quell'attività dello spirito che viene chiamata "fantasia". Com'è noto, essa gode universalmente di un'alta considerazione pur non essendo stata chiarita la sua posizione nella vita psichica. In proposito posso dirvi quanto segue. Come sapete, l'Io dell'uomo viene lentamente educato, sotto l'incalzare della necessità esterna, ad apprezzare la realtà e a uniformarsi al principio di realtà, e deve rinunciare, nel far questo, temporaneamente o durevolmente, a diversi oggetti e mete cui aspira il suo piacere, non solo quello sessuale. Tuttavia la rinuncia al piacere è sempre riuscita difficile all'uomo, il quale non si adatta a essa senza una compensazione di qualche tipo. Egli si è riservato dunque un'attività psichica nella quale è concessa un'esistenza ulteriore a tutte queste fonti di piacere e vie per conseguirlo cui ha dovuto rinunciare, una forma di esistenza nella quale esse sono lasciate libere dalle esigenze della realtà e da ciò che chiamiamo "esame di realtà" [Realitàtspriifung]. Ogni aspirazione raggiunge ben presto la forma di un'immagine di appagamento; non v'è dubbio che soffermarsi su appagamenti di desiderio fantastici comporti una soddisfazione, sebbene la consapevolezza che non si tratta di realtà non ne risulta turbata. Nell'attività della fantasia l'uomo continua dunque a godere di quella libertà dalla costrizione esterna alla quale ha rinunciato da lungo tempo nella realtà. Egli ha trovato il modo di essere, alternativamente, ora un animale teso al piacere, ora un essere ragionevole. L'uomo infatti non riesce a cavarsela con la scarsa soddisfazione che può carpire alla realtà. «Impossibile farcela senza costruzioni ausiliarie», ha detto una volta Theodor Fontane. La creazione del regno psichico della fantasia trova pieno riscontro nell'istituzione di "riserve", di "parchi per la protezione della natura", là dove le esigenze dell'agricoltura, delle comunicazioni e dell'industria minacciano di cambiare rapidamente l'aspetto originario della Terra fino a renderla irriconoscibile. Il parco per la protezione della natura conserva l'antico assetto, che altrove è stato sacrificato ovunque, con rincrescimento, alla necessità. Tutto vi può crescere e proliferare come vuole, anche l'inutile, perfino il nocivo. Anche il regno psichico della fantasia è una riserva di questo tipo, sottratta al principio di realtà.

Le più note produzioni della fantasia sono i cosiddetti "sogni a occhi aperti", che già conosciamo, soddisfacimenti immaginari di desideri ambiziosi, megalomani ed erotici, che crescono tanto più rigogliosi quanto più la realtà ammonisce alla moderazione o alla pazienza. L'essenza della felicità generata dalla fantasia - poter di nuovo conseguire il piacere, liberi dal beneplacito della realtà - vi si manifesta in maniera inconfondibile. Noi sappiamo che tali sogni a occhi aperti sono il nucleo e il prototipo dei sogni notturni. Il sogno notturno, in fondo, non è altro che un sogno diurno divenuto accessibile, perché di notte le pulsioni sono libere di scatenarsi, e alterato a causa della forma che di notte assume l'attività psichica. Abbiamo già familiarizzato con l'idea che anche un sogno a occhi aperti non è necessariamente cosciente, che ci sono anche sogni a occhi aperti inconsci. Tali sogni diurni inconsci sono dunque la fonte tanto dei sogni notturni quanto dei sintomi nevrotici.

La seguente comunicazione vi chiarirà l'importanza della fantasia per la formazione dei sintomi. Abbiamo detto che in caso di frustrazione la libido investe regressivamente le posizioni da essa abbandonate, alle quali tuttavia è rimasta attaccata in certi importi. Non ritratteremo né rettificheremo tale affermazione, nella quale va però inserito un elemento. Come trova la libido la strada verso questi punti di fissazione? Ebbene, tutti gli oggetti e gli orientamenti abbandonati dalla libido non sono stati ancora abbandonati in ogni senso. Essi, o i loro derivati, vengono ancora trattenuti con una certa intensità nelle rappresentazioni della fantasia. È sufficiente dunque che la libido si ritiri nelle fantasie perché a partire da esse trovi via libera a tutte le fissazioni rimosse. Tali fantasie hanno goduto di una certa tolleranza; tra esse e l'Io, per quanto aspri potessero essere i contrasti, non si è giunti a un conflitto fintantoché ne è stata rispettata una certa condizione. Una condizione di natura quantitativa, che ora viene turbata dal riflusso della libido sulle fantasie. A causa di questo sovrappiù, l'investimento energetico delle fantasie cresce al punto che esse diventano esigenti, sviluppano una spinta in direzione della realizzazione. Ma ciò rende inevitabile il conflitto tra esse e l'Io. A prescindere dal fatto che, in precedenza, fossero preconsce o consce, esse subiscono ora la rimozione da parte dell'Io e sono lasciate in balia dell'attrazione esercitata dall'inconscio. Dalle fantasie ora divenute inconsce, la libido ritorna alle loro origini nell'inconscio, ossia ai suoi stessi punti di fissazione.

La retrocessione della libido sulla fantasia è una tappa intermedia nella strada verso la formazione dei sintomi, che ben merita una particolare denominazione. C. G. Jung ha coniato per essa il termine assolutamente appropriato di introversione [Introversion], ma lo ha impropriamente usato anche con altro significato. Noi ci atterremo all'accezione secondo cui "introversione" designa sia il distacco della libido dalle possibilità di un soddisfacimento reale, sia il sovrainvestimento di fantasie fino ad allora tollerate come innocue. Un introverso non è ancora un nevrotico, ma si trova in una situazione labile; al successivo spostamento di forze dovrà sviluppare dei sintomi se non trova altri sbocchi per la sua libido ingorgata. Il carattere irreale del soddisfacimento nevrotico, e il trascurare la differenza tra fantasia e realtà, sono invece già determinati dal fatto che ci si sofferma nello stadio dell'introversione.

Di certo avete notato che nelle ultime discussioni ho introdotto un nuovo fattore nella compagine della concatenazione eziologica, ossia la quantità, la grandezza delle energie che entrano in gioco. Dobbiamo sempre tener conto di questo fattore. Non ci è sufficiente un'analisi puramente qualitativa delle condizioni eziologiche. O, detto in altri termini, non basta una concezione puramente dinamica di questi processi psichici: occorre anche il punto di vista economico. Dobbiamo dirci che il conflitto tra due tendenze non scoppia, per quanto le condizioni relative al contenuto siano presenti da lungo tempo, se non sono raggiunte certe intensità d'investimento. Allo stesso modo, il significato patogeno dei fattori costituzionali varia a seconda che nella disposizione sia maggiormente presente una data pulsione parziale piuttosto che un'altra. Si può addirittura immaginare che le disposizioni di tutti gli uomini siano qualitativamente affini e si distinguano solo per questi rapporti quantitativi. Non meno decisivo è il fattore quantitativo in relazione alla capacità di resistenza nei confronti della malattia nevrotica. Ciò che conta è quale importo di libido inutilizzata una persona è capace di tenere in sospeso e quanto grande è la frazione della sua libido che essa è in grado di convogliare dalla sessualità verso le mete della sublimazione. La meta ultima dell'attività psichica, meta che qualitativamente può essere descritta come tendenza a conseguire piacere e a evitare dispiacere, considerata dal punto di vista economico, si presenta invece come il compito di dominare le quantità di eccitamento (la massa di stimoli) operanti nell'apparato psichico e di impedirne l'ingorgo che genera dispiacere.

Ciò è dunque quanto intendevo dirvi sulla formazione dei sintomi nelle nevrosi. Ma non intendo omettere di sottolineare chiaramente, ancora una volta, che tutto quanto è stato detto qui si riferisce solo alla formazione dei sintomi nell'isteria.

Già nella nevrosi ossessiva - pur rimanendo inalterato ciò che è essenziale - si possono riscontrare molte cose diverse. I controinvestimenti che agiscono in senso contrario alle esigenze pulsionali (di essi abbiamo parlato anche in relazione all'isteria) irrompono nella nevrosi ossessiva e dominano il quadro clinico con le cosiddette "formazioni reattive" [Reaktionsbildungen]. Divergenze analoghe e ancora più profonde si scoprono nelle altre nevrosi, ove le ricerche sui meccanismi della formazione dei sintomi non sono ancora, in alcun punto, giunte a conclusione.

Prima di congedarvi per oggi, vorrei per un istante richiamare la vostra attenzione su un aspetto della vita fantastica degno di assoluto interesse. C'è un modo per ritornare dalla fantasia alla realtà, e questo modo è l'arte. Anche l'artista è in nuce un introverso, non molto distante dal nevrotico. Spinto da fortissimi bisogni pulsionali, vorrebbe conquistare onore, potenza, ricchezza, gloria e amore da parte delle donne; gli mancano però i mezzi per raggiungere queste soddisfazioni. Perciò, come un qualsiasi altro insoddisfatto, egli si distacca dalla realtà e trasferisce tutto il suo interesse, nonché la sua libido, sulle formazioni di desiderio della vita fantastica, dalle quali potrebbe essere condotto alla nevrosi. È anzi necessario il concorso di parecchi fattori affinché questo non diventi l'esito del suo sviluppo; tutti sappiamo quanto spesso proprio gli artisti soffrano, a causa della nevrosi, di una parziale inibizione della loro capacità di produrre. Probabilmente la loro costituzione possiede una forte capacità di sublimazione e una certa labilità quanto a rimozioni che determinano il conflitto. Un artista, però, trova la via di ritorno alla realtà nel modo seguente. Egli non è certo l'unico ad avere una vita di fantasia. Il regno intermedio della fantasia è accessibile a tutti per generale consenso, e chiunque soffra di privazioni si aspetta da esso sollievo e conforto. Ma per coloro che non sono artisti la quantità di piacere che possono ricavare dalle fonti della fantasia è molto limitata. L'inesorabilità delle loro rimozioni li costringe ad accontentarsi di quei miseri sogni a occhi aperti che riescono ancora a divenire coscienti. Se uno è un vero artista dispone di qualcosa in più. In primo luogo, sa elaborare i propri sogni a occhi aperti in modo che essi perdano gli elementi troppo personali e diventino godibili anche per gli altri. Sa inoltre attenuarli al punto che essi non tradiscano facilmente la loro origine dalle fonti proibite. Possiede inoltre il misterioso potere di plasmare un certo materiale fino a renderlo la fedele immagine della sua rappresentazione fantastica, e sa poi legare a questa raffigurazione della sua fantasia inconscia un tale conseguimento di piacere che le rimozioni ne vengono, almeno temporaneamente, sopraffatte e abolite. Se è in grado di fare tutto ciò, egli offre agli altri la possibilità di attingere nuovamente conforto e sollievo dalle fonti di piacere ormai inaccessibili del loro inconscio; conquista la loro riconoscenza e ammirazione, e ottiene, ora, per mezzo della sua fantasia, ciò che prima aveva raggiunto solo nella sua fantasia: onore, potenza e amore.

Lezione 24. Il nervosismo comune

Signore e signori, dopo che nelle ultime lezioni siamo venuti a capo di una parte così difficile del nostro lavoro, abbandonerò per un po' l'argomento e di rivolgermi a voi.

So infatti che siete scontenti. Vi eravate immaginati diversamente una "Introduzione alla psicoanalisi". Vi aspettavate di ascoltare esempi vivi, non teoria. Intendete dirmi che quella volta, quando vi raccontai la parabola di Al pianterreno e al primo piano, avevate compreso qualcosa delle cause delle nevrosi, anche se avreste voluto che fossero osservazioni reali e non storie inventate; oppure che quando all'inizio vi descrissi due sintomi - non inventati, questi, si spera - e ne sviluppai la soluzione e il rapporto con la vita delle malate, vi fu chiaro il "senso" dei sintomi. Speravate che proseguissi in questo modo. Vi ho offerto, invece, teorie estremamente ampie, difficili da comprendere, che non erano mai complete, alle quali si aggiungeva sempre qualcosa di nuovo; ho lavorato con concetti che non vi avevo ancora presentato; sono passato da un'esposizione descrittiva a una concezione dinamica, da questa a una concezione cosiddetta "economica"; vi ho reso difficile comprendere quanti, dei termini tecnici impiegati, significhino la stessa cosa e si alternino a vicenda solo per ragioni di eufonia; vi ho presentato tesi grandiose quali i princìpi di piacere e di realtà e il patrimonio ereditato filogeneticamente; e, invece di introdurvi a qualcosa, vi ho fatto sfilare davanti agli occhi qualcosa che sì allontana sempre più da voi.

Perché non ho iniziato l'introduzione alla dottrina delle nevrosi con ciò che voi già sapete sul nervosismo e che ha suscitato da tempo il vostro interesse? Con la natura particolare dei nervosi, le loro incomprensibili reazioni nei confronti dei rapporti umani e delle influenze esternerà loro irritabilità, la loro imprevedibilità e inettitudine? Perché non vi ho condotto passo dopo passo dalla comprensione delle forme quotidiane più semplici di nervosismo ai problemi delle sue manifestazioni estreme ed enigmatiche?

Ebbene, signori, non posso di certo darvi torto. Non sono infatuato della mia arte espositiva al punto da spacciare ogni suo difetto per un'attrattiva particolare. Io stesso credo che si sarebbe potuto fare diversamente, con maggior profitto da parte vostra, ed era mia intenzione farlo. Ma non sempre si possono mettere in atto le proprie sagge intenzioni. Spesso c'è nella materia stessa qualcosa che ci comanda e ci distoglie dai nostri primi intenti. Persino un'operazione così modesta come il disporre secondo un certo ordine una materia ben nota non è interamente soggetta all'arbitrio dell'autore; riesce come vuole e solo successivamente ci si può chiedere perché le cose siano andate così e non altrimenti.

Probabilmente una delle ragioni di ciò è che il titolo "Introduzione alla psicoanalisi" non è più adatto per questa parte, che deve trattare delle nevrosi. L'introduzione alla psicoanalisi consiste nello studio degli atti mancati e del sogno; la teoria delle nevrosi è la psicoanalisi stessa. Non credo che in un tempo tanto breve avrei potuto rendervi edotti sul contenuto della teoria delle nevrosi altrimenti che in forma così sintetica. Si trattava quindi di esporvi, mettendoli in relazione tra loro, senso e significato dei sintomi, le condizioni esterne e interne che li determinano, e il meccanismo della loro formazione. Questo è quanto ho tentato di fare ed è, più o meno, il nucleo di ciò che la psicoanalisi ha da insegnare oggi. In proposito c'era molto da dire sulla libido e sul suo sviluppo, e qualcosa anche sullo sviluppo dell'Io. Eravate già preparati dalla sezione introduttiva ai presupposti della nostra tecnica, ai grandi temi dell'inconscio e della rimozione (o della resistenza). In una delle prossime lezioni apprenderete da dove il lavoro psicoanalitico prenda le mosse per proseguire in modo organico. Fin dall'inizio non vi ho tenuto nascosto che tutte le nostre scoperte provengono dallo studio di un unico gruppo di affezioni nervose, le cosiddette nevrosi di transfert. Ho addirittura seguito il meccanismo della formazione dei sintomi solo per la nevrosi isterica. Se pure non avete potuto acquisire una solida conoscenza, né ricordare ogni particolare, spero tuttavia che avrete ricavato un quadro dei mezzi con i quali la psicoanalisi lavora, dei problemi che affronta e dei risultati che ha conseguito.

Vi ho attribuito il desiderio che la mia esposizione delle nevrosi iniziasse con il comportamento delle persone nervose, con la descrizione del modo in cui soffrono per la loro nevrosi, del modo in cui se ne difendono e ci si adattano. Di certo questa è una materia interessante, degna di essere studiata, neppure molto difficile da trattare, ma iniziare con essa implica dei problemi. Si corre il rischio di non scoprire l'inconscio, e contemporaneamente di trascurare la grande importanza della libido e giudicare ogni cosa come essa appare all'Io dei nervosi. È ovvio che questo Io non è un'istanza attendibile e imparziale. L'Io è infatti la potenza che rinnega l'inconscio e l'ha degradato a rimosso: come si potrebbe crederlo capace di rendere giustizia all'inconscio? Tra ciò che è stato rimosso si trovano anzitutto le pretese respinte della sessualità; è assolutamente evidente che non potremo mai indovinare l'entità e l'importanza di queste pretese basandoci sulle concezioni che ne ha l'Io. A partire dal momento in cui cominciamo a intravedere il punto di vista della rimozione, veniamo ammoniti anche noi a non eleggere a giudice della controversia una delle due parti in causa, tantomeno quella vittoriosa. Siamo preparati al fatto che le dichiarazioni dell'Io ci conducano fuori strada. Se si vuol credere all'Io, questo è stato attivo dappertutto, ha voluto e prodotto da sé i suoi sintomi. Noi sappiamo invece che ha dovuto subire una buona dose di passività, che poi vuole nascondere e mascherare a se stesso. In realtà, non sempre si arrischia a fare questo tentativo; nei sintomi della nevrosi ossessiva, deve ammettere a se stesso che c'è qualcosa di estraneo che gli si contrappone, da cui si difende solo a fatica.

Chi, malgrado questi ammonimenti, non rinuncia a prendere per moneta sonante le mistificazioni dell'Io, ha poi di certo il gioco facile e riuscirà a sottrarsi alle resistenze che si oppongono all'accentuazione psicoanalitica dell'inconscio, della sessualità e della passività dell'Io. Costui affermerà, come ha fatto Alfred Adler, che il "carattere nervoso" è la causa prima della nevrosi, anziché la sua conseguenza, ma non sarà comunque in grado di chiarire un unico dettaglio della formazione dei sintomi o di spiegare un solo sogno.

Domanderete: «Non sarebbe possibile riconoscere all'Io la parte che gli spetta nel nervosismo e nella formazione dei sintomi, senza con ciò trascurare in modo grossolano i fattori scoperti dalla psicoanalisi?». Rispondo: «Di certo dev'essere possibile e, prima o poi, succederà; ma non è nella direzione di lavoro della psicoanalisi cominciare proprio da qui». In ogni caso è possibile prevedere quando questo compito si presenterà alla psicoanalisi. Ci sono nevrosi alle quali l'Io prende parte in modo assai più intenso rispetto a quelle finora studiate, sono le cosiddette nevrosi "narcisistiche". Lo studio analitico di queste affezioni ci permetterà di giudicare in modo imparziale e attendibile la parte che ha l'Io nel manifestarsi della malattia nevrotica.

Una delle relazioni dell'Io con la sua nevrosi, tuttavia, è talmente evidente che ha potuto essere presa in considerazione fin dall'inizio. Si potrebbe dire che non manca mai; la si riconosce però con maggior chiarezza in un'affezione che oggi siamo ancora lontani dal comprendere, ossia nella nevrosi traumatica. Infatti dovete sapere che nell'eziologia e nel meccanismo di tutte le forme possibili di nevrosi entrano in azione sempre gli stessi fattori, solo che il significato fondamentale per la formazione dei sintomi tocca ora all'uno ora all'altro di questi fattori. E simile a ciò che accade per gli attori di una compagnia teatrale nella quale ognuno ha una parte fissa: eroe, confidente, intrigante ecc.; ciascuno però sceglierà un pezzo diverso per il suo spettacolo di beneficenza. Similmente: le fantasie che si convertono in sintomi in nes-sun'altra nevrosi sono evidenti come nell'isteria; i controinvestimenti o formazioni reattive dell'Io dominano il quadro della nevrosi ossessiva; ciò che nel caso del sogno abbiamo chiamato elaborazione secondaria sta in primo piano sotto forma di delirio nella paranoia, e via dicendo.

Allo stesso modo, nelle nevrosi traumatiche, particolarmente in quelle originate dagli orrori della guerra, s'impone inequivocabilmente un fattore dell'Io di tipo egocentrico, fattore volto a ottenere protezione e vantaggio e che forse non può creare di per sé la malattia, ma le dà il suo consenso e la sostiene, una volta sorta. Questo fattore vuole preservare l'Io dai pericoli che, minacciandolo, furono la causa occasionale della malattia, e non permetterà la guarigione se prima non sembrerà escluso che essi si ripetano, oppure solo dopo che sarà ottenuta una compensazione per il pericolo scampato.

In tutti gli altri casi l'Io ha però un interesse simile all'insorgere e al permanere della nevrosi. Abbiamo già detto che i sintomi trovano sostegno anche nell'Io, perché un loro aspetto offre soddisfacimento alla tendenza rimovente dell'Io stesso. Inoltre, la risoluzione di un conflitto mediante la formazione di sintomi è la via d'uscita più semplice e più gradita al principio di piacere; indubbiamente essa risparmia all'Io un grande e tormentoso lavoro interiore. Ci sono casi, anzi, nei quali il medico stesso deve ammettere che lo sfociare di un conflitto nella nevrosi rappresenta la soluzione più innocua e socialmente più tollerabile. Non stupitevi di udire che perfino il medico, talvolta, prende le parti della malattia contro cui combatte. Non gli si addice trincerarsi nella parte del fanatico della salute, di fronte a tutte le situazioni della vita. Egli sa che al mondo non c'è solo miseria nevrotica, ma anche sofferenza reale, irrimediabile, e che la necessità può anche esigere da un uomo il sacrificio della sua salute; e impara che attraverso tale sacrificio di un individuo singolo viene spesso impedita l'infelicità incommensurabile di molti altri. Se dunque si può dire che il nevrotico davanti a un conflitto compie sempre la fuga nella malattia [Flucht in die Krankheit], si deve anche ammettere che in alcuni casi tale fuga è pienamente giustificata, e il medico che ha riconosciuto questo stato di cose si ritirerà silenziosamente e con delicatezza in disparte.

Prescindendo da tali casi eccezionali, però, procediamo nella discussione. In circostanze normali, riconosciamo che l'Io ricava un certo interiore vantaggio della malattia dall'evasione nella nevrosi. A questo si associa, in alcune circostanze dell'esistenza, un tangibile vantaggio esterno, cui va dato un valore più o meno alto nella realtà. Considerate il caso più frequente di questo tipo. Una donna, trattata brutalmente e sfruttata senza riguardi dal marito, trova molto spesso una via di scampo nella nevrosi, se la sua predisposizione glielo consente, se è troppo codarda o troppo scrupolosa per consolarsi segretamente con un altro uomo, se non è abbastanza forte per separarsi dal marito sfidando gli impedimenti esterni, se non ha la prospettiva di mantenersi da sola o di conquistarsi un uomo migliore, e inoltre se è ancora legata sessualmente a quest'uomo brutale. La malattia diventa ora, nella lotta contro il marito prepotente, la sua arma, un'arma che può usare per difendersi e di cui può abusare per vendicarsi. Essa può lamentarsi della sua malattia, mentre probabilmente non potrebbe lamentarsi del suo matrimonio. Trova un soccorritore nel medico, costringe il marito, solitamente privo di considerazione, a usarle dei riguardi, a fare delle spese per lei, a concederle il tempo di assentarsi da casa e quindi di liberarsi dall'oppressione coniugale. Nel caso che un tale vantaggio esterno o accidentale della malattia sia molto rilevante e non possa trovare alcun sostituto reale, non confidate troppo nella possibilità di influire sulla nevrosi mediante la vostra terapia.

Mi farete osservare che quello che vi ho raccontato sul vantaggio della malattia parla interamente a favore della concezione da me respinta, che sia l'Io stesso a volere e a creare la nevrosi. Adagio, signori, forse ciò significa soltanto che l'Io tollera la nevrosi, la quale d'altronde non può essere impedita, e che ne trae il meglio, ammesso che se ne possa trarre qualcosa. Questo è solo un lato della questione, e in vero quello gradevole. Finché la nevrosi presenta vantaggi, l'Io è senz'altro d'accordo con essa, ma essa non presenta soltanto vantaggi. Di solito diviene ben presto evidente che l'Io ha fatto un cattivo affare a mettersi con la nevrosi. Ha comprato a troppo caro prezzo un alleviamento del conflitto, e le sofferenze legate ai sintomi sono forse un sostituto che equivale ai tormenti del conflitto, ma probabilmente con un sovrappiù di dispiacere. L'Io vorrebbe liberarsi da questo dispiacere dei sintomi, ma non rinunciare al vantaggio della malattia, ed è appunto questo che non gli riesce. Ciò dimostra che non era così interamente attivo come credeva di essere; e questo lo terremo bene a mente.

Signori, se come medici vi accadrà di trattare pazienti nevrotici, ben presto rinuncerete alla speranza che i soggetti che più si lamentano e piangono sulla loro malattia vengano più volenterosamente incontro al-l'aiuto loro prestato e offrano le minori resistenze. Accade piuttosto il contrario. D'altronde vi sarà facile capire che tutto ciò che contribuisce al vantaggio della malattia rafforza la resistenza della rimozione e aumenta la difficoltà terapeutica. Al vantaggio parziale della malattia che nasce, in un certo senso, col sintomo, dobbiamo però aggiungerne un'altra parte, che sorge in seguito. Quando un'organizzazione psichica come la malattia perdura per parecchio tempo, finisce per comportarsi come un essere indipendente; manifesta una sorta di pulsione di autoconservazione, una specie di modus vivendi, si stabilisce tra essa e le altre componenti della vita psichica, perfino quelle che le sono fondamentalmente ostili, e difficilmente le mancano le occasioni per tornare a dimostrarsi utile e sfruttabile, per acquisire, direi quasi, una funzione secondaria, che ne rafforza nuovamente la stabilità. Invece di un esempio tratto dalla patologia, prendiamo un caso brutalmente illustrativo tratto dalla vita quotidiana. Un bravo lavoratore che si guadagna la vita viene storpiato da un infortunio sul lavoro; con il lavoro è finita, per il poveretto, che però col tempo riceve una piccola pensione di invalidità e impara a sfruttare come mendicante la sua mutilazione. La sua nuova esistenza, per quanto peggiorata, si basa ora proprio su ciò che lo ha privato dell'esistenza precedente. Se voi foste in grado di togliergli la deformazione, lo rendereste nell'immediato privo di mezzi di sussistenza e sorgerebbe il problema se sia ancora capace di riprendere il lavoro di prima. Ciò che nel caso della nevrosi corrisponde a un simile impiego secondario [sekundären Nutzung der Krankheit] della malattia possiamo contrapporlo al vantaggio primario, dandogli il nome di vantaggio secondario [sekundären Krankheitsgewinn] della malattia.

Intendo dirvi di non sottovalutare, in generale, l'importanza pratica del vantaggio della malattia e, al tempo stesso, di non lasciarvi impressionare da esso dal punto di vista teorico. Anche a prescindere dai casi eccezionali che abbiamo visto in precedenza, esso richiama alla mente gli esempi di "saggezza degli animali", che Oberlander ha illustrato nei «Flìegende Blatter». Un arabo percorre sul suo cammello uno stretto sentiero scavato in una ripida parete rocciosa. A una svolta del cammino, si vede improvvisamente di fronte un leone, che si prepara a spiccare il salto. Non vede alcuna via di scampo: da una parte la parete verticale, dall'altra l'abisso; voltarsi e fuggire è impossibile; si dà per spacciato. Ma non così l'animale. Esso fa, con il suo cavaliere, un balzo nell'abisso... e al leone non resta che guardare. Di regola, anche gli aiuti prestati dalla nevrosi non hanno un esito migliore per il malato. Ciò può dipendere dal fatto che la risoluzione di un conflitto mediante la formazione di sintomi è un processo automatico che non è in grado di mostrarsi all'altezza delle esigenze della vita, e in esso l'uomo ha rinunciato all'impiego delle sue migliori e più elevate energie. Se ci fosse possibilità di scelta, si dovrebbe preferire soccombere lottando lealmente con il destino.

Signori, devo ancora comunicarvi le ragioni per cui nella mia esposizione della teoria delle nevrosi non sono partito dal nervosismo comune. È possibile che supponiate che l'abbia fatto perché in questo caso mi sarebbe stato molto più difficile dimostrare l'origine sessuale delle nevrosi. Ma sbagliereste, perché se nelle nevrosi di transfert si deve passare per l'interpretazione dei sintomi prima di arrivare a questa conclusione, nelle forme comuni delle cosiddette nevrosi attuali [Aktualneurosen] l'importanza eziologica della vita sessuale è un dato di fatto evidente che si impone all'osservazione. Io mi sono imbattuto in esso più di venti anni fa, quando un giorno mi domandai perché mai nell'esame dei nervosi si trascurasse tanto ostinatamente di prendere in considerazione le loro attività sessuali. A queste ricerche sacrificai allora la mia popolarità presso i pazienti, ma già dopo pochi sforzi potei formulare la tesi che "con una vita sessuale normale, la nevrosi è impossibile": intendevo la nevrosi attuale. La tesi, di certo, trascura troppo le differenze individuali degli uomini e soffre anche dell'indeterminatezza che è necessariamente unita al giudizio di "normale"; tuttavia, ai fini di un orientamento approssimativo, essa ha conservato ancora oggi il suo valore. A quel tempo ero giunto al punto di postulare relazioni specifiche tra determinate forme di nervosismo e particolari pratiche sessuali nocive, e non dubito che oggi potrei ripetere le stesse osservazioni, se avessi a disposizione un analogo materiale patologico. Riscontrai abbastanza spesso che un uomo che si accontentava di un certo genere di soddisfacimento sessuale incompleto, per esempio l'onanismo manuale, era affetto da una determinata forma di nevrosi attuale, e che questa nevrosi cedeva prontamente il posto a un'altra nevrosi quando egli introduceva un altro regime sessuale, altrettanto poco irreprensibile. Ero allora in grado di indovinare dal mutamento dello stato del paziente il cambiamento avvenuto nel suo tipo di vita sessuale. A quel tempo imparai anche a perseverare con ostinazione nelle mie supposizioni, finché non avessi superato la mancanza di sincerità dei pazienti e li avessi costretti alla conferma. E altresì vero che essi poi preferivano andare da altri medici, i quali non si informavano tanto zelantemente sulla loro vita sessuale.

Neppure allora poteva sfuggirmi il fatto che le cause della malattia non rimandavano sempre alla vita sessuale. L'uno, è vero, si era ammalato direttamente per una pratica sessuale nociva, ma l'altro perché aveva perso il suo patrimonio o aveva avuto una malattia organica che l'aveva estenuato. In seguito ebbi la spiegazione di questa varietà, quando venni a conoscenza delle relazioni reciproche - da me intuite - tra l'Io e la libido, e la spiegazione divenne tanto più soddisfacente quanto più approfondivo la mia conoscenza. Una persona si ammala di nevrosi solo nel caso in cui il suo Io abbia perso la capacità di collocare in qualche modo la sua libido. Quanto più forte è l'Io, tanto più facile gli diventa la soluzione di questo compito; ogni indebolimento dell'Io - qualsiasi ne sia la causa - è destinato ad accrescere smisuratamente le pretese della libido, e rende quindi possibile la malattia nevrotica. Ci sono anche altre e più intime relazioni tra l'Io e la libido, le quali però non sono ancora apparse al nostro orizzonte, e che perciò non mi accingo a spiegare qui. Rimane per noi essenziale e istruttivo il fatto che, in ogni caso e indipendentemente dal modo in cui si instaurò la malattia, i sintomi della nevrosi sono sorretti dalla libido e attestano così un impiego abnorme della stessa.

Devo ora richiamare la vostra attenzione però sulla differenza decisiva che c'è tra i sintomi delle nevrosi attuali e quelli delle psiconevrosi, il primo gruppo delle quali, le nevrosi di transfert, ci ha tenuti tanto occupati finora. In entrambi i casi, i sintomi hanno origine dalla libido, sono quindi impieghi abnormi di questa, sostituti del soddisfacimento. I sintomi delle nevrosi attuali però - senso di pressione alla testa, percezioni dolorose, stato di irritazione di un organo, indebolimento o inibizione di una funzione - non hanno alcun "senso", alcun significato psichico. Non solo si manifestano in prevalenza sul corpo (come anche i sintomi isterici, per esempio), ma essi stessi sono processi interamente somatici, alla cui genesi non prende parte nessuno dei complicati meccanismi psichici di cui siamo venuti a conoscenza. Dunque questi, e non i sintomi psiconevrotici, rispondono alle caratteristiche che sono state attribuite per così lungo tempo ai secondi. Ma come possono allora corrispondere a impieghi della libido, che abbiamo conosciuto come una forza operante nella psiche? Ebbene, signori, è molto semplice. Permettetemi di recuperare una delle primissime obiezioni che sono state sollevate contro la psicoanalisi. Si disse allora che essa tentava di costruire una teoria puramente psicologica dei fenomeni nevrotici, e che ciò era completamente privo di prospettive poiché le teorie psicologiche non avrebbero mai potuto spiegare una malattia. Si preferiva dimenticare che la funzione sessuale non è affatto qualcosa di puramente psichico, così come non è qualcosa di unicamente somatico. Essa influisce sulla vita somatica non meno che su quella psichica. Visto che nei sintomi delle psiconevrosi abbiamo imparato a riconoscere le manifestazioni dei disturbi nei loro effetti psichici, non ci stupiremo di trovare nelle nevrosi attuali le dirette conseguenze somatiche dei disturbi sessuali.

Per la comprensione di questi ultimi disturbi, la clinica medica ci dà una preziosa indicazione, che diversi ricercatori tengono presente. Le nevrosi attuali, nei caratteri della loro sintomatologia, ma anche nella loro particolarità di influenzare tutti i sistemi organici e tutte le funzioni, rivelano un'evidente somiglianza con gli stati morbosi che insorgono per l'influsso cronico di sostanze tossiche esterne e per l'improvvisa sottrazione delle stesse: con le intossicazioni e con gli stati di astinenza. I due gruppi di affezioni vengono ancora più strettamente avvicinati per l’interporsi di quegli stati che, come il morbo di Basedow, vanno notoriamente fatti risalire all'azione di sostanze tossiche: non di tossine che vengono introdotte nel corpo dall'esterno, bensì di tossine che traggono origine dal metabolismo stesso del soggetto. Secondo me, conformemente a queste analogie, non possiamo fare a meno di considerare le nevrosi quali conseguenze di disturbi del metabolismo sessuale, sia che queste tossine sessuali vengano prodotte in quantità maggiore a quella cui l'individuo può far fronte, sia che condizioni interne e persino psichiche pregiudichino il giusto impiego di queste sostanze. L'anima popolare ha reso omaggio fin dai tempi più remoti a simili ipotesi sulla natura del desiderio sessuale: essa chiama l'amore una "ebbrezza" e fa nascere l'innamoramento per opera di filtri amorosi, spostandone in certo qual modo all'esterno la sostanza agente. Quanto a noi, questa potrebbe essere l'occasione di ricordare le zone erogene e la tesi che l'eccitamento sessuale può sorgere negli organi più diversi. Per il resto però, l'espressione "metabolismo sessuale" o "chimismo della sessualità" è priva di contenuto; nulla sappiamo in proposito e non possiamo nemmeno decidere se dobbiamo supporre due sostanze sessuali, che si chiamerebbero "maschile" e "femminile", oppure se è il caso di accontentarsi di un'unica tossina sessuale nella quale individuare il veicolo di tutti gli effetti stimolanti della libido. L'edificio dottrinale della psicoanalisi che abbiamo creato è in realtà una sovrastruttura, che deve essere collocata, prima o poi, sul suo fondamento organico; ma ancora non siamo venuti a conoscenza di ciò.

La psicoanalisi come scienza è caratterizzata non dalla materia che tratta, ma dalla tecnica con cui opera. La si può applicare tanto alla storia della civiltà, alla scienza delle religioni e alla mitologia, quanto alla teoria delle nevrosi, senza snaturarla. Ciò cui essa mira e di cui si occupa non è altro che la scoperta dell'inconscio nella vita psichica. I problemi delle nevrosi attuali, i cui sintomi insorgono probabilmente per un intervento nocivo diretto di natura tossica, non offrono alla psicoanalisi alcun punto di partenza; essa può fare ben poco per chiarirli e deve lasciare questo compito all'indagine medico-biologica. Ora, forse, comprendete meglio perché non abbia scelto un altro ordine di esposizione per la mia materia. Se vi avessi promesso una "Introduzione alla teoria delle nevrosi", la strada senza dubbio migliore sarebbe stata quella che va dalle semplici manifestazioni che caratterizzano le nevrosi attuali alle malattie psichiche più complicate dovute a un disturbo della libido. Con riguardo alle prime avrei dovuto raccogliere tutto ciò che abbiamo appreso o crediamo di sapere da diverse fonti, e, in relazione alle psiconevrosi, sarebbe poi intervenuta la psicoanalisi, quale più importante ausilio tecnico per esaminare questi stati. Ma mi ero proposto, e avevo annunciato, una "Introduzione alla psicoanalisi". Per me era più importante che voi acquisiste un'idea della psicoanalisi che non qualche nozione sulle nevrosi, e non potevo quindi mettere più in primo piano le nevrosi attuali, che sono sterili per la psicoanalisi. Ritengo inoltre di aver fatto la scelta più vantaggiosa per voi, poiché, per la portata dei suoi presupposti e per la vastità delle sue implicazioni, la psicoanalisi merita un posto nell'interesse di ogni persona colta; la teoria delle nevrosi è invece un capitolo della medicina come un altro.

Vi aspetterete però, a ragione, che dedichiamo un po' di attenzione anche alle nevrosi attuali. Ci obbliga a farlo anche il loro intimo legame clinico con le psiconevrosi. Vi dico dunque che noi distinguiamo tre forme pure di nevrosi attuale: la nevrastenia, la nevrosi d'angoscia e l'ipocondria. Anche questa ripartizione non è andata esente da confutazioni. I nomi, è vero, sono tutti in uso, ma il loro contenuto è indeterminato e oscillante. Ci sono anche medici che si oppongono a ogni distinzione nel caotico mondo dei fenomeni nevrotici, a ogni rilevazione di unità cliniche o malattie singole, e che non riconoscono nemmeno la separazione tra nevrosi attuali e psiconevrosi. Secondo me vanno troppo oltre e non hanno intrapreso la strada che porta al progresso.

A volte le forme di nevrosi menzionate compaiono in forma pura; più spesso, a dire il vero, si mescolano l'una con l'altra e con un'affezione psiconevrotica. Questo fatto non deve necessariamente indurci a rinunciare alla loro distinzione. Pensate alla differenza tra lo studio dei minerali e quello delle rocce, nella mineralogia. I minerali, di certo, vengono descritti come individui in base al fatto che spesso si presentano sotto forma di cristalli, nettamente distinti da ciò che li circonda. Le rocce consistono in aggregati di minerali, che sicuramente non si sono combinati per caso, ma conformemente alle condizioni che hanno determinato la loro origine. Nella teoria delle nevrosi noi comprendiamo ancora troppo poco del loro processo di sviluppo per creare qualcosa di simile alla petrografia. Siamo però certamente nel giusto isolando dapprima dalla massa le individualità cliniche da noi riconoscibili, che sono paragonabili ai minerali.

Una relazione interessante tra i sintomi delle nevrosi attuali e quelli delle psiconevrosi ci porta un ulteriore e significativo contributo alla conoscenza della formazione dei sintomi in queste ultime; il sintomo della nevrosi attuale costituisce infatti spesso il nucleo e il primo stadio del sintomo psiconevrotico. Tale rapporto si osserva con maggior chiarezza tra la nevrastenia e quella nevrosi di transfert che è detta "isteria di conversione", tra la nevrosi d'angoscia e l'isteria d'angoscia, ma anche tra l'ipocondria e le forme che saranno menzionate in seguito con il termine di parafrenia (dementia praecox e paranoia). Prendiamo come esempio il caso di un isterico mal di testa o di reni. L'analisi ci mostra che, mediante condensazione e spostamento, esso è diventato il soddisfacimento sostitutivo di un'intera serie di fantasie o di ricordi libidici. Un tempo però questo dolore era reale, e si trattava di un sintomo tossico-sessuale diretto, espressione corporea di un eccitamento libidico. Non vogliamo in alcun modo affermare che tutti i sintomi isterici contengono un nucleo di questo tipo, ma è un dato di fatto che ciò si verifica con particolare frequenza e che tutti gli influssi - normali o patologici - esercitati sul corpo dall'eccitamento libidico vengono privilegiati ai fini della formazione di sintomi isterici. In questo caso essi svolgono la funzione del granello di sabbia che il mollusco avvolge con strati di sostanza madreperlacea. Allo stesso modo i segni passeggeri dell'eccitamento sessuale, che accompagnano l'atto sessuale, vengono impiegati dalla psiconevrosi come il materiale più opportuno e appropriato per la formazione dei sintomi.

Un simile processo offre un particolare interesse diagnostico e terapeutico. Accade non di rado che in persone predisposte alla nevrosi, pur senza soffrire di una nevrosi conclamata, un'alterazione corporea morbosa -per esempio per un'infiammazione o una ferita - metta in moto l'attività di formazione del sintomo così che questa, in modo estremamente rapido, fa del sintomo, che la realtà gli offre il rappresentante di tutte quelle fantasie inconsce che attendevano soltanto l'opportunità di impadronirsi di un mezzo d'espressione. In tal caso il medico seguirà, nella terapia, ora l'una ora l'altra strada; o si proporrà di eliminare la base organica, senza curarsi della sua rumorosa rielaborazione nevrotica, oppure vorrà combattere la nevrosi sorta in quell'occasione tenendo in poco conto il suo occasionale motivo organico. Il risultato darà ragione o torto ora a questo ora a quel tipo di cura. Per simili casi misti è difficile stabilire regole generali.

Lezione 25. L angoscia

Signore e signori, in ciò che vi ho detto nell'ultima lezione sul nervosismo in generale [allgemeine Nervosität] avrete certamente riscontrato la più incompleta e insufficiente delle mie esposizioni. So che ciò è vero e penso che niente vi avrà sorpreso di più del fatto che in essa non si facesse menzione dell'angoscia di cui pure si lamenta la maggior parte dei nervosi, i quali la definiscono come la loro più terribile sofferenza. In effetti tale angoscia può raggiungere in essi la massima intensità e indurli a fare le cose più folli. Ma, almeno su questo punto, non volevo apparirvi troppo stringato, dato che il mio proposito era, al contrario, di approfondire con particolare cura il problema dell'angoscia nei nervosi e di discuterlo esaurientemente.

Non c'è bisogno che vi descriva l'angoscia in quanto tale; a ognuno di noi è successo di provare personalmente questa sensazione o, per meglio dire, questo stato affettivo. Ma penso che non ci si sia mai domandati abbastanza sul serio perché proprio i nervosi provino angoscia tanto più di frequente e tanto più fortemente degli altri. Forse lo si riteneva cosa ovvia; in genere infatti le parole "nervoso" e "ansioso" vengono usate l'una per l'altra, come se significassero la stessa cosa. Ciò però non è esatto: ci sono persone angosciate che per il resto non sono affatto nervose, e nervosi che soffrono di molti sintomi, tra i quali però non si riscontra l'inclinazione all'angoscia.

Comunque stiano le cose, resta fermo che il problema dell' angoscia è un punto nodale, nel quale convergono gli interrogativi più svariati e importanti, un enigma la cui soluzione dovrà gettare un fascio di luce su tutta la nostra vita psichica. Io non sostengo di essere in grado di darvi questa soluzione completa; ma vi aspetterete certamente che la psicoanalisi affronti anche questo tema in modo del tutto diverso dalla medicina scolastica.

In quest'ultima sembra che ci si interessi soprattutto delle vie anatomiche per le quali s'instaura lo stato d'angoscia. Si dice che è stimolato il midollo allungato, e l'ammalato apprende di soffrire di una nevrosi del nervo vago. Il midollo allungato è un argomento molto serio e affascinante. Mi ricordo molto bene quanto tempo e fatica ho dedicato, anni fa, al suo studio. Oggi però devo dire che per me non c'è nulla di più indifferente, per la comprensione della psicologia dell'angoscia, della conoscenza della via nervosa lungo la quale corrono i suoi eccitamenti.

Inizialmente si può trattare per un bel pezzo dell'angoscia senza pensare affatto al nervosismo. Capite senz'altro che cosa voglio dire se designo questa angoscia come angoscia reale [Realangst], in contrapposizione all'angoscia nevrotica [neurotischen]. L'angoscia reale ci appare quindi come qualcosa di molto razionale e comprensibile. Diremo di essa che è la reazione alla percezione di un pericolo esterno, cioè di un danno atteso, previsto; che è collegata al riflesso della "fuga", e che può essere considerata un'espressione della pulsione di autoconservazione. In quali occasioni compaia l'angoscia, ovvero di fronte a quali oggetti e in quali situazioni, dipenderà naturalmente in gran parte dalla quantità di cose che il soggetto conosce e dal senso che egli ha del proprio potere nei confronti del mondo esterno. Troviamo del tutto comprensibile che il selvaggio abbia paura di un cannone e sia terrorizzato da un'eclissi solare, mentre, in tali circostanze, il bianco, che sa maneggiare quello strumento e prevedere quell'evento, non si angoscia affatto. Altre volte è proprio la conoscenza maggiore a favorire l'angoscia, perché permette di riconoscere per tempo il pericolo. Così il selvaggio si spaventerà davanti a una traccia, nella foresta, che non dice nulla alla persona inesperta, ma che a lui rivela la vicinanza di un animale feroce; e l'esperto navigante osserverà con terrore una nuvoletta in cielo, che al passeggero sembra insignificante mentre a lui annuncia l'avvicinarsi dell'uragano.

In seguito a un'ulteriore riflessione, occorre dire che il giudizio secondo cui l'angoscia reale è razionale e adeguata [zweckmäβig] ha bisogno di essere radicalmente rivisto. Infatti nel caso di un pericolo incombente l'unico comportamento adeguato sarebbe la fredda valutazione delle proprie forze rapportata all'entità della minaccia, e in base a ciò la decisione se offra maggiori possibilità di buon esito la fuga o la difesa, o eventualmente anche l'attacco. Ma in tale contesto non c'è posto per l'angoscia: tutto.ciò che viene fatto sarebbe fatto ugualmente bene, e forse meglio, se non sopravvenisse alcuno sviluppo d'angoscia. È anche del tutto evidente che, se l'angoscia raggiunge un'intensità eccessiva, si dimostra molto inadeguata [unz zweckmäβig], paralizza ogni azione, compresa quella della fuga. Di solito la reazione al pericolo consiste in un misto di affetto d'angoscia e di azione di difesa. L'animale spaventato ha paura [ägnstigt sich] e fugge; ma ciò che è qui adeguato è la "fuga", non l'"aver paura".

Siamo dunque tentati di affermare che lo sviluppo d'angoscia non sia mai nulla di adeguato allo scopo. Per meglio comprendere ci sarà d'aiuto forse scomporre più attentamente la situazione d'angoscia.

In essa il primo dato è la preparazione di fronte al pericolo, che si esprime in un aumento dell'attenzione sensoriale e della tensione motoria. Tale attesa preparatoria va riconosciuta senz'altro come vantaggiosa; anzi, la sua mancanza comporterebbe serie conseguenze. Da essa hanno origine, da una parte, l'azione motoria - in primo luogo la fuga e, a uno stadio più elevato, la difesa attiva - e, dall'altra, ciò che percepiamo come stato d'angoscia. Quanto più lo sviluppo d'angoscia si limita a un mero accenno, a un segnale, tanto più indisturbata si compie la conversione in azione di questa preparazione all'angoscia, e tanto più adeguatamente si struttura l'intero processo. In ciò che noi chiamiamo angoscia, la preparazione all'angoscia [Angstbereitschaft] mi sembra dunque essere l'elemento adeguato, e lo sviluppo d'angoscia [Angstentwicklung] quello non adeguato.

Evito di approfondire la questione se il nostro uso linguistico intenda designare con "angoscia" [Angst], "paura" [Furcht], "spavento" [Schreck] la stessa cosa o cose chiaramente differenti. Ritengo solo che "angoscia" si riferisca allo stato e prescinda dall'oggetto, mentre "paura" richiama l'attenzione proprio sull'oggetto. "Spavento" sembra invece avere un senso particolare, ovvero porre in evidenza l'effetto di un pericolo che non viene accolto da uno stato di preparazione all'angoscia. Cosicché si potrebbe dire che l'uomo si protegge dallo spavento con l'angoscia.

Non vi sarà sfuggita una certa ambiguità e indeterminatezza nell'uso del termine "angoscia". Il più delle volte intendiamo con "angoscia" lo stato soggettivo in cui ci si trova al momento della percezione dello "sviluppo d'angoscia", e chiamiamo questo stato un affetto [Affekt]. Cos'è dunque in senso dinamico un affetto? In ogni caso, qualcosa di molto complesso. Anzitutto esso comprende certe innervazioni, o scariche motorie, e in secondo luogo certe sensazioni; queste ultime sono di natura duplice: le percezioni delle azioni motorie che si sono verificate e le sensazioni dirette di piacere e dispiacere, le quali conferiscono all'affetto, come si dice, la nota fondamentale. Non credo però che con questa elencazione sia possibile cogliere la natura dell'affetto. Nel caso di alcuni affetti si ritiene di vedere più in profondità e di riconoscere che il nucleo che riunisce l'insieme che abbiamo appena descritto sia la ripetizione di una determinata esperienza significativa. Tale esperienza potrebbe essere solo un'impressione primordiale, di natura del tutto generale, da situarsi nella preistoria, non dell'individuo, ma della specie. Per farmi comprendere meglio, lo stato affettivo sarebbe costruito come un attacco isterico, sarebbe come questo il sedimento [Niederschlag] di una reminiscenza. Si potrebbe quindi paragonare l'attacco isterico a un affetto individuale di nuova formazione, e l'affetto normale all'espressione di un'isteria generale divenuta retaggio. Non dovete ritenere che ciò che io vi ho detto qui sugli affetti sia patrimonio riconosciuto della psicologia normale. Si tratta, al contrario, di concezioni nate sul terreno della psicoanalìsi e che solo lì sono di casa. Ciò che in relazione agli affetti potete apprendere nella psicologia, per esempio la teoria di James-Lange, per noi psicoanalisti è addirittura incomprensibile, al punto da non poter essere discussa. Ma neppure riteniamo molto sicura la nostra conoscenza in materia di affetti; il nostro è un primo tentativo di orientarci in questo territorio oscuro. Andiamo avanti. Per quanto concerne l'affetto d'angoscia, riteniamo di sapere di quale impressione primordiale sia la ripetizione. Ci diciamo che esso riproduce l'atto della nascita, nel quale ha luogo quell'insieme di sentimenti spiacevoli, di impulsi di scarica e di sensazioni corporee che è divenuto il modello dell'effetto prodotto da un pericolo mortale e che da allora ripetiamo come stato d'angoscia. Allora la causa dell'esperienza d'angoscia fu l'enorme incremento di stimoli, dovuto all'interruzione del ricambio del sangue (cioè della respirazione interna): la prima angoscia fu dunque un'angoscia tossica. Il termine "angoscia" - "angustiae", "Enge" - rimarca il carattere della mancanza di respiro, che si presentò allora come conseguenza della situazione reale e che oggi viene quasi sempre riprodotto

nell'affetto. Riconosciamo anche come ricco di implicazioni il fatto che quel primo stato d'angoscia ebbe origine dalla separazione dalla madre. Siamo convinti naturalmente che la disposizione a ripetere il primo stato d'angoscia si sia incorporata così in profondità - lungo una serie innumerevole di generazioni - nell'organismo che un singolo individuo non può sfuggire all'affetto d'angoscia, anche se come il leggendario Macduff, «fu tratto innanzi tempo, con un taglio dal grembo di sua madre» [Macbeth] e quindi non abbia sperimentato in prima persona l'atto della nascita. Non possiamo dire quale sia stato per gli animali non mammiferi il prototipo dello stato d'angoscia. D'altronde, non sappiamo nemmeno quale sia il complesso di sensazioni che in queste creature equivale alla nostra angoscia.

Forse vi interesserà sapere come si possa giungere a un'idea come quella che l'atto della nascita sia la fonte e il prototipo dell' affetto d'angoscia. Qui la speculazione quasi non c'entra; mi sono avvalso piuttosto dell'ingenuo pensiero del popolo. Molti anni fa, mentre noi giovani medici ospedalieri eravamo a pranzo in una trattoria, un assistente della clinica ostetrica ci raccontò un divertente episodio accaduto nell'ultimo esame per levatrici. A una candidata venne chiesto che cosa significa, al momento della nascita, la presenza di meconio (escrementi del feto) nell'acqua che esce, ed essa rispose prontamente: «Che il bambino ha paura». Venne derisa e bocciata. Io però presi in silenzio le sue parti e cominciai a sospettare che quella povera donna del popolo avesse candidamente sottolineato un'importante correlazione.

Passando ora all'angoscia nevrotica, quali nuove forme e situazioni l'angoscia manifesta nei nervosi? Qui è necessaria una lunga descrizione. In primo luogo troviamo un generale stato di ansietà [Ängstlichkeit], un'angoscia per così dire liberamente fluttuante, che è pronta ad agganciarsi a ogni contenuto rappresentativo in qualche modo adatto, che influisce sul giudizio, seleziona le aspettative, spia ogni possibilità di trovare una giustificazione. Noi chiamiamo questo stato "angoscia d'attesa" o "attesa angosciosa". Le persone tormentate da questo genere di angoscia prevedono fra tutte le possibilità sempre la più terribile, interpretano ogni avvenimento casuale come un segno premonitore di sventura, sfruttano ogni incertezza nel senso peggiore. L'inclinazione a tale attesa di sventura si riscontra, come tratto del carattere, in molti uomini che, quanto al resto, non possono essere ritenuti malati, ma vengono definiti iperansiosi o pessimisti; per altro verso, l'angoscia d'attesa entra di regola in misura considerevole in un'affezione nervosa che ho denominato "nevrosi d'angoscia" e che annovero tra le nevrosi attuali.

Al contrario di quella appena descritta, una seconda forma di angoscia è psichicamente legata e connessa a certi oggetti o situazioni. È l'angoscia delle "fobie", estremamente varie e spesso singolarissime. Di recente, Stanley Hall, lo stimato psicologo americano, si è impegnato a presentarci l'intera gamma di queste fobie con sfarzosa nomenclatura greca: sembrerebbe l'elencazione delle dieci piaghe d'Egitto, se non fosse che il loro numero è di gran lunga superiore a dieci. Sentite quante cose possono diventare oggetto o contenuto di una fobia: oscurità, aria libera, spiazzi aperti, gatti, ragni, bruchi, serpenti, topi, temporali, punte acuminate, sangue, ambienti chiusi, ressa umana, solitudine, traversata di ponti, viaggi per mare e ferrovia ecc. A un primo tentativo di orientarsi in questo brulichio viene spontaneo distinguere tre gruppi. Alcuni degli oggetti e delle situazioni temute hanno anche per noi, persone normali, qualcosa di inquietante, un legame con un pericolo. Di conseguenza, queste fobie non ci sembrano incomprensibili, sebbene quanto a intensità siano esagerate. Così la maggior parte di noi prova una sensazione di ripugnanza di fronte a un serpente. Si può dire che quella dei serpenti sia una fobia universalmente umana, e Charles Darwin ha descritto in modo molto suggestivo come non potè evitare di aver paura di un serpente che gli si stava avventando contro, benché si sapesse protetto da una spessa lastra di vetro. In un secondo gruppo collochiamo i casi in cui sussiste ancora la relazione con un pericolo, sebbene siamo abituati a non tenerlo in gran conto e a non metterlo in rilievo. Rientra in questa categoria la maggior parte delle fobie di situazione. Sappiamo che in un viaggio in treno c'è una probabilità in più di avere un incidente che non restando a casa, e cioè quella dello scontro ferroviario; sappiamo anche che una nave può andare a fondo, nel qual caso di regola si affoga; ma non pensiamo a questi pericoli e viaggiamo in treno e in nave senza timore. Neppure possiamo negare che, se il ponte crollasse nel momento in cui lo attraversiamo, precipiteremmo nel fiume, ma si tratta di un'eventualità talmente rara che non la prendiamo affatto in considerazione come un pericolo. Anche la solitudine ha i suoi pericoli, e noi, in determinate circostanze, li evitiamo; ma ciò non significa che non possiamo mai sopportarla a nessuna condizione, neppure per un momento. Lo stesso vale per la folla, per l'ambiente chiuso, per il temporale, e via dicendo. Ciò che ci sconcerta in queste fobie dei nevrotici non è tanto, in genere, il loro contenuto quanto la loro intensità. L'angoscia delle fobie è senza appello! E talvolta abbiamo l'impressione che i nevrotici non si angoscino affatto per le stesse cose e situazioni che in certe circostanze possono provocare angoscia anche in noi e che pure essi definiscono con gli stessi nomi. Ci rimane un terzo gruppo di fobie, che la nostra intelligenza non riesce più a comprendere. Quando un uomo adulto, forte, è incapace di attraversare una strada o una piazza della città natale, a lui ben nota, per via dell' angoscia; quando una donna sana, ben sviluppata, cade in preda a un'irragionevole angoscia perché un gatto le ha sfiorato l'orlo del vestito o un topolino è sgusciato attraverso la stanza, come possiamo stabilire un legame col pericolo che pure evidentemente esiste per questi soggetti fobici? Nel caso delle zoofobie, che appartengono a questo gruppo, non può trattarsi di un' accentuazione di universali antipatie umane, poiché, come a dimostrare il contrario, numerose sono le persone che non possono passare accanto a un gatto senza chiamarlo a sé o accarezzarlo. Il topolino, tanto temuto dalle donne, è contemporaneamente un vezzeggiativo affettuoso di prim'ordine; eppure più di una ragazza, che è molto contenta di sentirsi chiamare così dal suo innamorato, si mette a strillare atterrita quando scorge la graziosa bestiola che ha questo nome. Nel caso dell'uomo che ha il terrore delle strade o delle piazze, l'unica spiegazione plausibile è che egli si comporta come un bambino piccolo: l'educazione prescrive ai bambini di evitare situazioni del genere in quanto pericolose; e in effetti il nostro agorafobo è protetto dall'angoscia se qualcuno lo accompagna mentre attraversa la piazza.

Le due forme di angoscia qui descritte, l'angoscia d'attesa liberamente fluttuante e quella legata a fobie, sono indipendenti l'una dall'altra. L'una non è, ad esempio, di un livello superiore rispetto all'altra; e compaiono insieme solo eccezionalmente, come per caso. Uno stato di generale ansietà, per quanto possa essere intenso, non necessariamente si esprime in fobie. Individui la cui intera vita è limitata a causa di un'agorafobia possono essere completamente esenti dalla pessimistica angoscia d'attesa. È dimostrabile che alcune fobie, per esempio la fobia delle piazze e della ferrovia, vengano acquisite solo in età abbastanza matura; altre, come la paura dell'oscurità, del temporale, degli animali, sembrano essere esistite sin dall'inizio. Quelle del primo tipo hanno il significato di gravi malattie; le seconde appaiono piuttosto come stranezze, capricci. In chi manifesta una di queste ultime di regola si può supporre anche l'esistenza di altre fobie simili. Devo aggiungere che raggruppiamo complessivamente queste fobie nell'isteria d'angoscia; le consideriamo cioè un'affezione strettamente affine alla nota isteria di conversione.

La terza forma di angoscia nevrotica ci pone dinanzi al fatto enigmatico che perdiamo totalmente di vista il legame tra angoscia e pericolo incombente. Questa angoscia, per esempio, compare nell'isteria in concomitanza coi sintomi isterici o in qualsiasi stato di eccitamento in cui ci aspetteremmo, certo, una manifestazione affettiva, ma meno che mai quella d'angoscia; oppure, in forma svincolata da ogni condizione e incomprensibile tanto a noi quanto al malato, come libero attacco d'angoscia. In questi casi sono assolutamente da escludersi la presenza di un pericolo o di una circostanza occasionale che, esagerata, possa essere fatto assurgere a tale. Da questi attacchi spontanei apprendiamo inoltre che il complesso da noi designato come stato d'angoscia è suscettibile di frammentazione [Aufsplitterung]. L'intero attacco può essere rappresentato da un unico sintomo, intensamente sviluppato, da un tremito, una vertigine, una palpitazione cardiaca, un affanno; e la sensazione generale dalla quale riconosciamo l'angoscia può mancare o essere divenuta indistinta. Eppure questi stati, che noi descriviamo come "equivalenti d'angoscia" [Angstäquivalent], vanno equiparati all'angoscia sotto ogni aspetto clinico ed eziologico.

Si pongono ora due interrogativi. E possibile mettere l'angoscia nevrotica, nella quale il pericolo non ha parte alcuna, o quasi, in relazione con l'angoscia reale, la quale è sempre una reazione al pericolo? E come va intesa l'angoscia nevrotica? Ci verrà spontaneo attenerci dapprima all'aspettativa che, dove c'è angoscia, debba anche essere presente qualcosa per cui ci si angoscia.

Per la comprensione dell'angoscia nevrotica, si possono ricavare dall'osservazione clinica molte indicazioni che vorrei esporvi:

a) Non è difficile riconoscere che l'angoscia d'attesa o lo stato di ansietà generale è strettamente dipendente da determinati processi della vita sessuale o, per meglio dire, da determinati impieghi della libido. Il caso più semplice e istruttivo di questo genere è quello di persone che si espongono al cosiddetto eccitamento "frustraneo", per le quali cioè, violenti eccitamenti sessuali non trovano una scarica sufficiente, non vengono condotti a un esito soddisfacente. Quindi, ad esempio, in uomini durante il periodo del fidanzamento e in donne i cui mariti sono insufficientemente potenti o che, per precauzione, eseguono l'atto sessuale in modo abbreviato o incompiuto. In queste circostanze l'eccitamento libidico si dilegua e al suo posto compare l'angoscia, tanto in forma di angoscia d'attesa quanto in forma di attacchi ed equivalenti d'angoscia. L'interruzione precauzionale dell'atto sessuale, se praticata come regime sessuale, diviene normalmente causa di nevrosi d'angoscia negli uomini, ma in particolare nelle donne, al punto che nella prassi medica, in casi di questo genere, è raccomandabile cominciare la ricerca in direzione di questa eziologia. Si potranno ottenere con ciò numerosissime verifiche del fatto che la nevrosi d'angoscia viene meno non appena ci si astiene da tale uso distorto dell'atto sessuale.

Il dato di fatto di una relazione tra restrizioni sessuali e stati d'angoscia non viene più contestato, che io sappia, nemmeno dai medici più lontani dalla psicoanalisi. Ma posso ben immaginare che non si tenti ancora di invertire il rapporto, sostenendo che le persone di cui si tratta sono sin dall'inizio inclini all'ansietà e perciò si sottopongono a restrizioni anche nelle faccende sessuali. Ciò è però decisamente contraddetto dal comportamento delle donne, la cui attività sessuale è essenzialmente passiva, ossia viene determinata dal modo in cui sono trattate dagli uomini. Quanto più una donna è passionale, quindi quanto più è propensa ai rapporti sessuali e suscettibile di essere soddisfatta, tanto più sicuramente reagirà all'impotenza dell'uomo o al coitus interruptus con manifestazioni d'angoscia, mentre su donne frigide [anasthetischen], o scarsamente dotate di libido, tale atto sessuale distorto ha un peso dì gran lunga minore.

La stessa importanza per l'insorgenza di stati d'angoscia spetta all'astinenza sessuale (ora tanto caldamente raccomandata dai medici) naturalmente solo quando la libido cui non viene concessa una scarica soddisfacente è relativamente intensa e non è stata liquidata, per la maggior parte, grazie alla sublimazione. Di certo sono sempre i fattori quantitativi a decidere se l'esito sarà patologico o meno. Anche quando non è questione di malattia, bensì di conformazione del carattere, si riconosce facilmente che la limitazione sessuale va di pari passo con una certa ansietà e titubanza, mentre l'intrepidezza e l'audacia sfacciata implicano che si dia libero sfogo alle proprie esigenze sessuali. Per quanto tali relazioni possano essere modificate e complicate da molteplici e svariati influssi culturali, resta tuttavia il fatto che per la media degli uomini l'angoscia è intimamente connessa con la limitazione sessuale.

Sono ben lontano dall'avervi comunicato tutte le osservazioni che depongono a favore dell'asserita relazione genetica tra libido e angoscia. Fra esse, ad esempio, c'è l'influsso sulle affezioni d'angoscia di certe fasi della vita, alle quali, come alla pubertà e al periodo della menopausa, si può attribuire un rilevante incremento della produzione di libido.

In taluni stati di eccitamento si possono anche osservare direttamente la mescolanza di libido e di angoscia e la sostituzione finale della libido con l'angoscia. Da tutti questi fatti si riceve una duplice impressione: in primo luogo, che si tratta di un accumulo di libido, la quale viene trattenuta dal suo normale impiego; in secondo luogo, che qui ci troviamo assolutamente nel campo dei processi somatici. Non è possibile discernere a prima vista come dalla libido sorga l'angoscia; sappiamo solo che la libido è assente e che al suo posto è subentrata l'angoscia.

b) Un secondo indizio lo attingiamo dall'analisi delle psiconevrosi, specialmente dell'isteria. Abbiamo visto che in questa affezione compare spesso angoscia in concomitanza coi sintomi, ma anche angoscia slegata, che si manifesta in forma di attacco o come stato permanente. I pazienti non sanno dire da che cosa sono angosciati e, mediante una evidente elaborazione secondaria, collegano quest'angoscia alle fobie più ovvie e più prossime, come quella di morire, di impazzire, di avere un colpo. Sottoponendo ad analisi la situazione dalla quale sono scaturiti l'angoscia o i sintomi accompagnati da angoscia, possiamo quasi sempre indicare quale sia il decorso psichico normale che non ha avuto luogo ed è stato sostituito dal fenomeno dell'angoscia. In altri termini: ricostruiamo il processo inconscio così come se non avesse subito alcuna rimozione e avesse proseguito indisturbato fino alla coscienza. In tal caso tale processo sarebbe stato accompagnato da un determinato affetto, e ora, con nostra sorpresa, scopriamo che, in seguito alla rimozione, questo affetto congiunto al normale decorso viene sempre sostituito dall'angoscia, indipendentemente dalla qualità che gli era propria. Quando dunque abbiamo davanti a noi uno stato isterico d'angoscia, il suo correlato inconscio può essere tanto un impulso avente carattere simile - quindi di angoscia, di vergogna, di smarrimento - quanto un eccitamento libidico positivo o un eccitamento ostilmente aggressivo, come furore e rabbia. L'angoscia è dunque la moneta universalmente valida con la quale vengono o possono venire scambiati tutti i moti affettivi, quando il contenuto rappresentativo ad essi legato ha subito la rimozione.

e) Una terza esperienza la facciamo coi malati che compiono azioni ossessive, ai quali stranamente l'angoscia sembra essere risparmiata. Se tentiamo di impedire che essi eseguano l'azione ossessiva - i loro lavaggi, il loro cerimoniale - o se essi stessi si arrischiano ad abbandonare una delle loro costrizioni, una terribile angoscia li costringe ad abbandonare il tentativo. Comprendiamo che l'angoscia era nascosta dall'azione ossessiva e che questa veniva eseguita solo per risparmiarsi l'angoscia. Nella nevrosi ossessiva, dunque, l'angoscia, destinata altrimenti a insediarsi, viene sostituita dalla formazione dei sintomi. E se ci volgiamo all'isteria troviamo una relazione simile: come risultato del processo di rimozione si ha o puro sviluppo d'angoscia, o angoscia con formazione di sintomi, oppure più compiuta formazione di sintomi senza angoscia. In senso astratto, non parrebbe inesatto affermare che i sintomi in genere si formano solo per sottrarsi allo sviluppo d'angoscia, altrimenti inevitabile. Questa concezione pone, per così dire, l'angoscia al centro del nostro interesse per i problemi delle nevrosi.

Dalle nostre osservazioni sulla nevrosi d'angoscia avevamo concluso che la deviazione della libido dal suo impiego normale, la quale fa nascere l'angoscia, avviene nel campo dei processi somatici. Dalle analisi dell'isteria e della nevrosi ossessiva ricaviamo che la medesima deviazione, con identico risultato, può essere anche l'effetto di un rifiuto a opera delle istanze psichiche. Ciò è dunque quanto sappiamo sulla genesi dell'angoscia nevrotica; è ancora abbastanza indefinito, ma per il momento non vedo come potremmo andare oltre. Il secondo problema che ci siamo posti, quello di stabilire un legame tra l'angoscia nevrotica, che è libido impiegata in modo abnorme, e l'angoscia reale, che corrisponde a una reazione al pericolo, sembra ancora più difficile da risolvere. Vorremmo credere che si tratti di cose del tutto disparate, e tuttavia non abbiamo alcun mezzo per distinguere, nella sensazione, l'angoscia reale dall'angoscia nevrotica.

Riusciamo a stabilire il legame che cerchiamo se prendiamo come punto di partenza l'antitesi tra l'Io e la libido, di cui così spesso abbiamo affermato l'esistenza. Come sappiamo, lo sviluppo d'angoscia è la reazione dell'Io al pericolo e il segnale di inizio della fuga; ci viene allora naturale pensare che nell'angoscia nevrotica l'Io intraprenda un analogo tentativo di fuga davanti alle pretese della sua libido, cioè che tratti questo pericolo interno come se fosse esterno. Ciò corrisponderebbe all'aspettativa che, dove si manifesta l'angoscia, è presente anche qualcosa di cui ci si sente angosciati. Ma l'analogia potrebbe essere proseguita. Così come il tentativo di fuga davanti al pericolo esterno viene sostituito dall'affrontarlo e da opportuni provvedimenti difensivi, allo stesso modo lo sviluppo d'angoscia nevrotica cede il posto alla formazione di sintomi, ciò che ha come risultato che l'angoscia venga legata.

La difficoltà di comprensione si sposta ora in un altro punto. L'angoscia, che significa la fuga dell'Io di fronte alla sua libido, deve pur essere scaturita da questa stessa libido. Si tratta di un fatto oscuro, che ci ammonisce a non dimenticare che la libido di una persona, in fondo, le appartiene e non può essere a questa contrapposta come qualcosa di esterno. È la dinamica topica dello sviluppo d'angoscia che ci è ancora oscura: che specie di energie psichiche vengono prodotte in quel processo e da quale sistema psichico esse provengono. Non posso assumermi l'impegno di rispondere anche a questa domanda; non tralasceremo però di seguire altre due tracce, servendoci ancora una volta, per venire in aiuto alla nostra speculazione, dell'osservazione diretta e dell'indagine analitica. Rivolgeremo la nostra attenzione alla genesi dell'angoscia nel bambino e all'origine di quell'angoscia nevrotica che è legata alle fobie.

L'ansietà dei bambini è qualcosa di molto comune, e sembra davvero difficile distinguere se si tratti di angoscia nevrotica o reale, tanto più che il valore stesso di questa distinzione viene messo in dubbio dal comportamento dei bambini. Infatti, da una parte noi non ci meravigliamo se il bambino ha paura di tutte le persone estranee, delle nuove situazioni e dei nuovi oggetti, e ci spieghiamo molto semplicemente la sua reazione ascrivendola a debolezza e mancanza di conoscenza. Attribuiamo quindi al bambino una forte inclinazione all'angoscia reale e ci sembrerebbe del tutto logico che in lui questa pavidità fosse un retaggio innato. In ciò il bambino non farebbe che ripetere il comportamento dell'uomo preistorico e dell'odierno primitivo che, vittima della propria ignoranza e impotenza, ha paura di ogni novità e di tante cose familiari, che a noi oggi non incutono più paura. Corrisponderebbe anche perfettamente a quanto ci aspettiamo se le fobie del bambino, almeno in parte, fossero ancora le stesse che possiamo attribuire ai tempi più remoti dell'evoluzione umana.

D'altronde non si può trascurare il fatto che non tutti i bambini sono paurosi in ugual misura, e che proprio i bambini che manifestano un particolare timore per ogni genere di oggetti e situazioni si rivelano in seguito dei nevrotici. La disposizione alla nevrosi si rivela, dunque, anche mediante una spiccata inclinazione all'angoscia reale; l'ansietà appare come il fatto primario, e giungiamo alla conclusione che il bambino e più tardi l'adolescente hanno paura dell'intensità della loro libido appunto perché hanno paura di tutto. Verrebbe allora confutata la genesi dell'angoscia dalla libido, e se si andasse a cercare quali siano le condizioni dell'angoscia reale, si giungerebbe in modo conseguente alla concezione che la consapevolezza della propria debolezza e impotenza -inferiorità, nella terminologia di Afred Adler - è anche la ragione ultima della nevrosi, sempre che tale consapevolezza possa protrarsi dall'infanzia fino all'età matura.

Questo fenomeno sembra talmente semplice e affascinante che ha diritto alla nostra attenzione. Per la verità implicherebbe che l'enigma del nervosismo si spostasse. Il perdurare del senso d'inferiorità - e quindi della condizione che determina l'angoscia e la formazione dei sintomi -ci appare così bene accertato che piuttosto sarebbe necessaria una spiegazione nel caso in cui, eccezionalmente, dovesse verificarsi ciò che ci è noto come salute. Ma che cosa emerge da un'attenta osservazione dell'ansietà dei bambini? Il bambino piccolo ha paura anzitutto delle persone estranee; le situazioni diventano importanti solo nella misura in cui riguardano persone; solo in seguito gli oggetti entrano in gioco. Di questi estranei il bambino, però, non ha paura perché attribuisce loro cattive intenzioni e perché rapporta la propria debolezza alla loro forza, decidendo insomma che costituiscono un pericolo per la sua esistenza, sicurezza e libertà dal dolore. Un bambino così diffidente, spaventato dalla pulsione aggressiva che domina il mondo, è una costruzione teorica, e per giunta mal riuscita. La verità è che il bambino si spaventa davanti alla figura dell'estraneo perché è abituato soltanto alla vista della persona familiare e amata, alla vista, insomma, della madre. La sua delusione e la sua nostalgia si trasformano in angoscia: la sua libido divenuta inutilizzabile e, non potendo più essere tenuta in sospeso, si scarica infine sotto forma di angoscia. Né può essere un caso che in questa situazione esemplare dell'angoscia infantile si riproduca la condizione del primo stato d'angoscia, durante l'atto della nascita, ossia la separazione dalla madre.

Le prime fobie dei bambini connesse con determinate situazioni sono quelle dell'oscurità e della solitudine. La prima sussiste spesso per tutta la vita: a entrambe è comune il fatto che viene avvertita la mancanza della persona amata che si cura del bambino, della madre. Udii un bambino, che aveva paura del buio, gridare dalla stanza vicina: «Zia, parlami, ho paura». «Ma a che ti serve? Non mi vedi mica»; e il bambino: «Se qualcuno parla, diventa più chiaro». La nostalgia [Sehnsucht] provata nell'oscurità viene quindi trasformata in paura [Angst] dell'oscurità. L'angoscia nevrotica è ben lungi dall'essere solo un fenomeno secondario, e neppure è un caso particolare dell'angoscia reale; al contrario, noi vediamo che nel bambino piccolo si atteggia ad angoscia reale qualcosa che ha in comune con l'angoscia nevrotica il tratto essenziale di provenire da libido inutilizzata. Di angoscia reale vera e propria il bambino sembra portarne in sé ben poca. In tutte le situazioni che in seguito possono divenire condizioni di fobie (luoghi alti, ponticelli sull'acqua, ferrovia e nave) il bambino non mostra alcun timore; anzi quanto più ignora la situazione, tanto meno la teme. Sarebbe quanto mai desiderabile che avesse ricevuto in eredità un maggior numero di tali istinti miranti a proteggere la vita; il compito della sorveglianza, che deve impedirgli di esporsi a un pericolo dopo l'altro, ne sarebbe molto alleggerito. In realtà, il bambino inizialmente sopravvaluta le sue forze e si comporta senza paura perché non conosce i pericoli. Corre sugli argini di acque profonde, sale sul davanzale della finestra, gioca con oggetti acuminati e con il fuoco, insomma fa tutto ciò che è destinato ad arrecargli danno e a procurare preoccupazioni a chi lo accudisce. Se alla fine l'angoscia reale si risveglia in lui, ciò è interamente dovuto all'educazione, dal momento che non gli si può permettere di fare da solo quelle esperienze che potrebbero istruirlo.

Ebbene, se ci sono bambini che in certa misura facilitano questa educazione all'angoscia, e che trovano perfino da soli i pericoli dai quali non sono stati messi in guardia, ciò significa che essi hanno insita nella loro costituzione una maggior quantità di bisogni libidici, o che sono stati viziati precocemente dal soddisfacimento libidico. Non sorprende se fra questi bambini si trovano anche i futuri nervosi; sappiamo bene che l'incapacità di sopportare un ingorgo considerevole di libido per un periodo di tempo piuttosto lungo è ciò che facilita maggiormente l'insorgere di una nevrosi. Occorre notare che qui si fa valere anche il fattore costituzionale, la cui importanza non abbiamo mai inteso contestare. D'altra parte dobbiamo guardarci da chi, in favore di tali pretese, trascura tutte le altre e fa ricorso al fattore costituzionale anche là dove, secondo i risultati congiunti dell'osservazione e dell'analisi, esso non ha alcuna parte o va collocato all'ultimo posto.

Permettetemi di trarre le mie conclusioni dalle osservazioni sull'ansietà dei bambini. L'angoscia infantile ha ben poco a che fare con l'angoscia reale, ed è al contrario strettamente imparentata con l'angoscia nevrotica degli adulti. Analogamente a questa, essa scaturisce da libido inutilizzata e rimpiazza l'oggetto amoroso venuto a mancare con un oggetto esterno o con una situazione.

Apprenderete con soddisfazione che l'analisi delle fobie non ci riserva più molte novità. In esse si verifica infatti lo stesso processo che ha luogo nel caso dell'angoscia infantile: la libido inutilizzabile viene trasformata ininterrottamente in un'angoscia apparentemente reale, introducendo così, in sostituzione delle esigenze della libido, un trascurabile pericolo esterno. Non v'è nulla di strano nel fatto che fobie e angoscia infantile concordino, dal momento che le fobie dei bambini non rappresentano solo il modello di quelle successive - che noi annoveriamo nei casi di "isteria d'angoscia" - bensì la loro diretta condizione preliminare e il loro preludio. Ogni fobia isterica risale a un'angoscia infantile, e ne è la continuazione, anche quando ha un altro contenuto e deve quindi essere diversamente denominata. La differenza fra le due affezioni sta nel meccanismo. Nel caso dell'adulto non è più sufficiente, per la trasformazione della libido in angoscia, che la libido - assunta la forma di nostalgia [Sehnsucht] - sia divenuta momentaneamente inutilizzabile. Egli ha imparato da molto tempo a tenere in sospeso tale libido o a impiegarla in altre forme. Ma se la libido appartiene a un impulso psichico che è incorso nella rimozione, si ristabiliscono condizioni simili a quelle in cui si trova il bambino - nel quale non c'è ancora separazione tra coscienza e inconscio -, e tale regressione alla fobia infantile permette, per così dire, che si dischiuda il passaggio attraverso cui la trasformazione della libido in angoscia si realizza senza difficoltà.

Abbiamo trattato a lungo della rimozione, come ricorderete, ma seguendo esclusivamente le sorti della rappresentazione da rimuovere, ovviamente perché erano più facili da riconoscere e da esporre. Non abbiamo ancora affrontato la questione di che cosa accada all'affetto che era stato congiunto alla rappresentazione rimossa; ebbene, soltanto ora apprendiamo che la sua sorte immediata è di essere trasformato in angoscia, a prescindere dalla qualità che può averlo caratterizzato nel suo decorso normale. Tale trasformazione dell'affetto è tuttavia la parte di gran lunga più importante del processo di rimozione. Non è semplice parlarne, perché non possiamo affermare che esistano affetti inconsci nello stesso senso in cui esistono rappresentazioni inconsce. Una rappresentazione resta la stessa, tranne che per un'unica differenza, quella che sussiste tra l'essere cosciente e l'essere inconscio; siamo in grado di indicare cosa corrisponda a una rappresentazione inconscia. Un affetto è invece un processo di scarica che va valutato in modo affatto diverso da una rappresentazione; non possiamo dire, senza una più approfondita riflessione e senza aver chiarito le nostre premesse relative ai processi psichici, che cosa gli corrisponda nell'inconscio. E qui non ci è possibile intraprendere una tale riflessione e un tale chiarimento. Occorre però tener bene a mente l'impressione ora ricavata, vale a dire che lo sviluppo d'angoscia è intimamente legato col sistema dell'inconscio.

Ho detto che la trasformazione in angoscia - o meglio, la scarica sotto forma di angoscia - è la sorte immediata della libido colpita da rimozione. Devo aggiungere: non l'unica né quella definitiva. Nelle nevrosi sono in atto processi che si sforzano di vincolare questo sviluppo d'angoscia, e che talvolta ci riescono in diversi modi. Nelle fobie, per esempio, si possono distinguere chiaramente due fasi del processo nevrotico.

La prima provvede alla rimozione e alla conversione della libido in angoscia, la quale viene legata a un pericolo esterno. La seconda consiste nella strutturazione delle misure cautelative e di sicurezza per mezzo delle quali si deve evitare ogni contatto con questo pericolo, trattato come un fatto esterno. La rimozione corrisponde a un tentativo di fuga dell'Io di fronte alla libido, percepita come pericolo. La fobia può paragonarsi a un trinceramento contro il pericolo esterno, che ora fa le veci della temuta libido. La debolezza del sistema difensivo delle fobie consiste, naturalmente, nel fatto che la fortezza, tanto fortificatasi contro l'invasione dall'esterno, è rimasta attaccabile dall'interno. La proiezione verso l'esterno del pericolo libidico non può mai avere buon fine. Nelle altre nevrosi sono perciò in uso altri sistemi di difesa contro l'eventualità che si generi angoscia. È questo un capitolo molto interessante della psicologia delle nevrosi; ma sfortunatamente esso ci conduce troppo lontano, e presuppone più approfondite conoscenze specifiche. Aggiungerò ancora una sola cosa. Vi ho già parlato del "controinvestimento" che, in caso di rimozione, l'Io impiega e deve continuamente sostenere affinché la rimozione perduri. A questo "controinvestimento" è affidato il compito di attuare le diverse forme di difesa contro l'eventualità che si sviluppi angoscia in seguito alla rimozione.

Torniamo ora alle fobie. Non sbaglierò dicendo che a questo punto vi renderete conto dell'insufficienza di una spiegazione che si occupi soltanto del loro contenuto, vale a dire che non s'interessi ad altro se non a come avvenga che questa o quella cosa o una qualsivoglia situazione possano diventare oggetto di una fobia. Il contenuto di una fobia ha per quest'ultima pressappoco la medesima importanza della facciata onirica manifesta [manifeste Traumfassade] per il sogno. Dobbiamo ammettere, con le necessarie limitazioni, che sono individuabili alcuni contenuti di fobie i quali, come rileva Stanley Hall, sono idonei a diventare oggetti d'angoscia per eredità filogenetica. D'altro canto, con ciò si accorda il fatto che la relazione di molti di questi oggetti d'angoscia con il pericolo assume la forma di un nesso esclusivamente simbolico.

Siamo così giunti alla convinzione che il problema dell'angoscia assuma fra le questioni della psicologia delle nevrosi una posizione assolutamente centrale. Siamo stati fortemente impressionati dal modo in cui lo sviluppo d'angoscia si sia dimostrato legato alle sorti della libido e al sistema dell'inconscio. Un solo punto è rimasto irrelato, quasi una lacuna nella nostra concezione: il fatto, unico ma difficilmente contestabile, che l'angoscia reale debba essere considerata come una manifestazione delle pulsioni di autoconservazione dell'Io.

Lezione 26. La teoria della libido e il narcisismo

Signore e signori, ci siamo occupati più d'una volta, e fino a poco fa, della distinzione tra pulsioni dell'Io e pulsioni sessuali. In primo luogo la rimozione ci ha mostrato che queste possono entrare in contrasto tra loro; in tal caso le pulsioni sessuali soccombono formalmente, e sono costrette a procurarsi soddisfacimento per vie indirette e regressive, trovando così nella propria incoercibilità un compenso per la disfatta subita. Quindi abbiamo appreso che i due tipi di pulsioni hanno fin dall'inizio un diverso rapporto con la necessità dell'educazione [zur Erzieherin Not], per cui non si evolvono nello stesso modo e non vengono a trovarsi nella stessa relazione col principio di realtà. Da ultimo, riteniamo si possa dire che le pulsioni sessuali siano legate allo stato affettivo d'angoscia con vincoli assai più diretti che non le pulsioni dell'Io - risultato, questo, che appare incompleto ancora solo in un punto importante. Per rafforzarlo, vogliamo quindi addurre un elemento rilevante, vale a dire che il mancato soddisfacimento della fame e della sete, le due più elementari pulsioni di autoconservazione, non ha mai come conseguenza il loro mutarsi in angoscia, mentre, come abbiamo visto, la conversione della libido insoddisfatta in angoscia appartiene ai fenomeni meglio conosciuti e più frequentemente osservati.

Il nostro buon diritto di separare le pulsioni dell'Io da quelle sessuali non può d'altronde essere messo in questione. Esso è implicito nell'esistenza stessa della vita sessuale, in quanto attività separata dell'individuo. Ci si può solo chiedere quale significato leghiamo a questa distinzione, quale incisività vogliamo attribuirle. La risposta a questa domanda sarà determinata dalla nostra capacità di appurare la diversità di comportamento delle pulsioni sessuali, nelle loro manifestazioni somatiche e psichiche, rispetto alle pulsioni che contrapponiamo loro, e dall'importanza degli esiti di queste differenze. Naturalmente, ci manca qualsiasi motivo per affermare una diversità essenziale - peraltro difficilmente afferrabile - tra i due gruppi di pulsioni. Entrambi i gruppi ci forniscono solo denominazioni delle fonti energetiche dell'individuo, e la discussione se siano fondamentalmente una sola cosa o essenzialmente diversi - e, nel caso che siano una sola cosa, quando si siano separati l'uno dall'altro - non può essere sviluppata sulla base di definizioni concettuali, ma deve attenersi ai fatti biologici che stanno dietro a quelle definizioni. Per il momento sappiamo troppo poco al riguardo, e del resto, anche se ne sapessimo di più, non sarebbe rilevante per il nostro compito analitico.

Ci sarebbe evidentemente assai poco proficuo anche mettere l'accento, al modo di Jung, sull'unità originaria di tutte le pulsioni, chiamando "libido" l'energia che in tutte si manifesta. Dal momento che non c'è artificio che riesca a eliminare la funzione sessuale dalla vita psichica, ci vediamo costretti a parlare di libido sessuale e di libido asessuale. Il nome "libido" va pertanto impiegato per designare esclusivamente le forze pulsionali della vita sessuale, come finora abbiamo fatto.

Tutto sommato ritengo che la questione fino a che punto si debba proseguire nella distinzione, indubbiamente legittima, tra pulsioni sessuali e pulsioni dell'Io non abbia molta rilevanza per la psicoanalisi; né d'altra parte la psicoanalisi ha la competenza per risolverla. La biologia, però, offre diversi appigli per sostenere che tale distinzione non è irrilevante. La sessualità è infatti l'unica funzione dell'organismo vivente che trascende l'individuo singolo, e provvede a congiungerlo con la specie. Ovviamente l'esercizio della sessualità non sempre giova al singolo come le altre sue funzioni; al contrario, in cambio di un piacere insolitamente elevato, lo espone a pericoli che ne minacciano la vita, e alquanto spesso la rovinano. È probabile, inoltre, che siano necessari processi metabolici particolarissimi, divergenti rispetto a tutti gli altri, per mantenere una porzione della vita individuale disponibile per la progenie. L'organismo singolo, infine, che considera se stesso la cosa principale e la sessualità un mezzo fra gli altri per il proprio soddisfacimento, dal punto di vista biologico è solo un episodio in una successione di generazioni, l'effimera appendice di un plasma germinale dotato di virtuale immortalità, quasi il detentore temporaneo di un fidecommesso [Fideikommisses] che gli sopravviverà.

Ai fini della spiegazione psicoanalitica delle nevrosi non occorrono tuttavia considerazioni di così ampia portata. Con l'aiuto dello studio separato delle pulsioni sessuali e di quelle dell'Io abbiamo ottenuto la chiave per la comprensione delle nevrosi di transfert. Abbiamo potuto ricondurle alla situazione fondamentale, in cui le pulsioni sessuali entrano in conflitto con le pulsioni di conservazione, oppure, per esprimerci in termini biologici (sebbene in modo meno preciso), a una situazione in cui un aspetto dell'Io, in quanto creatura singola indipendente, entra in contrasto con l'altro suo aspetto, in quanto membro di una successione di generazioni. Questo dissidio si verifica probabilmente soltanto nell'uomo, e perciò, in un certo senso, la nevrosi potrebbe venir considerata come la prerogativa specifica dell'uomo rispetto agli animali. È come se l'eccessivo sviluppo della sua libido e il configurarsi di una vita psichica riccamente articolata (resa possibile forse proprio da quello sviluppo) avessero creato le condizioni per il sorgere di un tale conflitto. Ovviamente questi sono anche i presupposti dei grandi passi avanti che l'uomo ha compiuto rispetto alla sua parte animalesca; la sua attitudine alla nevrosi sarebbe insomma solo il rovescio [Kehrseite] di ciò che per altro verso è una dote. Anche queste però sono soltanto speculazioni che ci portano lontano dal nostro compito più immediato.

Il presupposto del nostro lavoro è stato finora quello di riuscire a distinguere le pulsioni dell'Io dalle pulsioni sessuali in base alle loro manifestazioni. Nel caso delle nevrosi di transfert questo ci è stato possibile senza difficoltà. Chiamammo "libido" gli investimenti energetici che l'Io dirige sugli oggetti dei suoi impulsi sessuali, e "interesse" tutti gli altri investimenti, i quali provengono dalle pulsioni di autoconservazione; seguendo gli investimenti libidici, le loro trasformazioni e il loro destino finale, potemmo gettare un primo sguardo nel meccanismo delle forze psichiche. A tal fine il materiale più propizio ci è stato fornito dalle nevrosi di transfert. Ma l'Io, con la sua composizione risultante da diverse organizzazioni, e la struttura e il funzionamento di queste, ci rimasero nascosti, e avemmo motivo di supporre che solo l'analisi di altri disturbi nevrotici avrebbe potuto fornirci la desiderata comprensione.

Ben presto cominciammo a estendere le prospettive psicoanalitiche a queste altre affezioni. Già nel 1908 Karl Abraham, dopo uno scambio di opinioni con me, formulò la tesi che il carattere principale della dementia praecox (annoverata fra le psicosi) consisterebbe nel fatto che in essa manca l'investimento libidico degli oggetti (cfr. Diepsychosexuellen Differenzen der Hysterie und der Dementia praecox). Ma sorse a quel punto l'interrogativo: che cosa avviene della libido dei dementi distolta dagli oggetti? Abraham non esitò a dare la risposta: essa viene fatta riconvergere sull'Io e questa riconversione riflessiva è la fonte del delirio di grandezza della dementia praecox. Il delirio di grandezza si può paragonare sotto ogni aspetto alla comune sopravvalutazione sessuale dell'oggetto nella vita erotica. Abbiamo imparato così, per la prima volta, a comprendere un tratto di un'affezione psicotica mediante il riferimento alla vita amorosa normale.

Vi dico subito che queste prime concezioni di Abraham hanno mantenuto validità nella psicoanalisi, e sono diventate la base della posizione da noi assunta riguardo alle psicosi. Ci familiarizzammo lentamente con l'idea che la libido - che sappiamo ancorata agli oggetti e che esprime l'aspirazione a ottenere un soddisfacimento in relazione a essi - può anche abbandonare questi oggetti e mettere al loro posto l'Io del soggetto; a poco a poco questa idea fu strutturata in modo sempre più conseguente. Il nome che distingue questa collocazione della libido - narcisismo - fu da noi preso a prestito da una perversione descritta da Paul Näcke, nella quale un individuo adulto tratta il proprio corpo con tutte le blandizie che di solito vengono rivolte a un oggetto sessuale esterno.

Viene subito spontaneo pensare che, se esiste una tale fissazione della libido sul proprio corpo e sulla propria persona anziché su un oggetto, ciò non può essere un evento di natura eccezionale o irrilevante. E semmai verosimile che questo narcisismo sia lo stato generale e originario dal quale solo più tardi si è sviluppato l'amore oggettuale, senza che ciò abbia implicato necessariamente la scomparsa del narcisismo. A questo proposito occorreva ricordare, sulla base della storia evolutiva della libido oggettuale, che molte pulsioni sessuali inizialmente si soddisfano sul corpo del soggetto autoeroticamente, e che questa attitudine ali'autoerotismo è la vera ragione per cui, nel corso dell'educazione al principio di realtà, la sessualità rimane indietro. Così dunque l'autoerotismo andava inteso come l'attività sessuale che caratterizza lo stadio narcisistico della collocazione libidica.

Per dirla brevemente, ci siamo rappresentati il rapporto tra libido dell'Io e libido oggettuale in un modo che posso illustrarvi con una similitudine tratta dalla zoologia. Pensate a quegli esseri viventi semplicissimi, composti solo da un grumo scarsamente differenziato di sostanza protoplasmatica. Essi estroflettono dei prolungamenti, chiamati pseudopodi, nei quali fanno affluire la sostanza del loro corpo. Possono però anche ritrarre questi prolungamenti, e raccogliersi di nuovo in forma di grumo. Noi paragoniamo l'estroflessione [Ausstrecken] di questi prolungamenti all'invio di libido sugli oggetti, mentre la massa principale della libido può rimanere nell'Io; e supponiamo che in condizioni normali la libido dell'Io possa venire trasformata senza impedimenti in libido oggettuale, e che quest'ultima possa venire ritirata all'interno dell'Io [wieder ins Ich aufgenommen].

Con l'aiuto di queste rappresentazioni possiamo ora spiegare o, per esprimerci più modestamente, descrivere nel linguaggio della teoria della libido tutta una serie di stati psichici attribuibili alla vita normale, come il comportamento psichico in caso di innamoramento, di malattia organica, di sonno. Per quanto riguarda lo stato di sonno, abbiamo formulato l'ipotesi che esso sia basato sul distogliersi [Abwendung] dal mondo esterno e su un disporsi [Einstellung] al desiderio di dormire. Abbiamo scoperto che l'attività psichica notturna che si esprime nel sogno è al servizio di un desiderio di dormire ed è inoltre dominata da motivi assolutamente egoistici. Conformemente alla teoria della libido, precisiamo ora che il sonno è uno stato nel quale si abbandonano tutti gli investimenti oggettuali, quelli libidici come quelli egoistici, che vengono ritirati nell'Io. Questo non getta forse una nuova luce sul ristoro che proviene dal sonno e sulla natura dell'affaticamento in generale? L'immagine del beato isolamento della vita intrauterina, che il dormiente rievoca per noi ogni notte, è così compiuta anche sotto il profilo psichico. Nel soggetto che dorme si è ristabilito lo stato primario di distribuzione della libido, il pieno narcisismo, nel quale libido e interesse dell'Io, ancora congiunti e indistinguibili, coabitano nell'Io sufficiente a se stesso.

E qui il luogo opportuno per due osservazioni. Anzitutto: come si distinguono concettualmente narcisismo ed egoismo? Ebbene, io credo che il narcisismo sia il completamento libidico dell'egoismo. Parlando di egoismo si focalizza l'attenzione solo al vantaggio dell'individuo; quando si dice narcisismo, si prende in considerazione anche il suo soddisfacimento libidico. In quanto motivi pratici [praktische Motive], i due si possono seguire per un buon tratto separatamente. Si può essere assolutamente egoisti e mantenere, tuttavia, forti investimenti libidici oggettuali nella misura in cui il soddisfacimento libidico sull'oggetto rientra nei bisogni dell'Io; l'egoismo baderà allora che l'aspirazione all'oggetto non rechi alcun danno all'Io. Ma si può essere egoisti e al contempo straordinariamente narcisisti, ossia avere scarsissimo bisogno di oggetti, e ciò, a sua volta, o in relazione al soddisfacimento sessuale diretto o anche in rapporto a quelle aspirazioni più elevate, derivate dal bisogno sessuale, che talora siamo soliti contrapporre alla "sensualità"   definendole "amore". L'egoismo è in tutti questi casi l'elemento ovvio, costante, mentre il narcisismo è quello variabile. Il contrario [Gegensatz] dell'egoismo, l’altruismo, non coincide concettualmente con gli investimenti libidici oggettuali, ma se ne differenzia per l'assenza delle aspirazioni al soddisfacimento sessuale. Nel caso del pieno innamoramento, d'altronde, l'altruismo coincide con l'investimento libidico oggettuale: l'oggetto sessuale attira solitamente su di sé una parte del narcisismo dell'Io, il che diventa visibile nella cosiddetta "sopravvalutazione sessuale" dell'oggetto; se a questo si aggiunge ancora la trasposizione altruistica dell'egoismo sull'oggetto sessuale, quest'ultimo diventa strapotente; esso ha, per così dire, assorbito l'Io. Penso che dopo il linguaggio figurato, ma pur sempre arido, della scienza, gradirete un'esposizione poetica del contrasto economico fra narcisismo e innamoramento. La traggo dal Divari occidentale-orientale di Goethe:

SULEIKA

Molti, servi e trionfatori,

Sempre voglion sostenere

Che il più grande bene umano

Personalità si chiami.

Ogni vita aspetterebbe

Chi non manchi a se medesimo;

Tutto si potrebbe perdere,

Se si resti come s'è.

HATEM

Può anche darsi, è l'opinione,

Io,però, penso diverso;

Tutti i beni trovo uniti

In Suleika solamente.

Se si prodiga con me,

Son un io che val qualcosa;

Se da me si distogliesse,

Sarei subito perduto.

Per Hatem sarebbe fatta,

Ma ho già pronta un'altra via,

M'impersono, senza indugio,

In quel grande che lei ama.

La seconda osservazione che vi sottopongo va a completare la teoria del sogno. Non possiamo spiegarci la genesi del sogno se non introduciamo l'ipotesi che l'inconscio rimosso abbia acquisito una certa indipendenza dall'Io, sì che non consente al desiderio di dormire, e mantiene i propri investimenti anche quando vengono ritirati in favore del sonno tutti gli investimenti oggettuali dipendenti dall'Io. Solo in tal modo è dato comprendere come l'inconscio possa approfittare dell'abolizione o attenuazione notturna della censura, e sappia impadronirsi dei residui diurni per formare col loro materiale un desiderio onirico proibito. D'altra parte è possibile che la resistenza dei residui diurni contro il ritiro della libido - ritiro disposto dal desiderio di dormire - risalga a un collegamento già esistente con questo inconscio rimosso. Vogliamo quindi aggiungere questo tratto dinamicamente importante alla nostra concezione della formazione del sogno.

La malattia organica, la stimolazione dolorosa, l'infiammazione di organi creano uno stato che ha chiaramente come conseguenza un distacco della libido dai suoi oggetti: la libido rifluisce nell'Io sotto forma di investimento intensificato della parte malata del corpo. Si può azzardare l'affermazione che in queste condizioni il ritrarsi della libido dai suoi oggetti sia perfino più appariscente che non lo storno dell'interesse egoistico dal mondo esterno. Sembra qui dischiudersi una via per la comprensione dell'ipocondria, nella quale, allo stesso modo, un organo polarizza su di sé l'Io, senza che questo organo sia percepibilmente malato.

Resisto alla tentazione di andare oltre su questo punto, o di discutere altre situazioni che diventano comprensibili o descrivibili grazie all'ipotesi di una migrazione della libido oggettuale nell'Io; in effetti mi preme ora affrontare due obiezioni che, lo so bene, avete in mente. Per prima cosa volete che vi spieghi perché, a proposito del sonno, della malattia e di situazioni simili, io voglia assolutamente distinguere tra libido e interesse, tra pulsioni sessuali e pulsioni dell'Io - laddove a spiegare questi fatti empirici basterebbe l'ipotesi di un'energia unica e uniforme, liberamente mobile, che si concentra ora sull'oggetto ora sull'Io, ponendosi al servizio sia di una pulsione sia dell'altra. In secondo luogo vi chiederete come io possa essere sicuro che il distacco della libido dall'oggetto provochi uno stato patologico; tale conversione della libido oggettuale in libido dell'Io - o, più generalmente, in energia dell'Io - non rientra forse tra i processi normali della dinamica psichica che si ripetono ogni giorno e ogni notte?

Replico così: la vostra prima obiezione suona bene. Considerando soltanto gli stati di sonno, di malattia e di innamoramento, probabilmente non saremmo mai arrivati a distinguere una libido dell'Io da una libido oggettuale, o la libido dall'interesse. Ma in questo modo voi trascurate le indagini da cui abbiamo preso l'avvio, e alla luce delle quali consideriamo le situazioni psichiche ora in questione. Da un lato la distinzione tra libido e interesse - e quindi tra pulsioni sessuali e pulsioni di autoconservazione - ci è stata imposta dall'esame del conflitto dal quale scaturiscono le nevrosi di transfert: da allora non possiamo più rinunciarvi. Dall'altro lato, l'ipotesi che la libido oggettuale possa trasformarsi in libido dell'Io, che si debba quindi fare i conti con una libido dell'Io, ci è parsa l'unica in grado di dare soluzione all'enigma delle cosiddette nevrosi narcisistiche, per esempio della dementia praecox, e di rendere ragione delle loro affinità e diversità rispetto all'isteria e all'ossessione. Applichiamo dunque ora alla malattia, al sonno e all'innamoramento ciò che abbiamo irrefutabilmente stabilito altrove. Potremmo proseguire in tali applicazioni e vedere dove ci conducono. L'unica affermazione che non sia il diretto risultato della nostra esperienza analitica è che la libido rimane libido, sia che venga rivolta a oggetti, sia al proprio Io, e non si trasforma mai in interesse egoistico, e viceversa. Questa affermazione è però equivalente alla distinzione tra pulsioni sessuali e pulsioni dell'Io - distinzione che abbiamo già vagliato criticamente e alla quale, per motivi euristici, vogliamo attenerci fino al suo eventuale fallimento.

Anche la vostra seconda obiezione coglie un problema che è giusto porsi, ma focalizza l'attenzione in una direzione sbagliata. Certo il ritrarsi della libido oggettuale nell'Io non è direttamente patogeno; vediamo infatti che viene sempre intrapreso prima di dormire, per essere riannullato al risveglio. L'animaletto protoplasmatico ritira i suoi prolungamenti, per estrofletterli nuovamente alla prossima occasione. Ma tutt'altro avviene quando un determinato processo, dotato di forte energia, impone a forza il ritiro della libido dagli oggetti. La libido divenuta narcisistica può allora non trovare la via del ritorno agli oggetti, e questo impedimento alla mobilità della libido diviene effettivamente patogeno. Sembra che l'accumulo di libido narcisistica non venga sopportato oltre una certa misura. Possiamo anche immaginare che si sia giunti all'investimento oggettuale appunto perché l'Io ha dovuto sprigionare la sua libido per non ammalarsi a causa del suo ingorgo [Stauung]. Se rientrasse nei nostri piani occuparci più a fondo della dementia praecox, vi mostrerei che quel processo che stacca la libido dagli oggetti e le sbarra la via del ritorno ad essi è molto vicino al processo di rimozione, e va inteso come un corrispettivo di quest'ultimo. Soprattutto, però, vi sentireste su un terreno conosciuto apprendendo che le condizioni di questo processo sono quasi identiche - per quanto ne sappiamo finora -a quelle della rimozione. Il conflitto sembra essere il medesimo e svolgersi tra le stesse forze. Se l'esito è così diverso da quello, per esempio, dell'isteria, la ragione può risiedere solo in una diversità della disposizione. In questi malati lo sviluppo libidico ha il suo punto debole in un'altra fase; la fissazione decisiva, che, come ricorderete, permette l'irruzione che conduce alla formazione dei sintomi, è situata altrove, probabilmente nello stadio del narcisismo primitivo, al quale la dementia praecox fa ritorno nel suo esito finale. E assai degno di nota che per tutte le nevrosi narcisistiche dobbiamo supporre punti di fissazione della libido che risalgono a fasi dello sviluppo di gran lunga più remote che nell'isteria o nella nevrosi ossessiva. Avete visto, però, che i concetti che abbiamo acquisito nello studio delle nevrosi di transfert sono sufficienti anche per orientarci nelle nevrosi narcisistiche, le quali sono tanto più gravi sul piano pratico. Ciò che hanno in comune è moltissimo; si tratta, in fondo, dello stesso ambito di fenomeni. Non è difficile immaginare quanto sia priva di prospettive la spiegazione di queste affezioni (che già sono di competenza della psichiatria) per chi sia sprovvisto di una conoscenza analitica delle nevrosi di transfert.

Il quadro sintomatico della dementia praecox, che del resto è pieno di variabili, non è determinato esclusivamente dai sintomi originati dal distacco violento della libido dagli oggetti e dal suo accumularsi nell'Io come libido narcisistica. Uno spazio più ampio assumono piuttosto altri fenomeni, che nascono dagli sforzi della libido di pervenire nuovamente agli oggetti, e che corrispondono quindi a un tentativo di ristabilimento o di guarigione. Questi sintomi sono anzi i più appariscenti ed eclatanti; essi sembrano avere un'indubbia affinità con quelli dell'isteria, o, più raramente, con quelli della nevrosi ossessiva, benché siano diversi da questi in ogni punto. Sembra che nella dementia praecox la libido, sforzandosi di tornare a raggiungere gli oggetti (ossia le rappresentazioni degli oggetti), ne colga effettivamente qualcosa, ma, per così dire, solo l'ombra, e cioè le rappresentazioni verbali che ad essi sono connesse. Non posso qui dilungarmi, ma penso che questo comportamento della libido, che cerca la via del ritorno, ci abbia permesso di comprendere in cosa consista effettivamente la differenza tra le rappresentazioni consce e quelle inconsce.

Vi ho condotti ora nell'ambito in cui ci si devono aspettare i prossimi passi avanti del lavoro analitico. Da quando abbiamo il coraggio di avvalerci del concetto di libido dell'Io, le nevrosi narcisistiche ci sono diventate accessibili; ne è derivato il compito di pervenire ad una spiegazione dinamica di tali affezioni, e contemporaneamente di perfezionare la nostra conoscenza della vita psichica mediante la comprensione dell'Io. La psicologia dell'Io, alla quale tendiamo, non deve essere fondata sui dati delle nostre autopercezioni [Selbstwahrnehmungen] ma, come per la libido, sull'analisi dei disturbi e delle devastazioni dell'Io. È verosimile che non terremo in gran conto la nostra attuale conoscenza dei destini della libido, attinta dallo studio delle nevrosi di transfert, quando quel lavoro - lavoro più impegnativo - sarà compiuto. D'altra parte non abbiamo ancora fatto molti progressi in questa direzione. Le nevrosi narcisistiche non sono praticamente aggredibili con la tecnica di cui ci siamo serviti nelle nevrosi di transfert. Ne conoscerete presto la ragione. Con esse ci succede sempre che dopo un breve passo innanzi veniamo a trovarci di fronte a un muro, che ci impone un arresto. Anche nelle nevrosi di transfert, come sapete, ci siamo imbattuti in tali barriere di resistenza, ma siamo riusciti a smantellarle pezzo per pezzo. Nel caso delle nevrosi narcisistiche la resistenza è insuperabile; possiamo al massimo gettare uno sguardo curioso al di sopra del muro per spiare cosa avvenga dall'altra parte. Le nostre metodologie tecniche devono quindi essere sostituite con altre; non sappiamo ancora se saremo in grado di operare una simile sostituzione. Anche nel caso di questi malati, invero, non ci manca il materiale. Essi fanno ogni sorta di esternazioni [Äuβerungen], anche se non in risposta a nostre domande, e noi non abbiamo provvisoriamente altra risorsa che interpretare tali esternazioni con l'aiuto della comprensione che ci viene dai sintomi delle nevrosi di transfert. La concordanza è sufficiente per assicurarci un vantaggio iniziale. Resta da vedere fino a dove giungerà questa tecnica.

Vi sono ulteriori difficoltà che ostacolano il nostro progresso. Le affezioni narcisistiche, e le psicosi che ad esse si riconnettono, possono essere decifrate solo da osservatori che si siano addestrati analiticamente con lo studio delle nevrosi di transfert. Ma i nostri psichiatri non studiano la psicoanalisi e noi psicoanalisti vediamo troppo pochi casi psichiatrici. Dovrà prima maturare una generazione di psichiatri che sia passata attraverso la scuola della psicoanalisi come scienza propedeutica. Si è iniziato questo percorso in America, dove moltissimi eminenti psichiatri espongono agli studenti le dottrine psicoanalitiche, e dove proprietari di istituti e direttori di manicomi si sforzano di osservare i loro malati in conformità a queste dottrine. Tuttavia è accaduto anche a noi, in alcuni casi, di riuscire a gettare uno sguardo al di sopra del muro narcisistico; quanto segue è il resoconto di quello che crediamo di aver colto.

La forma di malattia detta paranoia, la pazzia cronica sistematica, occupa una posizione oscillante nei tentativi di classificazione dell'odierna psichiatria. Non vi è tuttavia alcun dubbio sulla sua stretta parentela con la dementia praecox. Una volta mi sono permesso di proporre di riunire paranoia e dementia praecox sotto la comune denominazione di parafrenia [Paraphrenie]. A seconda del loro contenuto, le forme di paranoia vengono descritte come: delirio di grandezza, delirio di persecuzione, delirio erotico (erotomania), delirio di gelosia ecc. Non ci aspetteremo tentativi di spiegazione da parte della psichiatria. Come esempio di un simile tentativo - esempio per la verità antiquato e non del tutto valido - vi menziono quello di far derivare un sintomo da un altro tramite una razionalizzazione intellettuale: il malato, che per inclinazione primaria si crede perseguitato, dedurrà da questa persecuzione di dover essere una personalità di particolare importanza, e svilupperà quindi il delirio di grandezza. Secondo la nostra concezione analitica il delirio di grandezza è la conseguenza immediata dell'espansione dell'Io causata dal ritiro degli investimenti libidici oggettuali: un narcisismo secondario che è un ritorno dell'originario narcisismo infantile. Analizzando casi di delirio di persecuzione abbiamo osservato qualcosa che ci ha indotti a seguire una certa traccia. Fummo colpiti anzitutto dal fatto che nella grande maggioranza dei casi il persecutore era dello stesso sesso del perseguitato. Naturalmente ciò era spiegabile anche in termini non patologici, ma in alcuni casi, studiati a fondo, si evidenziò come la persona dello stesso sesso più amata dal paziente quando era sano si era tramutata, dopo l'inizio della malattia, nel suo persecutore. Un ulteriore passo fu reso possibile dal fatto che la persona amata veniva sostituita da un'altra persona in base a ben note affinità (per esempio il padre dall'insegnante, o dal superiore). Da tali esperienze, che andavano sempre più moltiplicandosi, traemmo la conclusione che la "paranoia persecutoria" fosse la forma morbosa con cui l'individuo si difende da un impulso omosessuale divenuto troppo intenso. Il mutarsi della tenerezza in odio, che può notoriamente diventare una seria minaccia per la vita dell'oggetto amato e odiato, corrisponde in questi casi alla conversione di impulsi libidici in angoscia - il che costituisce un esito immancabile del processo di rimozione. Sentite, per esempio, l'ultima delle mie osservazioni in merito a questo caso. Un giovane medico dovette essere cacciato dalla sua città natale perché aveva minacciato di morte il figlio di un professore universitario del luogo, che fino ad allora era stato il suo migliore amico. A questo suo amico di un tempo egli attribuiva reali intenzioni diaboliche e un potere demoniaco: era lui il colpevole di ogni disgrazia che negli ultimi anni aveva colpito la famiglia del malato, di ogni suo insuccesso familiare e sociale. Ma non basta: l'amico malvagio, insieme a suo padre, il professore, aveva anche provocato la guerra, aveva chiamato i Russi nel paese. Si era meritato mille volte la morte, e il nostro malato era convinto che con la fine del malfattore si sarebbe posto termine ad ogni sciagura. D'altra parte il suo antico amore per lui era ancora così forte da paralizzargli la mano quando gli si offrì l'occasione di ucciderlo, sparandogli a bruciapelo. Nelle brevi conversazioni che ebbi con il paziente, venne alla luce che la relazione amichevole tra i due risaliva ai lontani anni del ginnasio. Una volta almeno essa aveva oltrepassato i limiti dell'amicizia: una notte trascorsa insieme era diventata per essi l'occasione di un rapporto sessuale completo. Il nostro paziente non aveva mai raggiunto con le donne quel rapporto emotivo che sarebbe stato adeguato alla sua età e alla sua attraente personalità. Una volta era stato fidanzato con una bella e nobile fanciulla, ma questa aveva rotto il fidanzamento perché non trovava il suo futuro sposo abbastanza affettuoso. Alcuni anni più tardi la sua malattia scoppiò proprio nel momento in cui riuscì per la prima volta a soddisfare pienamente una donna. Quando ella lo abbracciò riconoscente e piena di dedizione, fu colto improvvisamente da un misterioso dolore, che gli girava intorno alla calotta cranica come un taglio netto. Più tardi egli si spiegò questa sensazione come se gli venisse eseguito il taglio con il quale in un'autopsia si mette a nudo il cervello; e poiché il suo amico era diventato anatomopatologo, si convinse lentamente che solo lui poteva avergli mandato quell'ultima donna per tentarlo. Da quel momento gli si aprirono gli occhi anche sulle altre persecuzioni, di cui secondo lui era vittima per le macchinazioni dell'amico di un tempo.

Ma che dire dei casi nei quali il persecutore non è dello stesso sesso del perseguitato, ovvero in quei casi che apparentemente contraddicono la nostra spiegazione in termini di difesa contro la libido omosessuale? Qualche tempo fa ho avuto occasione di esaminare un caso del genere, e dall'apparente contraddizione ho potuto trarre una conferma. La giovane, che si credeva perseguitata dall'uomo al quale aveva concesso due teneri incontri, in un primo tempo, in effetti, aveva avuto un delirio riferito a una donna, che possiamo considerare un sostituto di sua madre. Solo dopo il secondo convegno compì il passo successivo di distogliere il delirio dalla donna per trasferirlo sull'uomo. La condizione che il persecutore sia dello stesso sesso era stata dunque originariamente rispettata anche in questo caso. Nel rivolgersi a un avvocato e a un medico, la paziente non aveva menzionato questo stadio preliminare del suo delirio, e aveva così suscitato l'impressione che la nostra dottrina della paranoia potesse essere contraddetta.

La scelta oggettuale omosessuale è originariamente più vicina al narcisismo della scelta eterosessuale. Quando poi si tratta di respingere un impulso omosessuale di indesiderata intensità, la via del ritorno al narcisismo diventa particolarmente agevole. Finora ho avuto pochissime occasioni di parlarvi dei fondamenti della vita amorosa, così come li conosciamo; né posso farlo ora. Vorrei solo rilevare che la scelta oggettuale -il passo che nello sviluppo della libido succede allo stadio narcisistico - può attuarsi secondo due tipi diversi: o secondo il tipo narcisistico di scelta oggettuale, allorché al posto del proprio Io subentra un oggetto il più possibile simile ad esso, o secondo il tipo per appoggio [Anlehnungstypus], allorché persone diventate preziose perché danno soddisfazione agli altri bisogni vitali vengono scelte come oggetti anche dalla libido. Una forte fissazione della libido al tipo narcisistico di scelta oggettuale fa anche parte, secondo noi, della disposizione all'omosessualità manifesta.

Vi ricorderete che nella prima lezione di questo anno accademico vi ho parlato di un caso di delirio di gelosia in una donna. Ora che siamo prossimi alla fine, desidererete certamente sapere come ci spieghiamo psicoanaliticamente un'idea delirante. A questo proposito, tuttavia, ho da dirvi meno di quanto vi aspettiate. L'inafferrabilità dell'idea delirante mediante argomentazioni logiche ed esperienze reali si spiega, come per l'ossessione, con la sua relazione con l'inconscio, il quale è rappresentato [repräsentiert] e tenuto a freno dall'idea delirante o ossessiva. La differenza tra queste è basata sulla diversa topica e dinamica delle due affezioni.

Come per la paranoia, anche nel caso della melanconia (della quale, del resto, si descrivono forme cliniche molto diverse) abbiamo trovato un punto da cui diventa possibile gettare uno sguardo nella struttura interna dell'affezione. Abbiamo scoperto che gli autorimproveri [Selbstvorwürfe] con cui questi melanconici si tormentano nel modo più spietato sono destinati in effetti a un'altra persona, all'oggetto sessuale che costoro hanno perduto o che è divenuto per essi privo di valore per sua colpa. Di qui abbiamo potuto concludere che, pur avendo il melanconico ritirato la sua libido dall'oggetto, quest'ultimo, attraverso un processo che deve essere chiamato di "identificazione narcisistica", è stato eretto nell'Io stesso, è stato per così dire proiettato sull'Io. In questa sede non posso far altro che abbozzarvi un quadro d'insieme, non posso fornirvi una descrizione ordinata sotto il profilo topico e dinamico. Diciamo brevemente che dal melanconico il proprio Io viene trattato come l'oggetto abbandonato,e subisce tutte le aggressioni e le manifestazioni della sete di vendetta che erano destinate all'oggetto. Anche l'inclinazione dei melanconici al suicidio diventa più comprensibile se si considera che l'esasperazione dell'ammalato colpisce nello stesso tempo il suo stesso Io e l'oggetto a un tempo amato e odiato. Nella melanconia, come nelle altre affezioni narcisistiche, viene alla luce in modo molto marcato un tratto della vita emotiva che da Bleuler in poi siamo abituati a designare come ambivalenza. Intendiamo con ciò il rivolgersi verso la stessa persona di sentimenti opposti, affettuosi e ostili. Purtroppo, nel corso di queste lezioni, non ho avuto modo di parlarvi più a lungo dell'ambivalenza emotiva.

Oltre all'identificazione narcisistica, ve n'è una isterica, che ci è nota da molto più tempo. Vorrei potervi illustrare le loro diversità facendo ricorso ad alcune chiare precisazioni. Riguardo alle forme periodiche e cicliche della melanconia, sono in grado di comunicarvi una cosa che certamente sarete lieti di apprendere. In circostanze favorevoli è possibile - io stesso l'ho sperimentato due volte - prevenire, mediante trattamento analitico negli intervalli liberi, il ritorno allo stesso stato d'animo o a quello opposto. Si apprende così che anche nella melanconia e nella mania abbiamo a che fare con una particolare maniera di liquidare un conflitto i cui presupposti concordano perfettamente con quelli delle altre nevrosi. Potete immaginarvi quanto vi sia ancora da apprendere per la psicoanalisi in quest'ambito.

Vi ho detto anche che attraverso l'analisi delle affezioni narcisistiche speriamo di giungere alla conoscenza di come il nostro Io è composto, e di come è strutturato in istanze. In un punto abbiamo cominciato a farlo. Dall'analisi del delirio di essere osservati [Beobachtungswahnes] abbiamo tratto la conclusione che nell'Io c'è realmente un'istanza che osserva, critica e confronta ininterrottamente, contrapponendosi in tal modo all'altra parte dell'Io. Riteniamo quindi che l'ammalato ci riveli una verità da noi non ancora sufficientemente apprezzata, quando si lamenta che ognuno dei suoi passi viene spiato e osservato, ognuno dei suoi pensieri riportato e criticato. Egli sbaglia solo nel trasportare all'esterno questo incomodo potere, quasi gli fosse estraneo. Il soggetto avverte nel suo Io il dominio di un'istanza che commisura il suo Io attuale, e ognuna delle sue attività a un Io ideale che egli è venuto creandosi nel corso del suo sviluppo. Riteniamo inoltre che tale creazione sia stata effettuata nell'intento di ripristinare quella autosoddisfazione che era collegata al narcisismo infantile primario, ma che da allora è stata così spesso turbata e mortificata. L'istanza autoosservatrice [selbstbeobachtende Instanz] ci è nota come il censore dell'Io [Ichzensor], la coscienza morale; è la stessa che nottetempo esercita la censura onirica dalla quale hanno origine le rimozioni contro impulsi di desideri inammissibili. Quando nel delirio di essere osservati questa istanza si scinde, ci svela la propria origine negli influssi dei genitori, degli educatori e dell'ambiente sociale, vale a dire nell'identificazione con l'una o l'altra di queste persone esemplari.

Questi sono alcuni dei risultati che l'applicazione della psicoanalisi alle affezioni narcisistiche ci ha fino ad oggi fornito. Certamente sono ancora troppo pochi, e spesso mancano ancora di quella precisione che può essere ottenuta solo se si raggiunge una sicura dimestichezza col nuovo ambito di ricerche. Dobbiamo tutti questi risultati all'utilizzazione del concetto di libido dell'Io o libido narcisistica, mediante il quale estendiamo alle nevrosi narcisistiche le concezioni che si sono dimostrate valide per le nevrosi di transfert. Ora però vi verrà spontanea una domanda: è possibile riuscire a far rientrare nella teoria della libido tutti i disturbi delle affezioni narcisistiche e delle psicosi? È possibile riconoscere ovunque quale causa della malattia il fattore libidico della vita psichica, e non doverla mai imputare a un cambiamento funzionale delle pulsioni di autoconservazione? Orbene, signore e signori, questa decisione non mi sembra urgente, né, soprattutto, ì tempi mi paiono maturi per prenderla. Possiamo tranquillamente affidarla al progresso del lavoro scientifico. Non mi meraviglierei se la facoltà di produrre l'effetto   patogeno risultasse davvero prerogativa delle pulsioni libidiche, così che la teoria della libido celebrerebbe un giorno il suo trionfo su tutto il fronte, dalle "nevrosi attuali" più semplici fino alla più grave alienazione psicotica della personalità. Sappiamo già che tratto caratteristico della libido è la sua riluttanza a subordinarsi alla realtà del mondo, alla anagkne. Ma ritengo estremamente probabile che le pulsioni dell'Io vengano trascinate in via secondaria [sekundär mitgerissen] dalle sollecitazioni patogene della libido, e costrette a subire disturbi funzionali. D'altronde non potrei vedere un fallimento della nostra prospettiva di ricerca se per caso dovessi scoprire che nelle psicosi gravi le pulsioni dell'Io fossero sviate in maniera primaria; il futuro darà la risposta - a Voi perlomeno.

Permettetemi, infine, di tornare ancora per un istante all'angoscia, per far luce su un ultimo elemento oscuro che vi abbiamo lasciato. Abbiamo detto che secondo noi non concordava con la relazione fra angoscia e libido (altrimenti così ben riconosciuta) il fatto che l'angoscia reale, la paura di fronte a un pericolo, debba essere l'espressione delle pulsioni di autoconservazione - il che, peraltro, è difficilmente confutabile. Ma che cosa accadrebbe se l'affetto d'angoscia non fosse provocato dalle pulsioni egoistiche dell'Io, ma dalla libido dell'Io? Dopo tutto, lo stato d'angoscia è in ogni caso inadeguato, e la sua inadeguatezza [Unzweckmäs-sigkeit] si palesa chiaramente allorché esso raggiunge un grado piuttosto elevato. Esso disturba allora l'azione - sia essa di fuga, sia di difesa -, che sola è opportuna e si pone al servizio dell'autoconservazione. Se noi attribuiamo dunque la componente affettiva dell'angoscia reale alla libido dell'Io, e la relativa azione alla pulsione di conservazione dell'Io, abbiamo con ciò eliminato ogni difficoltà teorica. Del resto, non crederete seriamente che si fugga poiché [weil] si è in preda all'angoscia! No, diciamo invece che la sensazione di angoscia e l'azione della fuga hanno in comune il fattore motivante [gemeinsamen Motiv], risvegliato dalla percezione del pericolo. Uomini che hanno superato grandi pericoli mortali raccontano di non essere stati affatto angosciati, ma di aver semplicemente agito, per esempio puntando l’arma control1’animale feroce, e questa era sicuramente la cosa migliore da fare.

Lezione 27. Il transfert

Signore e signori, dal momento che ci avviciniamo alla conclusione delle nostre conversazioni, si sarà probabilmente destata in voi una particolare aspettativa, che non deve andare delusa. Voi certo non penserete che vi abbia condotti attraverso le molteplici vie della psicoanalisi per poi congedarvi senza dire una parola sulla terapia, dalla quale dipende, in definitiva, la possibilità stessa dell'esercizio psicoanalitico. Il tema, peraltro, è tale che mi risulterebbe impossibile non parlarvi di questo aspetto, dal momento che quanto osserverete rispetto ad esso vi consentirà di apprendere un fatto nuovo, senza il quale la comprensione delle malattie da noi analizzate rimarrebbe decisamente incompleta.

So bene che non vi aspettate un avviamento alla tecnica analitica per l'esercizio terapeutico. Ciò che vi preme sapere è, in generale, in qual modo agisca la terapia psicoanalitica, e quali ne siano approssimativamente i risultati. Ovviamente avete il diritto di sapere tutto ciò. Tuttavia non è mia intenzione dirvelo, e insisto perché lo indoviniate voi stessi.

Riflettete un istante! Avete ormai appreso l'essenziale riguardo le condizioni che determinano la malattia, come pure la totalità dei fattori che fanno sentire i loro effetti dopo che il soggetto si è ammalato. Che spazio resta all'influenza che la terapia psicoanalitica può esercitare?

Anzitutto va considerata la disposizione ereditaria - non ci accade spesso di parlarne, poiché la sua importanza viene energicamente evidenziata da altri, e non abbiamo nulla di nuovo da dire al riguardo. Non crediate però che la sottovalutiamo; proprio come terapeuti abbiamo la possibilità di avvertirne piuttosto chiaramente il potere. Senza d'altra parte poterla minimamente modificare. Anche per noi essa rimane un dato che pone precisi limiti ai nostri sforzi.

Vi è poi l'influenza delle prime esperienze infantili, che nell'analisi siamo usi porre in primo piano; esse appartengono al passato, e non possiamo far sì che non siano avvenute.

Quindi va tenuto presente tutto ciò che abbiamo sussunto sotto il concetto di "frustrazione reale" [reale Versagung}: la sfortuna nella vita (dalla quale origina la mancanza d'amore), la povertà, i conflitti familiari, l'infausta scelta coniugale, le sfavorevoli condizioni sociali, le severe imposizioni etiche che opprimono l'individuo. Certamente vi sarebbero qui parecchi appigli per una terapia davvero efficace, ma dovrebbe trattarsi di una terapia simile a quella che, secondo la tradizione popolare, veniva esercitata dall'imperatore Giuseppe - vale a dire l'intervento benefico di un potente, davanti al cui volere gli uomini si piegano e le difficoltà svaniscono. Ma chi siamo noi, per porre alla base della nostra terapia una simile disposizione taumaturgica? Poveri noi stessi, socialmente privi di potere, costretti a provvedere al nostro sostentamento colla nostra attività medica, non siamo neppure nella condizione di rivolgere i nostri sforzi a chi è indigente, come possono fare altri medici, con altri metodi terapeutici; il nostro trattamento richiede troppo tempo ed è troppo laborioso. Eppure, forse, voi vi aggrappate ad uno degli aspetti elencati, e credete di trovare in esso il luogo in cui può esercitarsi la vostra influenza: se la restrizione della morale che la società pretende ha la sua parte nella privazione imposta al malato, il trattamento potrebbe dargli coraggio, o perfino indicargli la via per non curarsi di questi limiti, per ottenere guarigione e soddisfazione rinunciando all'adempimento di un ideale ritenuto elevato dalla società, ma tanto frequentemente inosservato da essa stessa. La guarigione in effetti consiste appunto nel godimento della propria sessualità [sich sexuell "auslebt"]. In verità si tratta di una forma di guarigione che getta un'ombra sul trattamento analitico, nella misura in cui non si pone al servizio della moralità comune. Quello che dona al singolo lo sottrae alla comunità.

Ma, signore e signori, chi vi ha così male informati? È da escludere che il consiglio di godersi la vita sessualmente rivesta una funzione nella terapia psicoanalitica. Lo esclude già il solo fatto di aver affermato che negli ammalati esiste un ostinato conflitto tra l'impulso libidico e la rimozione sessuale, tra l'orientamento sessuale e quello ascetico. Tale conflitto non viene liquidato aiutando uno dei due orientamenti a prevalere sul suo opposto. Si consideri, ad esempio, che nel nervoso l'ascesi ha il sopravvento; ne consegue che la spinta sessuale repressa trova uno sfogo nei sintomi. Ora, se al contrario assicurassimo la vittoria alla sensualità, la rimozione sessuale da noi eliminata verrebbe inevitabilmente sostituita da sintomi. Nessuna delle alternative porrebbe termine al conflitto interno; una delle due parti in questione rimarrebbe ogni volta insoddisfatta. Vi sono pochi casi in cui il conflitto sia così labile da consentire ad un fattore come la presa di posizione del medico di divenire decisivo; e in questi casi il trattamento analitico è tutto sommato inutile. Chi si lasciasse influenzare in tal modo dal medico troverebbe la stessa strada anche senza di lui. Come ben sapete, né un giovane astinente che si decide ad avere rapporti sessuali illeciti, né una donna sessualmente insoddisfatta che cerca l'appagamento con un altro uomo aspettano il permesso del medico, o dell'analista.

A tal proposito si è soliti sorvolare su un punto essenziale: il conflitto patogeno dei nevrotici non va scambiato per una normale lotta [Kampf\ tra impulsi psichici collocati sullo stesso terreno psicologico. Si tratta di un contrasto di forze: una di esse è giunta al livello del preconscio e del conscio, mentre l'altra è stata trattenuta al gradino dell'inconscio. Per questa ragione il conflitto non può giungere a conclusione: i contendenti non hanno nulla da spartire tra loro, similmente ad un orso polare con una balena. Solo quando i due si incontrano sullo stesso terreno può darsi un esito decisivo. E in fondo l'unico scopo della terapia è, a mio avviso, appunto quello di rendere possibile questo incontro.

Posso assicurarvi, inoltre, che siete male informati se pensate che l'influsso dell'analisi sia direttamente volto a consigliare e a guidare nelle faccende della vita. Per quanto possibile, respingiamo, al contrario, il ruolo di mentori, dal momento che quello che più ci preme è proprio che il paziente prenda autonomamente le sue decisioni. A tal fine gli chiediamo di rimandare per la durata del trattamento tutte le decisioni cruciali per la sua vita, la scelta della professione, le operazioni finanziarie, il matrimonio o la separazione, e di metterle in pratica solo dopo la fine della terapia. Confessate che questo è completamente diverso da quello che avevate immaginato. Solo nel caso di persone molto giovani, o sprovvedute, o instabili, non riusciamo a far valere questa auspicabile limitazione. Occorre allora combinare l'opera del medico con quella dell'educatore; siamo ben consapevoli della nostra responsabilità, e ci comportiamo con la dovuta cautela.

Dallo zelo con cui mi difendo dall'accusa che nella terapia analitica il nervoso venga incoraggiato a godersi la vita, non dovete trarre la conclusione che operiamo su di lui in favore della morale sociale. Questo è a dir poco altrettanto lontano dalle nostre intenzioni. Indubbiamente non siamo riformatori, ma semplici osservatori; d'altra parte non possiamo evitare di osservare la realtà con occhio critico, e ci è risultato impossibile prendere partito a favore della morale sessuale convenzionale, o considerare positivamente il modo in cui la società tenta di regolare nella pratica le questioni sessuali. Con un calcolo assai semplice dei costi e dei benefici possiamo dimostrare alla società che ciò che essa chiama la sua moralità costa più sacrifici di quanto meriti, e che il suo modo di procedere non ha fondamento di verità né dimostra saggezza. A questa critica non rinunziamo neppure di fronte ai nostri pazienti, e cerchiamo di abituarli a riflettere senza preconcetti sulle questioni sessuali, così come su tutte le altre. Se dunque essi, conquistata la propria indipendenza al termine della cura, decidono, in base al proprio giudizio, di assumere una posizione intermedia tra il pieno godimento della vita e l'ascesi incondizionata, non ci sentiamo in colpa per questo, quale che sia la loro decisione. La nostra convinzione è che chi sia giunto con successo ad educarsi alla verità è definitivamente protetto dal pericolo di immoralità - anche nel caso in cui il suo metro di giudìzio rispetto alle questioni morali diverga in qualche aspetto da quello in uso nella società. Guardiamoci, del resto, dal sopravvalutare l'influenza dell'astinenza sulle nevrosi. Solo in una minoranza di casi si può porre fine alla situazione patogena della frustrazione, e al conseguente ingorgo libidico, attraverso quella forma di godimento sessuale ottenibile con poca fatica.

L'effetto terapeutico della psicoanalisi non può dunque venir spiegato con l'argomento che essa autorizzerebbe a godersi la vita sessualmente. Dovete cercare altrove. Credo d'altronde che, respingendo questa vostra congettura, vi abbia in qualche modo messo sulla giusta traccia. Potrebbe trattarsi del fatto di sostituire l'inconscio col conscio, di tradurre l'inconscio nel cosciente. Ed è certo così. Facendo affiorare l'inconscio alla coscienza aboliamo le rimozioni, eliminiamo le condizioni per la formazione dei sintomi, trasformiamo il conflitto patogeno in conflitto normale, destinato a trovare una qualche soluzione. Null'altro che tale mutamento psichico è ciò che l'analisi produce nel paziente: sin dove giunge tale mutamento si spinge il nostro aiuto. Ove non siano la rimozione o un processo psichico analogo da far recedere, non vi è posto per la nostra terapia.

Possiamo esprimere la finalità dei nostri sforzi mediante varie formulazioni: rendere cosciente l'inconscio, abolire le rimozioni, colmare le lacune della memoria. Tutto ciò indica la stessa cosa. Ma forse non siete soddisfatti di questa spiegazione. Forse vi siete immaginati che il processo di guarigione del malato sia qualcosa di diverso, che egli, dopo essersi sottoposto al faticoso lavoro di una psicoanalisi, diventi un altro uomo; e alla fine tutto il risultato consisterebbe nel fatto che egli ha in sé un po' meno di inconscio e un po' più di conscio rispetto a prima. È probabile che voi sottovalutiate l'importanza di un simile mutamento interiore. Il nervoso guarito è davvero diventato un altro uomo, benché, fondamentalmente, sia rimasto lo stesso; egli è diventato in altri termini ciò che avrebbe potuto diventare nel migliore dei casi nelle condizioni più favorevoli. Questo è un risultato importantissimo. Se poi considerate ulteriormente ciò che occorre fare e gli sforzi necessari per compiere quel cambiamento apparentemente insignificante nella sua vita psichica, non potrà più sfuggirvi l'importanza di un simile mutamento interiore.

Mi allontano per un momento dal tema principale per chiedervi se sapete cosa una terapia causale [kausale Terapie]. Si definisce in tal modo un procedimento che non si focalizza sulle manifestazioni della malattia, ma si propone l'eliminazione delle sue cause. Ora, la nostra terapia psicoanalitica è una terapia causale o no? La risposta non è semplice, ma forse ci offre l'occasione di persuaderci che un simile modo dì porre la questione non ha senso. La terapia analitica si comporta come una terapia causale, nella misura in cui non si pone come primo compito l'eliminazione dei sintomi; da un altro punto di vista, tuttavia, potete dire che non lo è. Per lungo tempo abbiamo seguito la concatenazione causale oltre le rimozioni, risalendo fino alle disposizioni pulsionali, alle loro relative intensità [Intensitäten] nella costituzione e alle deviazioni prodottesi durante il loro sviluppo. Immaginate ora che fosse possibile per noi intervenire, ad esempio con mezzi chimici, su questo meccanismo, che riuscissimo ad elevare o a ridurre la quantità di libido presente in un dato momento, o a rafforzare una pulsione a spese di un'altra. In tal caso avremmo una terapia causale nel vero senso della parola, rispetto alla quale la nostra analisi avrebbe fornito l'indispensabile lavoro preliminare di ricognizione. Come sapete, attualmente è da escludere la possibilità di intervenire in questo modo sui processi libidici; con la nostra terapia psichica noi attacchiamo un altro punto del complesso, non quelle che ci sono note come le radici dei fenomeni, ma che tuttavia sono piuttosto lontane dai sintomi, attacchiamo cioè un punto che ci è divenuto accessibile grazie a circostanze alquanto singolari. In che modo dobbiamo operare per sostituire nel nostro paziente l'inconscio con il conscio? Una volta credevamo che la cosa fosse semplicissima, che occorresse soltanto scoprire questo inconscio e comunicarglielo. Ma sappiamo già che si trattava di una miope illusione. La nostra conoscenza dell'inconscio non ha lo stesso valore della sua conoscenza da parte del paziente; se gli comunichiamo la nostra conoscenza, egli non la pone al posto del suo inconscio, ma accanto a questo; e il cambiamento che ne deriva è minimale. Bisogna che ci rappresentiamo questo inconscio topicamente, dobbiamo andarlo a cercare nel ricordo del paziente, nel luogo, cioè, in cui si è formato mediante rimozione. Questa rimozione deve essere eliminata, e in tal modo diviene agevole la sostituzione dell'inconscio con il conscio. In che modo, dunque, eliminare questa rimozione? Si presenta qui una seconda fase del nostro compito. Anzitutto, la ricerca della rimozione; quindi l'eliminazione della resistenza che sostiene questa rimozione.

Come si elimina la resistenza? Nello stesso modo: scoprendola e mostrandola al paziente. Anche la resistenza deriva infatti da una rimozione, ossia dalla stessa rimozione che cerchiamo di risolvere, o da una generatasi precedentemente. La resistenza è stata prodotta dal controinvestimento nato per rimuovere l'impulso sconveniente. Facciamo a questo punto la medesima cosa che cercavamo di fare all'inizio: interpretare, scoprire e comunicare; ma ora la facciamo nel luogo giusto. Il controin-vestimento o resistenza non appartiene all'inconscio, ma all'Io, che coopera con noi, e ciò anche nel caso in cui la resistenza non dovesse essere cosciente. Come sappiamo, è questione qui del duplice significato del termine "inconscio", inteso da una parte come fenomeno, e dall'altra come sistema. Ciò può sembrare alquanto ostico ed oscuro, ma conferma in effetti cose già dette e a cui siamo preparati da tempo. Ci aspettiamo che la resistenza venga abbandonata e il controinvestimento ritirato nel momento in cui rendiamo possibile all'Io il riconoscimento di essa attraverso la nostra interpretazione. Con quali forze motrici operiamo in un caso simile? In primo luogo con l'aspirazione del paziente a guarire -aspirazione che lo ha indotto a sottomettersi al comune lavoro con noi -e in secondo luogo ci avvaliamo della sua intelligenza, cui veniamo in appoggio con la nostra interpretazione. Indubbiamente all'intelligenza del malato riesce più facile riconoscere la resistenza e trovare la traduzione corrispondente al rimosso se gli abbiamo fornito le adeguate rappresentazioni anticipatorie. Se vi dico: «Guardate in cielo, c'è un pallone volante», lo trovate molto più facilmente che se vi invitassi soltanto a guardare in alto per vedere se scoprite qualcosa. Anche lo studente che guarda le prime volte attraverso il microscopio viene istruito dall'insegnante su quello che deve vedere, altrimenti non vede nulla, benché qualcosa ci sia e sia visibile.

E ora al fatto. In un gran numero di forme nervose - nelle isterie, negli stati d'angoscia e nelle nevrosi ossessive - la nostra impostazione si rivela giusta. Mediante la caccia alla rimozione, la messa a nudo delle resistenze, l'indicazione di ciò che è stato rimosso, riusciamo realmente a risolvere il problema, ossia a superare le resistenze, ad abolire la rimozione e a trasformare in conscio l'inconscio. Ciò facendo, ricaviamo un'impressione chiarissima della lotta violenta che si svolge nella psiche del paziente per superare ogni singola resistenza: è una lotta psichica normale, su un terreno psicologico omogeneo, tra i motivi che vogliono mantenere il controinvestimento e quelli che sono pronti ad abbandonarlo. I primi sono i vecchi motivi che a suo tempo hanno imposto la rimozione; tra i secondi si trovano quelli sopravvenuti di recente, che si spera decidano il conflitto nella direzione da noi desiderata. Siamo riusciti a ravvivare il conflitto originario che ha portato alla rimozione, a sottoporre a revisione il processo a suo tempo concluso. I nuovi argomenti di cui disponiamo sono, in primo luogo, l'ammonimento che la precedente decisione ha condotto alla malattia e la promessa che una decisione diversa aprirà la strada alla guarigione; in secondo luogo, l'enorme cambiamento avvenuto sotto ogni punto di vista dai tempi di quel primo rifiuto. L'Io era allora debole, infantile, e forse non sbagliava tenendo lontana da sé come un pericolo la richiesta della libido. Ora si è rafforzato e ha acquistato esperienza, e in più può contare sull'appoggio del medico. Possiamo così guidare con soddisfazione il conflitto rianimato verso un esito migliore di quello della rimozione, e, come abbiamo detto, in linea di massima il risultato ci dà ragione nell'isteria, nella nevrosi d'angoscia e nella nevrosi ossessiva.

Ci sono però altre forme di malattia, nelle quali, malgrado le condizioni siano le stesse, il nostro procedimento terapeutico non ha mai successo. Anche in esse si è trattato di un conflitto originario fra l'Io e la libido che ha condotto alla rimozione - anche se quest'ultima va caratterizzata diversamente dal punto di vista topico; anche qui è possibile rintracciare nella vita del malato i momenti esatti in cui sono avvenute le rimozioni; adottiamo il medesimo procedimento, siamo pronti a fare le stesse promesse, forniamo lo stesso aiuto suggerendo rappresentazioni antici-patorie, e anche qui il divario di tempo fra il presente e le rimozioni gioca a favore di un esito diverso del conflitto. È tuttavia non riusciamo ad abolire una sola resistenza o a eliminare una sola rimozione. Questi pazienti - paranoici, melanconici, o affetti da dementia praecox - rimangono tetragoni, refrattari alla terapia psicoanalitica. Da cosa può dipendere questo? Non dalla mancanza di intelligenza; richiediamo naturalmente ai nostri pazienti un certo grado di capacità intellettuale, ma questa ad esempio non fa certo difetto a soggetti come gli acutissimi paranoici combinatori. Non possiamo neanche dire che manchino gli altri incentivi. I melanconici, per esempio, hanno in altissimo grado la consapevolezza - assente nei paranoici - di essere ammalati e di soffrire perciò gravemente, ma non per questo sono più accessibili. Ci troviamo qui di fonte ad un fatto che non comprendiamo, e che ci fa perciò dubitare di avere effettivamente compreso, in tutti i suoi aspetti determinanti, il successo conseguito nelle altre nevrosi.

Tornando a considerare i nostri isterici e nevrotici ossessivi, ci imbattiamo presto in un secondo fatto, al quale non eravamo in alcun modo preparati. Dopo un po' non possiamo fare a meno di notare che questi malati si comportano verso di noi in maniera particolarissima. Credevamo di esserci resi conto di tutte le forze pulsionali che entrano in gioco nella cura, di avere completamente razionalizzato la situazione esistente fra noi e il paziente, così da poterla controllare come un'operazione aritmetica, ed ecco che pare insinuarsi qualcosa di non previsto in questo calcolo. Tale inattesa novità presenta svariati aspetti. Descriverò dapprima le sue manifestazioni più frequenti e facilmente comprensibili.

Notiamo, allora, che il paziente, che dovrebbe cercare soltanto una via d'uscita dai suoi dolorosi conflitti, sviluppa un particolare interesse nei confronti della persona del medico. Tutto ciò che è in qualche modo connesso a questa persona sembra essere ai suoi occhi più importante delle sue stesse faccende, e tale da distoglierlo dalla sua malattia. I rapporti col paziente assumono conseguentemente, per un certo tempo, una forma piuttosto piacevole; egli è particolarmente cortese, cerca, quando può, di mostrarsi riconoscente, mostra finezze e pregi della sua natura di cui forse non sospettavamo l'esistenza. Il medico, dal canto suo, si fa di lui un'opinione favorevole, e si compiace del caso che gli ha permesso di prestare aiuto proprio a una personalità di particolare valore. Se il medico ha occasione di parlare coi congiunti del paziente, apprende con piacere che questa simpatia è reciproca. A casa il paziente non si stanca di lodare il medico, di decantarne sempre nuovi pregi. «È entusiasta di Lei, ha in Lei una fiducia cieca; tutto quello che Lei dice è come una rivelazione per lui», raccontano i familiari. Talvolta uno del coro ha la vista più acuta, e osserva: «Ha cominciato a essere monotono a forza di non parlare d'altro che di Lei e di non avere che il Suo nome in bocca».

Voglio sperare che il medico sia abbastanza modesto da attribuire l'esaltazione della sua persona da parte del paziente alle speranze che egli stesso è in grado di suscitare in lui, e all'ampliamento del suo orizzonte intellettuale dovuto alle sorprendenti e liberatrici rivelazioni che la cura implica. In queste condizioni anche l'analisi fa splendidi progressi, il paziente comprende ogni accenno, si immerge nei compiti che gli vengono richiesti dalla cura; il materiale dei ricordi e delle associazioni gli affluisce copioso, sorprende il medico per la sicurezza e l'esattezza delle sue interpretazioni, e a quest'ultimo non rimane che constatare con soddisfazione con quale prontezza un malato accolga tutte le novità psicologiche che fuori, nel mondo dei sani, suscitano di consueto la più accanita opposizione. Al buon accordo durante il lavoro analitico corrisponde anche un obiettivo miglioramento, sotto tutti i punti di vista, dello stato del paziente.

Ma una stagione così bella non può durare all'infinito. E un bel giorno s'incupisce. Nel trattamento subentrano delle difficoltà, il paziente afferma che non gli viene in mente più nulla. Si ha la netta impressione che il suo interesse sia altrove e che egli trascuri a cuor leggero la prescrizione impartitagli di dire tutto ciò che gli passa per la mente e di non tener conto di alcuna remora critica. Egli si comporta come fa al di fuori della terapia, come se non avesse concluso quel patto con il medico; è evidentemente assorbito da qualcosa che però vuole tenere per sé. Questa è una situazione pericolosa per il trattamento. Ci si trova tipicamente di fronte a una violenta resistenza. Cosa è successo?

Quando si è in grado di chiarire la situazione, si riconosce quale causa del turbamento il fatto che il paziente ha trasferito sul medico intensi sentimenti di tenerezza [zärtliche Gefühle], che né il comportamento del medico né il rapporto instauratosi durante la cura giustificano. La forma in cui questa tenerezza [Zärtlichkeit] si manifesta e i fini a cui mira dipendono naturalmente dalle circostanze in cui si trovano le due persone interessate. Se si tratta di una giovane donna e di un uomo piuttosto giovane, avremo l'impressione di un normale innamoramento, troveremo comprensibile che una ragazza si innamori di un uomo con cui può stare molto tempo da sola e parlare di cose intime, un uomo che le si presenta nella vantaggiosa posizione di chi è allo stesso tempo superiore e soccorritore; e trascureremo probabilmente il fatto che nel caso di una ragazza nevrotica ci sarebbe da aspettarsi piuttosto un disturbo della capacità di amare. Quanto più poi le circostanze personali del medico e del paziente si allontanano dal caso che abbiamo supposto, tanto più ci sorprenderà che si stabilisca comunque e immancabilmente questa stessa relazione emotiva. Passi ancora se la giovane donna, infelice nel matrimonio, appare dominata da una seria passione per il medico, ancora libero, se è pronta a cercare di ottenere lo scioglimento del proprio matrimonio per appartenergli, oppure se, in caso di impedimenti sociali, non manifesta alcuna remora ad intrecciare una segreta relazione amorosa con lui. Cose del genere accadono anche al di fuori della psicoanalisi. Ma in queste circostanze si odono con stupore da parte delle donne e delle ragazze dichiarazioni che attestano una precisa presa di posizione di fronte al problema terapeutico: esse avevano sempre saputo di poter guarire solo attraverso l'amore, e avevano atteso fin dall'inizio della cura che tramite questo contatto umano si offrisse finalmente loro ciò che la vita fino a quel momento non aveva concesso; solo perché avevano questa speranza si erano tanto sforzate durante la cura e avevano superato tutte le difficoltà di comunicazione. E avevano compreso così facilmente cose che altrimenti riescono tanto difficili da credere - aggiungeremo dal canto nostro. D'altra parte una simile confessione ci sorprende; essa rovina i nostri calcoli. Come è mai possibile che abbiamo lasciato fuori dal nostro bilancio preventivo proprio la voce più importante?

In effetti, quanto più progrediamo nell'esperienza tanto meno possiamo opporci a questa rettifica, che umilia le nostre pretese scientifiche. Le prime volte si poteva magari credere che la cura analitica si fosse imbattuta in un intralcio dovuto a un evento casuale, cioè non rientrante nelle sue intenzioni e non da essa provocato. Ma quando un simile legame affettuoso [zärtliche Bindung] del paziente nei confronti del medico si ripete regolarmente a ogni nuovo caso, quando continua a ricomparire nelle condizioni più sfavorevoli, con incongruità addirittura grottesche, anche nella donna attempata, anche verso l'uomo dalla barba grigia, anche là dove a nostro giudizio non esistono allettamenti di sorta, allora non ci resta che abbandonare l'idea di un casuale incidente e riconoscere che si tratta di un fenomeno connesso nel modo più intimo con la natura stessa della malattia.

Il nuovo fatto, che riconosciamo con riluttanza, è da noi chiamato transfert. Intendiamo con ciò una traslazione di sentimenti sulla persona del medico, poiché non riteniamo che la situazione della cura possa giustificare la nascita di simili sentimenti. Presumiamo, al contrario, che l'intera predisposizione a tali sentimenti abbia un'altra origine, che essa preesista nella paziente, e che venga trasferita sulla persona del medico in occasione del trattamento analitico. Il transfert può comparire come appassionata richiesta d'amore o in forme più moderate; al posto del desiderio di essere amata, può affiorare nella giovane donna, nei confronti dell'uomo anziano, il desiderio di essere accolta come figlia prediletta; il desiderio libidico può mitigarsi nella proposta di un'amicizia indissolubile, ma idealmente non sensuale. Alcune donne riescono a sublimare il transfert e a modellarlo finché esso acquista una sorta di compatibilità; altre devono manifestarlo nella sua forma grezza, originaria, perlopiù impossibile. Ma in fondo si tratta sempre della stessa cosa, e non si può misconoscere la sua provenienza dalla medesima fonte.

Prima di domandarci dove vogliamo collocare il nuovo fatto del transfert, terminiamo la sua descrizione. Cosa accade nel caso di pazienti di sesso maschile? Con essi sarebbe legittimo sperare di sfuggire alla molesta interferenza della diversità di sesso e dell'attrazione sessuale. Eppure dobbiamo rispondere che le cose non vanno molto diversamente che con le donne. Lo stesso attaccamento al medico, la stessa sopravvalutazione delle sue qualità, lo stesso assorbimento nei suoi interessi, la stessa gelosia verso tutti quelli che gli stanno vicino. Le forme sublimate del transfert sono più frequenti fra uomo e uomo, e la richiesta sessuale diretta più rara, nella misura in cui l'omosessualità manifesta passa in seconda linea rispetto agli altri impieghi di questa componente pulsionale. Inoltrerei suoi pazienti di sesso maschile il medico osserva più spesso che nelle donne un modo di manifestare il transfert che a prima vista sembra contraddire quanto finora descritto, vale a dire il transfert ostile o negativo.

Mettiamo anzitutto in chiaro che il transfert insorge nel paziente sin dall'inizio del trattamento, e rappresenta per un certo tempo il suo fattore più intensamente propulsivo. Fintantoché esso agisce a favore dell'analisi condotta in comune non lo si avverte, e non c'è neanche bisogno di preoccuparsene. Se poi si trasforma in resistenza, è necessario prestargli attenzione, e si comprende che ha mutato il suo rapporto con la cura allorché si verificano due diverse e opposte condizioni: in primo luogo, quando come inclinazione affettuosa è diventata talmente forte, ha tradito con tale evidenza la sua origine dal bisogno sessuale da dover suscitare contro di sé un'opposizione interna, e, in secondo luogo, quando consiste in impulsi ostili anziché affettuosi. I sentimenti ostili fanno di solito la loro comparsa più tardi di quelli affettuosi, e al seguito di questi ultimi; nella loro presenza simultanea essi rispecchiano bene l'ambivalenza emotiva che domina la maggior parte dei nostri rapporti intimi con gli altri esseri umani. I sentimenti ostili indicano un legame emotivo quanto quelli affettuosi, così come un atteggiamento di sfida indica dipendenza allo stesso modo dell'obbedienza, pur essendo di segno opposto. Non può esservi dubbio per noi che i sentimenti ostili verso il medico meritano il nome di "transfert", perché la situazione della cura non comporta assolutamente il loro insorgere; concepire una forma di transfert negativo è dunque necessario, ci assicura che non siamo caduti in errore nel giudicare quella positiva o affettuosa. 

Da dove sorga il transfert, quali difficoltà ci presenti, come lo superiamo e quale profitto alla fine traiamo da esso, tutto ciò è materia che andrebbe trattata esaurientemente in una guida tecnica all'analisi, e oggi sarà da me soltanto sfiorata. Mentre è ovvio che non dobbiamo cedere alle richieste del paziente che derivano dal transfert, sarebbe assurdo respingerle in modo scortese, o addirittura indignato; noi superiamo il transfert dimostrando all'ammalato che i suoi sentimenti non derivano dalla situazione presente e non sono destinati alla persona del medico, ma rappresentano la ripetizione di qualcosa che in lui è già accaduto precedentemente. In tal modo costringiamo il soggetto a trasformare la sua ripetizione in ricordo. Il transfert, che sembrava costituire comunque (affettuosa o ostile che fosse) la più forte minaccia per la cura, ne diventa allora il migliore strumento, con il cui aiuto si possono aprire i più impenetrabili scomparti della vita psichica. Vorrei dirvi ancora alcune cose, per cancellare il vostro stupore di fronte alla comparsa di questo inatteso fenomeno. Non dimentichiamo che la malattia del paziente che prendiamo in analisi non è qualcosa di concluso, di cristallizzato, ma qualcosa che continua a crescere e a svilupparsi come un essere vivente. L'inizio della cura non pone fine a questo sviluppo ma, appena la cura esercita il suo potere sul malato, avviene che l'intera neoproduzione [Neuproduktion] della malattia si riversi su un solo punto, ossia sul rapporto col medico. Il transfert diviene in tal modo paragonabile allo strato di ricambio cellulare [Cambiumschicht] fra il legno e la corteccia di un albero, dalla quale deriva la formazione di nuovi tessuti e l'aumento di spessore del tronco. Non appena il transfert è assurto a questa importanza, il lavoro sui ricordi dell'ammalato passa decisamente in secondo piano. Allora non è scorretto affermare che non si ha più a che fare con la precedente malattia del paziente, bensì con una nevrosi di nuova formazione e profondamente trasformata, che la sostituisce. Abbiamo seguito fin dall'inizio questa nuova edizione della vecchia malattia, l'abbiamo vista nascere e crescere, e in essa ci raccapezziamo particolarmente bene, perché al suo centro, come oggetto, stiamo noi stessi. Tutti i sintomi del paziente hanno abbandonato il loro significato originario e hanno assunto un nuovo senso, che consiste in un rapporto con il transfert. Oppure sono sopravvissuti solo i sintomi ai quali poteva riuscire una simile trasformazione. Domare questa nuova nevrosi artificiale significa d'altronde anche eliminare la malattia portata nella cura, vale a dire risolvere il nostro compito terapeutico. Colui che nei rapporti con il medico è ormai diventato normale, e non è più soggetto a spinte pulsionali rimosse, resterà tale anche nella vita privata, quando il medico sarà uscito di scena.

Abbiamo ora ogni fondamento per migliorare la nostra precedente concezione dinamica del processo di guarigione e per farla armonizzare con le nuove vedute che abbiamo acquisito. Al malato, che lotta con le resistenze da noi rivelategli nell'analisi, occorre una potente spìnta, che influisca sulla sua decisione nel senso da noi desiderato e sia tale da orientarlo verso la guarigione. Altrimenti potrebbe accadere che egli si decida per la ripetizione dello sbocco precedente e lasci ripiombare nella rimozione ciò che ha fatto risalire fino alla coscienza. A questo punto la lotta è decisa non dalla sua perspicacia intellettuale - che non è né abbastanza forte né abbastanza libera per tale impresa - bensì unicamente dal suo rapporto con il medico. Finché il suo transfert è preceduto dal segno positivo, riveste il medico di autorità e si converte in fiducia nelle sue comunicazioni e concezioni. Senza tale transfert, o se questo è negativo, il paziente non presterebbe nemmeno ascolto al medico e ai suoi argomenti. La fiducia ripete qui la storia della sua genesi: è un derivato dell'amore, e all'inizio non ha avuto bisogno di argomenti. Solo in seguito ha fatto un certo spazio a questi ultimi, sottoponendoli a verifica quando erano esposti da una persona cara. Argomenti privi di tale sostegno non hanno mai avuto valore, non valgono mai nulla nella vita della maggior parte degli uomini. Possiamo dunque dire, in forma generale, che anche sotto il profilo intellettuale l'uomo è accessibile solo in quanto è capace di investimenti libidici oggettuali, e abbiamo valide ragioni per riconoscere e temere nelle dimensioni del suo narcisismo una barriera alla sua influenzabilità, anche a petto della migliore tecnica analitica.

La capacità di rivolgere investimenti libidici oggettuali anche su persone va evidentemente attribuita a tutte le persone normali. L'inclinazione al transfert dei cosiddetti nevrotici è soltanto un accrescimento straordinario di questa universale caratteristica. Sarebbe davvero assai strano se un tratto della natura umana di tale importanza e diffusione non fosse mai stato notato e apprezzato. In effetti ciò è stato fatto. Con sicuro acume Bernheim fondò la teoria dei fenomeni ipnotici sulla tesi che tutti gli uomini sono in qualche modo suscettibili di essere influenzati, "suggestionabili" [suggestibel]. Ciò che egli chiamava suggestionabilità non era altro che l'inclinazione al transfert, intesa in senso un po' troppo ristretto, sì che il transfert negativo non vi trovò posto. Ma Bernheim non potè mai dire che cosa fosse propriamente la suggestione e come si instaurasse. Essa era per lui un dato di fatto fondamentale, della cui provenienza non poteva addurre alcuna prova. Non riconobbe la dipendenza della "suggestibilité" dalla sessualità, dall'attività della libido. Quanto a noi, dobbiamo renderci conto che nella nostra tecnica abbiamo abbandonato l'ipnosi solo per riscoprire la suggestione nella forma del transfert.

A questo punto mi fermo e lascio a voi la parola. Noto che in voi si va agitando un'obiezione, e che questa diventerà tanto forte da togliervi      ogni capacità di ascolto, se non le si lascerà la possibilità di esprimersi: «Infine, dunque, Lei ha ammesso di operare con l'ausilio della suggestione, come gli ipnotizzatori. L'avevamo immaginato da un pezzo. Ma, allora, perché seguire il cammino indiretto attraverso i ricordi del passato, la scoperta dell'inconscio, l'interpretazione e la ritraduzione delle deformazioni, perché questo enorme spreco di fatica, tempo e denaro, se l'unica cosa efficace è la suggestione? Perché non ci dà direttamente dei suggerimenti per combattere i sintomi, come fanno gli altri, gli onesti ipnotizzatori? Tanto più che se vuole addurre la scusa di aver fatto, lungo la via indiretta da Lei seguita, numerose scoperte psicologiche importanti, destinate, con la suggestione diretta, a rimanere nascoste, chi ci garantisce adesso che siano sicure? Non sono, anche queste scoperte, un risultato della suggestione, di una suggestione inintenzionale? Non può Lei, anche in questo campo, imporre all'ammalato ciò che vuole e le sembra giusto?».

La vostra sarebbe un'obiezione interessantissima, certo meritevole di risposta. Ora, tuttavia, questo non è più possibile: ce ne manca il tempo. Ne riparleremo la prossima volta. Per oggi devo ancora portare a termine quanto ho cominciato. Ho promesso di farvi comprendere, con l'aiuto del fatto assodato del transfert, il motivo per cui i nostri sforzi terapeutici non hanno successo nelle nevrosi narcisistiche.

Posso farlo in poche parole, e vedrete con quanta facilità l'enigma si risolverà e tutto tornerà perfettamente. L'osservazione permette di riconoscere che chi soffre di una nevrosi narcisistica non ha la minima capacità dì transfert o ne ha solo residui insufficienti. Sono malati che respingono il medico, non per ostilità, ma per indifferenza. Perciò non possono venire influenzati da lui e ciò che egli dice non fa loro né caldo né freddo; per conseguenza non possiamo con loro mettere in moto il meccanismo di guarigione che riusciamo a far funzionare negli altri, cioè il rinnovamento del conflitto patogeno e il superamento della resistenza dovuta alla rimozione. Restano come sono. Hanno già intrapreso, spesso di propria iniziativa, tentativi di guarigione che hanno prodotto esiti patologici; noi non possiamo mutare questa situazione in alcun modo.

Sulla base delle nostre impressioni cliniche relative a questi malati, avevamo affermato che in essi gli investimenti oggettuali dovevano essere stati abbandonati e la libido oggettuale doveva essere stata trasformata in libido dell'Io. Mediante questa caratteristica li avevamo distìnti dal primo gruppo di nevrotici (affetti da isteria, nevrosi d'angoscia e nevrosi ossessiva). Il loro comportamento di fronte al tentativo terapeutico conferma ora questa supposizione. Essi non mostrano alcun transfert, e perciò sono anche inaccessibili ai nostri sforzi, non curabili da noi.

Lezione 28. La terapia analitica

Signore e signori, conoscete già l'argomento di cui parleremo oggi. Mi avete chiesto perché nella terapia psicoanalitica non ci serviamo della suggestione diretta, dal momento che ammettiamo che la nostra influenza sia basata essenzialmente sul transfert, ossia sulla suggestione; e in connessione con ciò avete sollevato il dubbio se, posto un simile predominio della suggestione, possiamo ancora renderci garanti dell'obiettività delle nostre scoperte psicologiche. Ho promesso di fornirvi in merito una risposta esauriente.

Suggestione diretta significa suggestione rivolta contro la manifestazione dei sintomi, lotta tra la vostra autorità e i motivi della malattia. Nella lotta non vi curate di questi motivi, ma dall'ammalato richiedete soltanto che questi ne reprima la manifestazione in sintomi. In linea di principio non fa differenza alcuna se l'ammalato sia stato posto da voi in stato ipnotico o no. Ancora una volta Bernheim, con l'acutezza che lo distingue, sostiene che nei fenomeni di ipnotismo la suggestione è l'essenziale, che l'ipnosi stessa è già un risultato della suggestione, uno stato suggerito, e ha esercitato la suggestione di preferenza nello stato vigile - suggestione che può ottenere gli stessi effetti di quella in ipnosi.

Che cosa volete ascoltare per prima cosa riguardo alla questione in esame, i dati dell'esperienza o le considerazioni teoriche?

Cominciamo con i primi. Io fui allievo di Bernheim, che andai a trovare a Nancy nel 1889 e di cui tradussi in tedesco il libro sulla suggestione. Esercitai per anni il trattamento ipnotico, dapprima con suggestione inibitoria, più tardi combinata col metodo breueriano di esplorazione [Ausforschung] del paziente. Posso quindi parlare dei risultati della terapia ipnotica o suggestiva sulla scorta di una buona esperienza. Se, stando a un antico detto medico, una terapia ideale deve essere rapida, sicura e non spiacevole per l'ammalato, il metodo di Bernheim rispondeva certamente a due di questi requisiti. Si poteva eseguire in modo molto più rapido, anzi infinitamente più rapido, di quello analitico, e non comportava per l'ammalato né fatica né inconvenienti. Per il medico alla lunga diventava perfino monotono: proibire in ogni caso e allo stesso modo, con il medesimo cerimoniale, ai più svariati sintomi di esistere, senza poter afferrare qualcosa del loro senso e della loro importanza, era un lavoro artigianale, non un'attività scientifica, e ricordava la magia, l'evocazione e l'abracadabra. Ciò naturalmente non contava di fronte all'interesse dell'ammalato. Il terzo requisito gli mancava; il procedimento non era sicuro sotto nessun profilo. Poteva essere applicato ad una persona ma non all'altra; in un caso si otteneva molto, nell'altro pochissimo, e non si sapeva mai perché. Peggiore di questa precarietà del procedimento era la mancanza di durata dei risultati. Se dopo qualche tempo si tornava ad avere notizia degli ammalati, si apprendeva che la vecchia sofferenza era ricomparsa, oppure era stata sostituita da una nuova. Si era nella situazione di dovere nuovamente ipnotizzare il soggetto. Sullo sfondo c'era d'altra parte l'ammonimento, pronunciato da fonti esperte, a non privare gli ammalati della loro indipendenza con la frequente ripetizione dell'ipnosi, e a non abituarli a questa terapia come ad un narcotico. E pur vero che talvolta la cosa andava come si voleva, e dopo pochi sforzi si aveva un successo pieno e duraturo. Ma le condizioni che avevano determinato un esito così favorevole rimanevano sconosciute. Una volta mi accadde che uno stato grave, che avevo eliminato del tutto grazie a un breve trattamento ipnotico, ritornò immutato dopo che la malata se l'era presa con me senza che ne avessi colpa; dopo la riconciliazione feci sparire di nuovo il disturbo e molto più radicalmente; esso riapparve tuttavia allorché la paziente ruppe i rapporti con me per la seconda volta. Un'altra volta mi successe che una malata, da me ripetutamente aiutata con l'ipnosi a uscire da stati nervosi, durante il trattamento di un accesso particolarmente ostinato mi gettò improvvisamente le braccia al collo. Dopo questi fatti chiunque, volente o nolente, si sarebbe sentito costretto a occuparsi del problema riguardante la natura e la provenienza della propria autorità suggestiva.

Fin qui le esperienze. Esse ci mostrano che con la rinuncia alla suggestione diretta non abbiamo perso nulla di insostituibile. Consentitemi ora di riallacciare a quanto finora considerato alcune riflessioni. L'esercizio della terapia ipnotica implica una prestazione assolutamente irrilevante sia da parte del paziente che del medico. Questa terapia si accorda perfettamente con la valutazione delle nevrosi ancor oggi in uso presso la maggior parte dei medici. Il medico dice al nervoso: «Lei non ha nulla che non vada, è solo un fatto nervoso, e perciò posso liberarla dai suoi guai con due o tre parole in pochi minuti». Ripugna però alla nostra modalità di pensiero energetico [energetischen Denken] l'idea che sia possibile muovere con uno sforzo esiguo un grosso peso, affrontandolo direttamente e senza l'aiuto esterno di strumenti adatti. Nella misura in cui due situazioni sono confrontabili, l'esperienza insegna che tale prodezza non può riuscire nemmeno nelle nevrosi. D'altra parte so che questo argomento non è inoppugnabile; esistono anche le "reazioni a catena" [Auslosungen].

Alla luce della conoscenza ricavata dalla psicoanalisi, possiamo descrivere in questo modo la differenza fra la suggestione ipnotica e quella psicoanalitica: la terapia ipnotica cerca di ricoprire e mascherare qualcosa nella vita psichica, quella analitica tenta di mettere allo scoperto e di allontanare qualcosa. La prima opera come una cosmesi, la seconda come una chirurgia. La prima utilizza la suggestione per vietare i sintomi, rafforza le rimozioni, ma per il resto lascia immutati tutti i processi che hanno condotto alla formazione dei sintomi. La terapia analitica penetra molto più alle radici, ove sussistono i conflitti dai quali sono scaturiti i sintomi, e si serve della suggestione per modificare l'esito di questi conflitti. La terapia ipnotica lascia il paziente inattivo e immutato, e perciò privo di resistenza di fronte ad ogni nuova occasione di ammalarsi. La cura analitica impone tanto al medico quanto al malato un lavoro pesante per abolire le resistenze interne. Con il superamento di queste resistenze la vita psichica del malato viene mutata per sempre, viene elevata ad un grado superiore di sviluppo e preservata da nuove possibilità di malattia. Tale lavoro di superamento è la funzione essenziale della cura analitica; il malato deve compierlo, e il medico glielo rende possibile con l'ausilio della suggestione, operante nel senso di una educazione. Perciò si è anche detto a ragione che il trattamento psicoanalitico è una sorta di post-educazione [Nacherziehung].

Spero di avervi reso chiaro in che cosa il nostro modo di impiegare terapeuticamente la suggestione differisce dall'unico suo impiego possibile nella terapia ipnotica. Riconducendo la suggestione al transfert comprendete bene anche l'imprevedibilità che abbiamo notato relativamente alla terapia ipnotica, laddove quella analitica resta, nei suoi limiti, qualcosa su cui si può fare affidamento. Neil'applicare l'ipnosi dipendiamo dalla capacità di transfert del malato, senza poter esercitare alcuna influenza su di essa. Il transfert dell'ipnotizzando può essere negativo o, come avviene nella maggior parte dei casi, ambivalente, oppure egli può essersi protetto dal suo transfert mediante particolari atteggiamenti; di ciò noi non veniamo a sapere nulla. Nella psicoanalisi lavoriamo sul transfert stesso, sciogliamo ciò che gli si oppone, mettiamo a punto lo strumento con il quale intendiamo operare. Così ci diviene possibile trarre un profitto interamente diverso dal potere della suggestione; questo potere lo dominiamo perfettamente. Non è l'ammalato a suggerirsi da solo ciò che gli piace, ma siamo noi a guidarne la suggestione -ammesso che egli si riveli accessibile all'influsso di quest'ultima.

Ora direte: sia che chiamiamo transfert la forza motrice della nostra analisi, sia che la chiamiamo suggestione, esiste comunque il pericolo che influenzare il paziente renda dubbia l'oggettività delle nostre scoperte. Ciò che va a vantaggio della terapia andrebbe a scapito dell'indagine. È l'obiezione più frequentemente sollevata contro la psicoanalisi, e si deve ammettere che, pur non cogliendo perfettamente nel segno, non si può rifiutarla come insensata. Se tale obiezione fosse giustificata, la psicoanalisi non sarebbe altro che un tipo particolarmente ben camuffato, particolarmente efficace, di trattamento basato sulla suggestione, e noi potremmo evitare di dare troppo peso a tutte le sue asserzioni sugli influssi cui siamo soggetti nella vita, sulla dinamica psichica e sull'inconscio. E appunto ciò che pensano i nostri oppositori; in particolare, tutto quanto si riferisce all'importanza delle esperienze sessuali, se non addirittura queste esperienze stesse, sarebbe stato da noi "dato a intendere" [eingeredet] agli ammalati dopo che tali elucubrazioni si sono sviluppate nella nostra fantasia depravata. Risulta più agevole confutare queste accuse facendo appello all'esperienza, che alla teoria. Chi ha eseguito personalmente delle psicoanalisi ha potuto convincersi in svariate occasioni che è impossibile suggestionare il malato in questo modo. Non che sia difficile farlo diventare seguace di una certa teoria, e

renderlo così partecipe di un eventuale errore del medico. In ciò il paziente si comporta come chiunque altro, come qualsiasi allievo; in tal modo, tuttavia, si è influenzata solo la sua intelligenza, non la sua malattia. La soluzione dei suoi conflitti e il superamento delle sue resistenze riescono solo se gli sono state date quelle rappresentazioni anticipatone [Erwartungsvorstellungen] che concordano con la realtà che è in lui. Ciò che era inesatto nelle supposizioni del medico viene a cadere nel corso dell'analisi, e va quindi ritirato e sostituito con qualcosa di più giusto. Per mezzo di una tecnica accurata si cerca di impedire che la suggestione ottenga provvisoriamente ciò che vuole; ma se ciò avviene non c'è da preoccuparsene, poiché nessuno si accontenta del primo successo. Non riteniamo terminata l'analisi se non sono state chiarite tutte le oscurità del caso, colmate le lacune della memoria, scoperte le occasioni in cui sono avvenute le rimozioni. Nei successi che subentrano troppo presto scorgiamo piuttosto ostacoli che incoraggiamenti al lavoro analitico, e distruggiamo nuovamente questi successi, dissolvendo di continuo il transfert sul quale si basano. In fondo, è quest'ultimo tratto che distingue il trattamento analitico da quello puramente suggestivo e libera i risultati analitici dal sospetto di essere successi dovuti a suggestione. In ogni altro trattamento suggestivo il transfert viene accuratamente risparmiato, lasciato intatto; in quello analitico è esso stesso oggetto del trattamento, e viene scomposto in ognuna delle sue forme. A conclusione di una cura analitica, il transfert stesso deve essere smontato; e se a questo punto il buon esito si concreta o si rivela duraturo, esso non è basato sulla suggestione, bensì sul fatto - realizzatosi con l'ausilio del transfert - di aver superato le resistenze interne, ossia sul mutamento interno provocato nel paziente.

Contro l'originarsi di suggestioni singole agisce certamente il fatto che, durante la cura, dobbiamo ininterrottamente opporci a resistenze capaci di trasformarsi in transfert negativi (ostili) [feindselige]. Non dobbiamo poi trascurare il fatto che un gran numero di singoli risultati dell'analisi, che potrebbero sembrare prodotti della suggestione, trovano altrove una conferma ineccepibile. Ci sono garanti, in questo caso, i dementi e i paranoici, i quali, ovviamente, non possono neanche lontanamente essere sospettati di subire l'influsso della suggestione. Le traduzioni di simboli e le fantasie che - essendosi aperte la strada fino alla loro coscienza - questi malati ci raccontano coincidono fedelmente con i risultati delle nostre indagini sull'inconscio dei nevrotici di transfert [Ubertragungsneurotiker], e convalidano così la obiettiva correttezza delle nostre interpretazioni, spesso messe in dubbio. Credo proprio che non sbagliereste dando fiducia all'analisi su questi punti.

Vorrei ora completare il mio quadro del meccanismo della guarigione, rivestendolo con le formule della teoria della libido. Il nevrotico è incapace di godere e di agire; è incapace di godere perché la sua libido non è rivolta verso alcun oggetto reale, è incapace di agire perché deve spendere gran parte della propria energia per mantenere rimossa la libido e premunirsi contro il suo assalto. Egli guarirebbe se il conflitto fra il suo Io e la sua libido avesse termine e il suo Io ritornasse a disporre della sua libido. Il compito terapeutico consiste quindi nello sciogliere la libido dai suoi legami attuali sottratti all'Io, e nel metterla di nuovo al servizio dell'Io. Ma dove si è nasconde la libido del nevrotico? Non è difficile trovarla: essa è legata ai sintomi, che le garantiscono l'unico soddisfacimento sostitutivo possibile al momento. Si deve quindi diventare capaci di padroneggiare i sintomi, di risolverli, ed è proprio quello che il malato esige da noi. Per sciogliere i sintomi diventa indispensabile risalire fino alla loro origine, rinnovare il conflitto dal quale sono scaturiti e, con l'aiuto di quelle forze motrici che a suo tempo non erano disponibili, indirizzare tale conflitto verso uno sbocco diverso. Questa revisione del processo che ha portato alla rimozione può essere compiuta solo in parte in base alle tracce mnestiche degli accadimenti passati. La parte decisiva del lavoro consiste nel ricreare, all'interno del rapporto con il medico, cioè del "transfert", nuove edizioni [Neuauflagen] di quei vecchi conflitti, in relazione ai quali l'ammalato vorrebbe comportarsi come si comportò a suo tempo, mentre lo si costringe a decidersi differentemente, chiamando a raccolta tutte le forze psichiche in lui disponibili. Il transfert diventa dunque il campo di battaglia nel quale sono destinate a incontrarsi tutte le forze in lotta tra loro.

Tutta la libido, come pure ogni cosa che ad essa si oppone, viene concentrata su quest'unico rapporto con il medico, sicché è inevitabile che i sintomi vengano spogliati della libido. Al posto della malattia propria del paziente subentra quella - artificialmente prodotta - del transfert, la malattia di transfert; al posto dei più svariati oggetti libidici irreali subentra l'unico oggetto, pure fantastico, della persona del medico. Con l'aiuto della suggestione del medico, la nuova lotta intorno a questo oggetto viene però innalzata al più alto livello psichico, si svolge come un conflitto psichico normale. Con l'evitare una nuova rimozione si pone fine all'estraniamento tra l'Io e la libido, e si ripristina l'unità psichica della persona. Quando la libido torna a staccarsi dall'oggetto temporaneo, ossia dalla persona del medico, non può ritornare ai suoi oggetti precedenti, ma rimane a disposizione dell'Io. Le forze contro cui si è combattuto durante questo lavoro terapeutico sono, da un lato, l'avversione dell'Io - manifestatasi come tendenza alla rimozione - rispetto a determinati orientamenti libidici, e dall'altro, la caparbietà o carattere adesivo [Klebrigkeit] della libido, che non abbandona volentieri gli oggetti una volta che li ha investiti.

Il lavoro terapeutico si scompone quindi in due fasi: nella prima tutta quanta la libido, tolta ai sintomi, viene spinta nel transfert e là concentrata; nella seconda fase viene condotta la lotta intorno a questo nuovo oggetto, finché la libido non viene liberata da esso. Il mutamento che determina l'esito favorevole è, in questo rinnovato conflitto, l'esclusione della rimozione, sì che la libido non può più sottrarsi all'Io con la fuga nell'inconscio. Ciò è reso possibile dall'alterazione che nell'Io si realizza sotto l'influsso della suggestione del medico. Mediante il lavoro interpretativo, che trasforma in conscio ciò che è inconscio, l'Io viene ingrandito a spese di questo inconscio; attraverso l'insegnamento l'Io viene reso conciliante verso la libido e incline a concederle un qualche soddisfacimento, e il suo orrore di fronte alle richieste della libido viene ridotto grazie alla possibilità di liquidarne una parte mediante la sublimazione. Quanto più ciò che avviene nel trattamento coinciderà con questa descrizione ideale, tanto più grande sarà il successo della terapia analitica. Esso trova i suoi ostacoli nella mancanza di mobilità della libido, che può rifiutarsi di abbandonare i suoi oggetti, e nella rigidità del narcisismo, che non permette al transfert oggettuale di svilupparsi al di là di un certo limite. Forse può servire a chiarire ulteriormente la dinamica del processo di guarigione la messa in evidenza del fatto che noi catturiamo tutta quanta la libido che è stata sottratta al dominio dell'Io, attirandone una parte su noi stessi attraverso il transfert.

Non sarà inopportuno avvertirvi di una cosa: non è lecito trarre alcuna conclusione diretta sulla collocazione [Unterbringung] della libido nel corso della malattia, in base alle sue ripartizioni [Verteiligungen] durante e in seguito al trattamento. Supponiamo di essere riusciti a portare felicemente a termine il caso, prima creando e poi dissolvendo un forte transfert paterno sul medico: sarebbe errato dedurne che l'ammalato abbia sofferto in precedenza di un simile attaccamento inconscio al padre. Il transfert paterno è solo il campo di battaglia sul quale ci impadroniamo della libido; la libido dell'ammalato è stata convogliata qui da altre posizioni. Questo campo di battaglia non necessariamente coincide con una delle principali roccaforti del nemico, così come non occorre che la difesa della più importante città nemica avvenga proprio davanti alle sue porte. Soltanto dopo che si è dissolto il transfert è possibile ricostruire mentalmente la ripartizione [Verteiligung] della libido durante la malattia.

Dal punto di vista della teoria della libido possiamo ancora dire un'ultima cosa sul sogno. I sogni dei nevrotici - come i loro atti mancati e le loro libere associazioni - ci servono a scoprire il senso dei sintomi e la collocazione della libido. Essi ci mostrano, sotto forma di appagamenti di desiderio, quali moti di desiderio [Wunschregungen] siano caduti in preda alla rimozione e a quali oggetti si sia legata la libido sottratta all'Io. L'interpretazione dei sogni ha perciò nel trattamento psicoanalitico una notevole funzione e, in alcuni casi, è per lunghi periodi lo strumento d'indagine più importante. Sappiamo già che lo stato di sonno provoca di per sé un certo cedimento delle rimozioni. Grazie all'attenuazione del peso che normalmente lo opprime, l'impulso rimosso riesce a procurarsi nel sogno un'espressione molto più chiara di quella che il sintomo può consentirgli durante il giorno. Lo studio del sogno diventa così la più agevole via d'accesso alla conoscenza dell'inconscio rimosso, al quale appartiene la libido sottratta all'Io.

D'altra parte i sogni dei nevrotici non differiscono in alcun punto essenziale dai sogni delle persone normali; anzi, forse non sono distinguibili affatto da questi ultimi. Sarebbe privo di senso spiegare i sogni dei nervosi in un modo che non fosse valido anche per i sogni delle persone normali. Dobbiamo quindi dire che la differenza fra nevrosi e salute vale solo per il giorno, non si protrae nella vita onirica. Siamo costretti a trasferire sulla persona sana una quantità di ipotesi nate in relazione al nevrotico in base alla connessione tra i suoi sogni e i suoi sintomi. Non possiamo disconoscere che anche il sano possiede, nella sua vita psichica, ciò che di per sé e soltanto rende possibile sia la formazione dei sogni sia quella dei sintomi, e dobbiamo trarre la conclusione che anch'e-gli abbia compiuto rimozioni, che spenda una certa energia per mantenerle, che il suo sistema inconscio celi impulsi rimossi e ancora investiti di energia, e che una parte della sua libido rimanga sottratta alla disponibilità del suo Io. Anche il sano è quindi virtualmente un nevrotico, ma a quanto pare l'unico sintomo che sia in grado di formare è il sogno; d'altronde, se si sottopone la sua vita vigile a un più acuto esame, si scopre - ciò che contraddice questa apparenza - che la sua presunta sanità è permeata di un'infinità di formazioni sintomatiche non significative nella vita pratica.

La differenza fra sanità nervosa e nevrosi si limita quindi al campo pratico, e si determina a seconda del risultato, vale a dire a seconda che alla persona sia rimasto o meno un sufficiente grado di capacità di godere e di fare. Essa risale verosimilmente al rapporto relativo tra gli importi di energia rimasti liberi e quelli legati da rimozione, ed è di natura quantitativa, non qualitativa. Non occorre che vi faccia presente che questa scoperta giustifica teoricamente la convinzione che in linea di principio le nevrosi sono curabili, nonostante siano basate sulla disposizione costituzionale. Al fine di caratterizzare la sanità, questo è quanto possiamo inferire dalla constatata identità dei sogni nei sani e nei nevrotici. Per quanto riguarda il sogno stesso, ne consegue l'ulteriore deduzione che non possiamo scioglierlo dalle sue relazioni con i sintomi nevrotici, che non dobbiamo credere che la sua natura si esaurisca nella formula di una traduzione di pensieri in una forma arcaica d'espressione, e che dobbiamo supporre che esso ci mostri collocazioni libidiche [Libidounterbrin-gungen] e investimenti oggettuali effettivamente esistenti.

Stiamo per giungere alla fine. Forse siete delusi che sull'argomento della terapia psicoanalitica vi abbia parlato solo di teoria e non vi abbia detto nulla delle condizioni indispensabili per iniziare un trattamento, né dei risultati che si ottengono. Ometto volutamente entrambe le cose: le condizioni, perché non intendo fornirvi un'istruzione pratica per l'esercizio della psicoanalisi, e i risultati, perché svariati motivi mi trattengono dal farlo. Ho evidenziato, all'inizio delle nostre conversazioni, che in condizioni favorevoli noi otteniamo risultati di guarigione che non hanno nulla da invidiare ai più felici successi nel campo della terapia interna; a questo proposito potrei ora aggiungere che tali risultati non sarebbero stati conseguiti con alcun altro procedimento. Se dicessi di più mi attirerei il sospetto di fare della pubblicità alla psicoanalisi per sopraffare lo schiamazzo dei suoi denigratori. Contro gli psicoanalisti è stata pronunciata ripetutamente, da parte di "colleghi" medici, anche in pubblici congressi, la minaccia di aprire gli occhi al pubblico dei sofferenti sul valore nullo di questo metodo di cura, facendo ricorso ad una raccolta di insuccessi dell' analisi e dei danni da essa arrecati. A prescindere dal carattere astioso e delatorio di questa denunzia, una simile raccolta non servirebbe affatto a produrre elementi per un giudizio corretto sull'efficacia terapeutica dell'analisi. Come sapete, la terapia psicoanalitica è giovane; c'è voluto molto tempo prima di poterne definire la tecnica, e questo, inoltre, è potuto avvenire solo nel corso del lavoro e per merito dell'esperienza che andava progressivamente accumulandosi. Poiché è difficile insegnarla, il medico principiante nella psicoanalisi, in misura superiore a qualsiasi altro specialista, è costretto a fare assegnamento sulla propria personale capacità di perfezionarsi; e i risultati dei suoi primi anni non permetteranno mai di giudicare l'efficacia della terapia analitica.

Agli albori dell'analisi molti tentativi di trattamento fallirono perché intrapresi in relazione a casi che non erano adatti al metodo, e che oggi noi escludiamo sulla base di acquisite indicazioni. Queste indicazioni, d'altronde, è stato possibile ottenerle solo mediante tentativi. A quei tempi non sapevamo a priori che la paranoia e la dementia praecox in forme pronunciate sono inaccessibili, e avevamo ancora il diritto di provare il metodo su ogni sorta di affezioni. La maggior parte degli insuccessi di quei primi anni, d'altra parte, non si sono verificati per colpa del medico o per scelta inadatta degli oggetti da analizzare, ma a causa di circostanze esterne sfavorevoli. Finora vi ho parlato solo delle resistenze interne, ovvero di quelle del paziente, che sono inevitabili e superabili. Le resistenze esterne che si oppongono all'analisi, quelle che nascono dalla situazione in cui si trova l'ammalato e dal suo ambiente, hanno uno scarso interesse teorico, ma la massima importanza pratica. Il trattamento psicoanalitico deve essere paragonato a un intervento chirurgico; al pari di questo, l'analisi richiede di essere intrapresa nelle condizioni che ne garantiscano al massimo il successo. Sapete bene quali misure precauzionali sia solito adottare il chirurgo: ambiente adatto, luce ottimale, assistenza, esclusione dei congiunti ecc. Provate a domandarvi quante di queste operazioni avrebbero buon esito se dovessero aver luogo alla presenza di tutti i membri della famiglia, che ficcassero il naso sul tavolo operatorio e a ogni taglio di bisturi si mettessero a strillare. Nei trattamenti psicoanalitici l'intrusione dei congiunti costituisce appunto un pericolo - uno di quei pericoli che non si sa come fronteggiare.

Si è armati in effetti contro le resistenze interne del paziente, che si riconoscono necessarie, ma come ci si deve difendere contro simili resistenze esterne? I congiunti del paziente sono tetragoni ad ogni spiegazione, è impresa impossibile indurli a tenersi lontani dall'intera faccenda, e non si deve mai far causa comune con loro, perché in questo caso si corre il pericolo di perdere la fiducia dell'ammalato, il quale - non a torto - esige che il suo uomo di fiducia prenda anche le sue parti. Chi ha un'idea delle discordie da cui sono spesso lacerate le famiglie non può essere sorpreso, nemmeno come analista, di accorgersi che i parenti più prossimi del malato talvolta rivelano scarso interesse per il fatto che il loro congiunto guarisca, piuttosto che resti com'è. Come spesso avviene ove la nevrosi sia connessa con conflitti fra membri della famiglia, il parente sano non esita a lungo nella scelta tra il suo interesse e quello di far guarire l'ammalato. Dopotutto non c'è da meravigliarsi se il marito non vede di buon occhio un trattamento nel quale, come ha ragione di presumere, verrà tirato in ballo il catalogo dei suoi peccati; non ce ne meravigliamo, ma certamente non possiamo farci alcun rimprovero se la nostra fatica rimane senza successo e viene interrotta prematuramente perché alla resistenza della moglie ammalata è venuta ad aggiungersi quella del marito. In effetti avevamo intrapreso qualcosa che, date le circostanze, era inattuabile.

Invece di dilungarmi su molti casi, vorrei raccontarvene solo uno, nel quale, per ragioni di discrezione medica, fui costretto ad assumere il ruolo di chi ha la peggio. Presi in cura analitica - molti anni fa - una giovinetta che già da vario tempo, poiché sofferente d'angoscia, non era in grado di uscire in strada e di rimanere in casa da sola. Lentamente l'ammalata giunse a confessare che la sua fantasia era stata colpita da casuali osservazioni dei teneri rapporti esistenti fra sua madre e un agiato amico di famiglia. Fu però così malaccorta - o così raffinata - da far intuire alla madre ciò di cui si era parlato nell'analisi, poiché cambiò il suo comportamento verso di lei, sostenendo di non voler essere protetta da nessun altro all'infuori di lei contro l'angoscia di stare sola, e sbarrandole angosciata la porta allorché voleva uscire di casa. La madre, in passato, era stata anch'essa molto nervosa, ma aveva ritrovato anni prima la salute in uno stabilimento idroterapico. Anzi, proprio in quello stabilimento aveva fatto la conoscenza dell'uomo con il quale aveva allacciata una relazione che la soddisfaceva in ogni senso. Stupefatta dalle appassionate esigenze della ragazza, la madre improvvisamente comprese cosa significasse l'angoscia della figlia. Questa aveva fatto in modo di ammalarsi per tenere prigioniera la madre e toglierle la libertà di movimento necessaria a frequentare l'amante. Fulminea fu la risoluzione della madre di porre fine alla dannosa cura. La ragazza fu portata in un istituto per malattie nervose, e indicata per lunghi anni come una "povera vittima della psicoanalisi". Per tutto questo tempo mi hanno perseguitato le calunnie legate al cattivo esito di questo trattamento. Ho mantenuto il silenzio perché mi ritenevo legato al dovere del riserbo professionale. Molto tempo dopo ho saputo da un collega, che aveva visitato quell'istituto e aveva visto la ragazza agorafobica, che la relazione fra sua madre e il facoltoso amico di famiglia era di pubblico dominio, e probabilmente aveva il consenso del marito e padre. A questo "segreto" era stato sacrificato il trattamento.

Negli anni precedenti la guerra, quando l'affluenza di pazienti da molti paesi stranieri mi rendeva indipendente dal favore o sfavore della mia città natale, seguivo la regola di non prendere in cura alcun malato che non fosse sui juris, ossia indipendente dagli altri nelle relazioni essenziali della vita. Questo però non può permetterselo ogni psicoanalista. Forse dal mio ammonimento a guardarsi dai congiunti trarrete la conclusione che, ai fini della psicoanalisi, si debbano sottrarre gli ammalati alle loro famiglie, e che occorra dunque limitare questa terapia ai degenti degli istituti per malattie nervose. In tal caso non potrei essere d'accordo con voi: è assai più consigliabile che gli ammalati - purché non si trovino in una fase di grave esaurimento - durante il trattamento rimangano nelle condizioni che li obbligano ad affrontare i loro problemi man mano che si presentano. Bisognerebbe che i congiunti non cancellassero questo vantaggio con il loro comportamento, e non si opponessero in alcun modo, con atteggiamenti ostili, agli sforzi del medico: ma come influenzare questi fattori, inaccessibili al nostro volere? Comprenderete, inoltre, quanto siano importanti per le prospettive di riuscita di un trattamento l'ambiente sociale e il livello culturale della famiglia dell'ammalato.

Diciamo pure che, anche se possiamo spiegare la grande maggioranza dei nostri insuccessi tenendo conto di questi elementi di disturbo esterni, quanto detto finora fornisce un quadro fosco dell'efficacia della psicoanalisi come terapia. Amici della psicoanalisi ci hanno quindi consigliato di rispondere alla raccolta degli insuccessi redigendo una statistica dei successi. Non ho aderito a questo suggerimento. Ho fatto notare che una statistica è priva di valore se le unità allineate le une accanto alle altre non sono sufficientemente omogenee, ed effettivamente i casi di malattia nevrotica presi in cura erano troppo disparati sotto i più diversi aspetti. Il periodo di tempo cui era possibile riferirsi era inoltre troppo breve per giudicare del carattere duraturo delle guarigioni. Molti casi, poi, non potevano neppure essere comunicati. Essi riguardavano persone che avevano tenuto segreti sia la loro malattia sia il loro trattamento, e la cui guarigione doveva essere tenuta ugualmente nascosta. Il più forte impedimento era costituito, però, dall'aver compreso che la gente, in fatto di terapia, si comporta in modo sommamente irrazionale, e quindi non si ha alcuna prospettiva di approdare a nulla con mezzi razionali. Un'innovazione terapeutica o viene accolta con travolgente entusiasmo, come ad esempio quando Koch presentò al pubblico la sua prima tubercolina contro la tubercolosi, o viene trattata con abissale diffidenza, come la vaccinazione antivaiolosa davvero provvidenziale di Jenner, che conserva ancora oggi i suoi irriducibili avversari. Contro la psicoanalisi esisteva evidentemente un pregiudizio. Dopo aver risolto un caso difficile, ci è capitato di sentirci dire: «Questa non è una prova, sarebbe guarito anche da solo in tutto questo tempo». Ma quando un'ammalata, che aveva attraversato già quattro cicli di depressione e di mania, in una pausa dopo la melanconia venne a sottoporsi al mio trattamento e tre settimane più tardi si trovò nuovamente all'inizio di una mania, non solo tutti i membri della famiglia, ma anche l'alta autorità medica chiamata a consulto manifestarono la convinzione che il nuovo accesso potesse essere solo la conseguenza dell'analisi tentata su di lei. Nulla si può contro i pregiudizi; lo scoprite di nuovo oggi, osservando quelli che ciascun gruppo dei popoli che sono in guerra ha sviluppato contro l'altro. La cosa più ragionevole è aspettare, e lasciare che il tempo si incarichi di logorarli. Un giorno i medesimi uomini la penseranno diversamente sulle medesime cose; perché non l'abbiano pensata così già prima resta un oscuro enigma.

Forse il pregiudizio contro la terapia analitica è già ora sulla via del declino. Sembrano testimoniarlo la costante diffusione delle teorie analitiche e il crescente numero di medici che praticano il trattamento analitico in parecchi paesi. Quando ero un giovane medico, mi trovai in mezzo a una tempesta d'indignazione identica a questa, sollevata dai medici che avversavano il trattamento fondato sulla suggestione ipnotica - trattamento che oggi viene contrapposto alla psicoanalisi da parte dei "moderati". Peraltro l'ipnotismo, come agente terapeutico, non ha mantenuto ciò che originariamente prometteva; noi psicoanalisti possiamo dichiararci suoi legittimi eredi, e non dimentichiamo di quanti incoraggiamenti e chiarimenti teorici gli siamo debitori. I risultati dannosi attribuiti alla psicoanalisi si limitano essenzialmente a manifestazioni transitorie, in cui i conflitti si fanno più intensi se l'analisi viene eseguita malamente o viene interrotta a metà. Per parte vostra, avete udito una relazione completa di ciò che facciamo con l'ammalato e siete in grado di formarvi personalmente un giudizio se i nostri sforzi sono idonei a portare un danno duraturo. Abusare dell'analisi è possibile in diversi modi; il transfert in particolare è un mezzo pericoloso nelle mani di un medico poco coscienzioso. Ma nessun mezzo o procedimento medico è garantito dall'abuso: se un bisturi non taglia, non può nemmeno servire a guarire.

Eccomi ora giunto alla fine, signore e signori. Dico di più della solita frase di circostanza se confesso di essere dolorosamente consapevole dei molti difetti delle lezioni che vi ho tenuto. Mi dispiace soprattutto di avervi così spesso promesso di ritornare su un tema brevemente accennato, mentre il contesto non mi ha poi consentito di mantenere la parola data. Ho tentato di riferire su una tematica ancora incompiuta, ancora in corso di sviluppo, e il mio stringato sommario è diventato a sua volta incompleto. In alcuni punti ho predisposto il materiale per una conclusione che poi io stesso non ho tratto. Non potevo d'altronde pretendere di fare di voi degli esperti; il mio intento è stato solo quello di esservi di chiarimento e di stimolo.

Il transfert ha questa importanza straordinaria - importanza, direi, addirittura fondamentale per la cura - nelle isterie, nelle isterie d'angoscia e nelle nevrosi ossessive, le quali perciò vengono raggruppate, a ragione, sotto la comune denominazione di "nevrosi di transfert". Chi ha ricavato dal lavoro analitico un quadro complessivo del transfert non può più dubitare di quale natura siano gli impulsi repressi che giungono ad espressione nei sintomi di queste nevrosi, e non pretende che vengano addotte prove più convincenti del loro carattere libidico. Possiamo dire che soltanto con l'inserimento del transfert il nostro convincimento sul significato dei sintomi come soddisfacimenti libidici sostitutivi si è definitivamente consolidato.